L’Europa ce lo ordina, bisogna rifare la disciplina fallimentare. E il governo ha approvato nel consiglio dei ministri dell’11 febbraio, un disegno di legge delega che recepisce gran parte delle indicazioni contenute in una raccomandazione del 2014. Le riforme che interessano la materia delle procedure concorsuali sono diventate negli ultimi anni sempre più frequenti. E questo significa almeno due cose: primo, diventa sempre più grave il problema delle imprese che, non riuscendo più a onorare i propri impegni finiscono in default (sono state 96 mila nel 2015), causando problemi ad altre società e innescando una spirale perversa che finisce inevitabilmente per provocare altri fallimenti; secondo, le riforme varate negli ultimi anni per far fronte a questi problemi non hanno funzionato. La legge fallimentare è del 1942, ma importanti modifiche sono state introdotte nel 1999 per le grandi imprese in crisi, nel 2006 per diversi istituti fallimentari, nel 2012 per le persone fisiche. Il fallimento della riforma fallimentare è un titolo più volte letto negli ultimi anni, anche su questo giornale. E per evitare di doverlo leggere anche negli anni futuri il legislatore ha pensato bene di cambiare il nome alla procedura: non ci sarà più il “fallimento”, ma l’insolvenza o la liquidazione giudiziale. Cominciamo bene.
Con l’obiettivo di ridurre il numero dei default aziendali si introduce invece una procedura di allerta per consentire alle imprese sane, ma in difficoltà finanziaria, di avviare percorsi di ristrutturazione per superare le momentanee difficoltà. Di bene in meglio. Un’impresa in difficoltà finanziaria che entra in una procedura simile mette immediatamente in allarme i fornitori, i clienti, i creditori, tutti gli stakeholders, con la conseguenza che comincerà a essere guardata con diffidenza, avrà meno credito, e comincerà a scivolare su una china sempre più ripida dalla quale sarà ben difficile riemergere. Inoltre c’è un piccolo dettaglio che forse il legislatore non ha ancora valutato. Nella categoria delle “imprese sane ma in difficoltà finanziaria”, in questo momento possono essere fatte rientrare quasi la metà delle imprese italiane. A ben guardare ci potrebbero rientrare anche molti enti pubblici, comuni, regioni, certamente lo Stato, che non riesce a pagare alle imprese più di 50 miliardi di euro di debiti arretrati, se non fosse prevista una specifica esclusione per questi enti. Dobbiamo quindi prepararci a milioni di imprese avviate alla procedura di composizione assistita della crisi? Difficile dirlo, ma è facile prevedere una grande richiesta, nei prossimi anni, di professionisti esperti in procedure di risanamento aziendale e in procedure concorsuali. Ma c’è un problema. L’attuale riforma prevede una riduzione dei compensi per questo tipo di attività e non solo: la parcella dei professionisti non andrà più in prededuzione, quindi molti di loro si troveranno a svolgere un lavoro estremamente complesso e delicato per poi riuscire a incassare il 10% dei loro crediti, cioè la quota media che riescono a recuperare i creditori chirografari alla fine della procedura fallimentare, dopo molti anni. Così stando le cose gli unici professionisti che si renderanno disponibili saranno giovani di primo pelo e scarsa esperienza, che si troveranno sulle spalle la responsabilità di portare le imprese fuori dalle secche di crisi spesso assai complesse, che richiederebbero ben altre professionalità. Facile immaginare i risultati.
Un tentativo di riforma che parte con questi principi, che sembrano dedotti in modo acritico dalle raccomandazioni europee o dalla prassi di paesi come gli Stati Uniti che hanno una struttura societaria completamente diversa dal tessuto di piccole e medie imprese italiane, rischia di creare problemi maggiori di quelli che riuscirà a risolvere. Facile prevedere che tra qualche anno si ritorneranno a leggere titoli sul fallimento della riforma del fallimento.
