Giuseppe Catapano: Fattore vincente e motore per lo sviluppo

Nel mercato globale la competizione continua a crescere ed accelerare. Aumenta la domanda soprattutto grazie ai mercati in ascesa e aumenta l’offerta soprattutto grazie ai nuovi produttori. Nei settori ad elevata tecnologia permangono forti barriere all’ingresso, ma riescono solo a rallentare e selezionare l’arrivo di nuovi concorrenti, non ad impedirlo.

L’arrivo di nuovi concorrenti
Su quest’ultimo fronte giocano molteplici fattori:

1) La globalizzazione comporta un maggiore e più facile trasferimento delle conoscenze (comprese le tecnologie) e delle persone (comprese quelle ad elevata istruzione), anche grazie alla maggiore facilità di comunicazione e movimento.

2) L’innovazione tecnologica di prodotto e di processo lascia ampio spazio all’intervento umano sia direttamente sia attraverso il supporto informatico e, quindi, non sempre è richiesta la presenza di massicci investimenti fissi.

3) L’acquisto di prodotti ad elevata tecnologia è condizionato al trasferimento di capacità tecnologiche e industriali. Che questo avvenga per ragioni politiche o anche economiche è, da questo punto di vista, irrilevante. E che si tratti di centrali atomiche o di impianti per l’energia o di velivoli, elicotteri, navi militari o aerei passeggeri (solo per citare i casi più conosciuti), lo è altrettanto.

4) Le nuove potenze regionali spingono per entrare in questi settori perché importanti per la loro crescita (in ragione dell’effetto trainante), perché prestigiosi (il caso più eclatante è quello spaziale), perché fondamentali ai fini della loro sicurezza e difesa.

5) I Paesi più industrializzati limitano solo parzialmente i trasferimenti tecnologici (prodotti militari altamente sofisticati) soprattutto per la necessità di trovare nuovi mercati di sbocco per prodotti sempre più avanzati e costosi che i loro mercati interni non sono in grado di mantenere.
Solo gli Stati Uniti fanno eccezione a questa regola e, anche per questo, riescono a controllare meglio i trasferimenti tecnologici. La Russia è molto più disinvolta, come gli stessi Paesi europei, soprattutto in questo periodo di crisi o basso sviluppo economico e di taglio delle spese militari.

Nella competizione globale l’innovazione tecnologica è uno dei fattori vincenti ed è riconosciuta da tutti come il motore dello sviluppo.

Innovazione di prodotto e di processo, una valanga
L’opinione pubblica vede quasi esclusivamente e inevitabilmente l’innovazione di prodotto che permea la vita quotidiana. E questo vale ormai in tutto il mondo, escluse le sole aree ad altissima povertà.

Ma, in realtà, è ancora più importante l’innovazione di processo perché ne rappresenta la premessa, coinvolge tutti i settori (compresi quelli dove i prodotti apparentemente restano gli stessi e non sono considerati sofisticati) ed è completamente trasversale.

Anche per queste ragioni in tutti i paesi l’innovazione tecnologica è sostenuta direttamente o indirettamente dai governi, poco importa se attraverso politiche fiscali, della ricerca, della formazione, disponibilità di finanziamenti, realizzazione di infrastrutture, centri e istituti di ricerca.

Fra tutti gli altri, il settore forse più supportato è quello dell’aerospazio, sicurezza e difesa perché aggiunge alla componente tecnologica e industriale una caratteristica unica ed essenziale, quella della tutela e della difesa del proprio sistema-paese.

L’innovazione tecnologica assomiglia, in positivo, ad una valanga: aumenta continuamente la sua velocità e trova nuova energia nella sua corsa (e, simbolicamente, travolge ogni ostacolo): bisogna, quindi, starci davanti e anticiparne l’evoluzione, correndo come e, se possibile, più degli altri, se si vuole rimanere nel gruppo di testa o, per lo meno, non restare troppo distaccati: alle spalle si ingrossa e si avvicina il gruppo degli inseguitori.

Il caso Italia: ritardi e limiti
L’Italia costituisce un caso originale. È entrata in ritardo, rispetto ai Paesi concorrenti, nei settori ad elevata tecnologia. Ma le ridotte dimensioni del mercato nazionale e la dispersione dei finanziamenti pubblici su troppi fronti, hanno finito con il limitare il “tasso di sopravvivenza” delle nostre capacità di innovazione. Il risultato è che oggi, fra i pochi settori sopravvissuti, il principale è rappresentato dall’aerospazio, sicurezza e difesa.

Qui lo Stato italiano ha, oltre tutto, una doppia responsabilità: è, come tutti gli altri, “regolatore” del mercato, principale acquirente, sostenitore dell’export, finanziatore della ricerca tecnologica, ma è fra i pochi ad essere anche l’azionista di riferimento dei principali gruppi industriali nazionali, Finmeccanica e Fincantieri.

Il problema è che questa seconda funzione si estrinseca quasi esclusivamente con la nomina dei suoi vertici e non con la definizione e coerente attuazione di una politica di settore, anche a causa della mancanza di una cabina di regia che raccolga e superi le diverse competenze e gelosie ministeriali.

Questa azione di guida risulta ancora più importante di fronte all’integrazione del mercato europeo e all’inevitabile ripresa del processo di razionalizzazione e ristrutturazione dell’industria europea. Decidere dove vogliamo restare, dove possiamo accettare di essere interdipendenti coi partner europei, dove dobbiamo abbandonare il campo, è una responsabilità del Governo che non può essere elusa o delegata.

Coerenza con il Libro Bianco
Non a caso il recente Libro Bianco della Difesa prevede una collaborazione interministeriale volta a rafforzare le nostre capacità tecnologiche e industriali attraverso l’elaborazione di un Piano, mantenuto periodicamente aggiornato, che individui le attività strategiche nel campo della difesa e della sicurezza, anche tenendo conto delle potenziali applicazioni duali delle relative tecnologie.

Primo obiettivo da perseguire è, quindi, scegliere dove vogliano restare. Là dobbiamo, però, crescere perché non abbiamo alternative. Non possiamo stare fermi: o andiamo avanti o andiamo indietro.

Dobbiamo, però, essere coerenti. Se si definisce un’attività strategica per il Paese, bisogna conseguentemente concentrarvi le energie e le risorse disponibili e non disperderle a pioggia su troppi fronti. Ma bisogna anche assicurare un livello minimo di finanziamenti, stabili nel tempo, senza i quali è inutile cercare di attuare una politica di settore.

Anche di questo si parlerà nel Convegno che lo IAI in collaborazione con Avio Aero organizza il primo luglio su “Sviluppo e innovazione nei settori a elevata tecnologia”.

Giuseppe catapano comunica: La giurisdizione militare

Il “Libro bianco per la sicurezza internazionale e la Difesa”, di recente pubblicazione, costituisce la base per lo sviluppo delle soluzioni attuative, che dovranno essere affinate e realizzate in tempi rapidi, per rendere lo strumento militare adeguato ad affrontare le nuove realtà che lo scenario internazionale presenta.

Momento essenziale della revisione è l’individuazione del modello organizzativo, che consenta di affrontare con successo le sfide odierne e in una prospettiva di medio termine.

Ma che cos’è un ‘libro bianco’? Un saggio di sociologia dell’organizzazione, con annessi piani di ingegneria istituzionale? Un insieme ragionato di propositi di realizzazione? Uno strumento di programmazione?

Non ‘libro dei sogni’, ma direttiva ministeriale
È ragionevole ritenere, sinteticamente, che i profili suddetti concorrano a delineare la natura proteiforme di simili documenti. Se si guarda all’esperienza italiana, in generale, non in ambito Difesa, i libri bianchi sono stati qualche volta definiti i “libri dei sogni”.

I compilatori del documento pubblicato dal Ministero evidentemente sono consapevoli del pericolo e nella parte finale dell’elaborato, gli attribuiscono la natura di direttiva ministeriale per tutte le articolazioni dell’Amministrazione della Difesa, sicché gli obiettivi indicati, ove riconosciuti come raggiungibili a normativa vigente, “vanno immediatamente perseguiti”.

L’elaborazione di dettaglio per la revisione della governance, l’adeguamento del modello operativo, una nuova normativa in materia di personale, la politica scientifica, industriale e di innovazione tecnologica saranno oggetto specifico di attività di una apposita struttura e di commissioni di alto livello tecnico giuridico, secondo un cronoprogramma definito.

In tale quadro si inserisce la revisione complessiva delle disposizioni normative e regolamentari esistenti, al fine di rinnovarle, semplificarle e adeguarle alle nuove esigenze.

Giustizia militare, una sorte segnata
Le previsioni concernenti la giurisdizione penale militare sono affidate a poche righe nel capitolo “Cittadini e forze armate”, par. 252: “Il Governo intende proseguire lo sforzo di maggiore efficienza del sistema e di razionalizzazione studiando anche la possibilità di forme giuridicamente evolute basate sul principio di unicità della giurisdizione penale e che prevedano di dotarsi, in tempo di pace, di organi specializzati nella materia penale militare incardinati nel sistema della giustizia ordinaria”.

La sorte della Giustizia militare appare segnata. Nessuna sorpresa: è già accaduto, senza traumi istituzionali, in Francia e Belgio.

Sostenere che la Costituzione, a normativa invariata, non consenta la riforma è una mistificazione, perché l’esistenza di organi specializzati di giurisdizione sarà assicurata con modalità ordinative differenti.

Come sanno gli esperti di diritto pubblico, la funzione non si identifica con la sua “copertura amministrativa”, anche se qualcuno cercherà di fare credere il contrario.

Le resistenze delle derive corporative
È dal 1956 che la giurisdizione penale militare, a seguito della drastica riduzione dell’area di competenza, vivacchia. Falliti i molteplici tentativi di ridarle fiato, mediante il recupero di classi di reati comuni, “militarizzandole”, il dibattito tra innovatori e conservatori si è stancamente trascinato fino ai giorni nostri.

È facile prevedere derive corporative alla programmata riforma. Sono nel conto le resistenze e la vischiosità degli apparati, nella dialettica tra pulsioni di categoria e travestimenti verbali, nella quale buona parte della magistratura militare non si riconosce: chi vive come problema professionale l’ossimoro della insostenibile leggerezza della materia riservata alla giurisdizione militare e non condivide la concezione minimalista dei cultori dello status quo.

La realizzazione di nuovi moduli organizzativi consentirà, nell’indirizzo del Governo, non solo la soluzione dei problemi della speciale giurisdizione, ma anche il reimpiego di risorse umane e di professionalità nell’ambito della Giustizia ordinaria, in affanno per note cause.

Sostenere che il mantenimento della conformazione attuale giovi alla speditezza o comunque propizi la ragionevole durata dei processi costituisce strumentale artificio dialettico.

Potenziali effetti positivi della riforma
I dati relativi alla “produttività” nell’ambito della giurisdizione militare sono al limite dell’insignificanza statistica, non per inerzia degli addetti, ma per la pochezza numerica e qualitativa del contenzioso penale. La sospensione, o se si preferisce, la fine del sistema di reclutamento obbligatorio, la leva, ha determinato la caduta verticale delle infrazioni, dovuta, sul piano qualitativo, anche ad altro fenomeno.

Il volontariato comprende soggetti, psicologicamente motivati, che molto frequentemente aspirano al passaggio nei corpi di polizia ad ordinamento militare o civile e informano la loro condotta in servizio a standard di correttezza non paragonabili a quelli sperimentati in regime di leva obbligatoria.

Quanto alla particolare attitudine della giurisdizione speciale a interpretare valori e principi dell’ordinamento militare, si tratta di una considerazione di principio, corretta in via tendenziale ma inattuata, ove si consideri che i reati di maggior gravità ricadono dal 1956 nella giurisdizione ordinaria.

La riforma, con un paradosso solo apparente, potrebbe porre le premesse per una revisione complessiva anche della parte sostantiva della normativa penale militare, facendo cadere preclusioni e riserve di fatto registratesi in materia.

Giuseppe Catapano informa: Il Mediterraneo e la via della seta

A differenza di altri Paesi, che sono in pari tempo mediterranei ed atlantici, l’Italia è sempre stata, malgrado le sue aspirazioni, un Paese mediterraneo.

Anche in queste poche decadi in cui il ranking nazionale in seno al Gotha dell’economia mondiale ha obbligato l’Italia a considerare quanto avviene nel mondo con una visione globale, il fuoco della nostra attenzione si è sempre concentrato sull’area corrispondente al cosiddetto “Mediterraneo allargato”.

Non che le due altre sfere naturali della nostra politica, quella atlantica e quella europea, venissero trascurate, anzi. L’approccio italiano a tali ambiti era però sempre un approccio caratterizzato dalla mediterraneità del Paese.

Nella Alleanza atlantica entrammo sin dall’inizio a titolo pieno, unico fra i paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, anche perché portavamo in dote una posizione geografica che ci rendeva indispensabili per il controllo dei due settori del Mediterraneo.

Considerazione che spiega anche perché l’Italia sia stata sino a poco fa l’unico membro storico della Nato in cui la presenza militare Usa è cresciuta, e non calata, dopo la caduta del muro di Berlino.

Oltre alla dimensione atlantica, anche quella europea della nostra politica è stata sempre condizionata dalla dislocazione mediterranea del nostro Paese.

Nei tempi andati, quando la Politica agricola comune fruiva del novanta per cento del bilancio del Mec, la nostra produzione agricola ci associava automaticamente a quella degli altri Stati che si affacciavano sul bacino.

In tempi più recenti, le nostre preoccupazioni politiche si sono concentrate più sul quadrante arabo e su quello balcanico dei confini europei piuttosto che su quello baltico o dell’Europa centrale.

Mediterraneo non più centrale
Da molti secoli però il Mediterraneo non ha più quella centralità di cui aveva goduto sino alla fine del 1400, allorché i viaggi di Colombo da un lato, quelli di Vasco da Gama dall’altro, hanno iniziato l’era della “centralità atlantica”.

Da ombelico del mondo europeo, strada maestra di tutti i suoi commerci, sede degli Stati più ricchi ed avanzati del continente, il mare nostrum è decaduto al ruolo di bacino secondario.

I Paesi rivieraschi che non avevano anche una sponda atlantica hanno dovuto subire, da quel momento in poi, una storia fatta da altri, senza più godere della possibilità di scolpire da soli il proprio destino. Una condizione che l’apertura del Canale di Suez ha un poco alleviato, senza però riuscire a mutarla radicalmente, alcuni secoli dopo.

Nulla dura in eterno ed anche la “centralità atlantica” ha imboccato da ormai un ventennio, in parallelo alla straordinaria crescita politica ed economica dell’Asia, la strada del declino. Ad essa sta subentrando la “centralità del Pacifico”, che gli Stati Uniti hanno immediatamente recepito spostando dalla costa Est alla costa Ovest del loro grande Paese larga parte della loro attenzione.

In Europa invece nulla è cambiato, nonostante che il commercio da e per l’Asia si faccia di giorno in giorno più intenso e che tutte le importazioni ed esportazioni europee siano inesorabilmente costrette a seguire, in assenza di agevoli percorsi stradali o ferroviari, la rotta di Suez.

Si trattava di una occasione straordinaria per ridare al Mediterraneo una nuova centralità, in ambito europeo e non soltanto in quello. Gli Stati rivieraschi non hanno pero saputo coglierla, forse perché adeguarsi alla nuova situazione avrebbe di necessità comportato un radicale cambio di passo e di mentalità.

Dal nazionale all’internazionale, dal tattico allo strategico, da una visione a breve a una a lunga scadenza. Il tutto integrato dall’avviamento di opere di dimensioni colossali che richiedevano l’impegno di capitali altrettanto colossali ed avrebbero dovuto essere realizzate in tempi molto ristretti.

Il risultato è stato che si è fatto poco o nulla e che le poche battaglie combattute – in Italia quella per trasformare Gioia Tauro nel terminale dei containers cinesi e giapponesi e quella per aprire il porto di Taranto ai cinesi – sono state regolarmente perse.

Anziché recuperare centralità il Mediterraneo rimane così al margine, mentre le merci asiatiche entrate da Suez escono da Gibilterra e continuano ad essere scaricate nei grandi porti atlantici europei. All’orizzonte oggi si stanno profilando due cambiamenti che richiedono grande attenzione e lungimiranza strategica.

Rotta del Nord contro via della seta
Il primo è il progressivo riscaldamento del pianeta che propizia lo scioglimento dei ghiacci rendendo a poco a poco praticabile la rotta intercontinentale che unisce l’Asia all’Europa passando a Nord della Russia.

Ancora dieci, quindici anni e se non si verificano poco probabili inversioni climatiche questa rotta a Nord, molto più corta e quindi più economica, finirà col prevalere sulla rotta a Sud.

Il secondo è invece rappresentato dal colossale progetto cinese, presentato pochi mesi fa dal presidente Xi Jin Ping e denominato “Silk road, silk belt”. L’idea cinese è quella di riuscire ad attivare, nel breve giro di una decina d’anni, un grande fascio di comunicazioni stradali e ferroviarie che colleghino l’Asia all’Europa passando per Asia centrale e Russia, ed approdando infine in Germania, con tempi di percorrenza quanto più possibile ridotti.

A questa “silk belt”, che per gran parte ricalcherebbe l’antica via della seta, si dovrebbe affiancare una grande rotta marittima, la “silk road”, che unirebbe la Cina all’Africa e all’Europa terminando, con uno straordinario richiamo storico culturale, nella Venezia da cui Marco Polo partì un tempo per il lontano Katai.

Quale siano la serietà e la portata dell’iniziativa cinese è dimostrato dalla velocità con cui si è mossa Pechino, riuscendo a concludere in brevissimo tempo accordi sul progetto tanto con la Russia quanto con il Pakistan.

Una ulteriore conferma è la dimensione degli impegni finanziari già assunti dai cinesi, che hanno posto quaranta miliardi di dollari a disposizione degli Stati asiatici desiderosi di associarsi ma bisognosi di consistente sostegno economico tanto per intervenire sui loro assi stradali e ferroviari che per incrementare le loro capacità portuali lungo l’asse marittimo.

Quest’ultimo treno…
C’é così in ballo una nuova e forse definitiva sfida per quello che riguarda la “centralità mediterranea”. In una decina d’anni, se non vogliamo che i piani cambino, dobbiamo infatti attrezzarci perché i nostri porti dell’Adriatico riescano – magari in sistema con quelli dell’altra sponda – ad assorbire ed a smistare il prevedibile colossale volume di traffico.

A corollario e completamento di questo andrebbero poi potenziati anche i nostri i collegamenti stradali e ferroviari con la Germania, in maniera tale da congiungere adeguatamente il terminale di arrivo marittimo della “silk road, silk belt” con quello terrestre.

Non si tratta di impresa da poco, ma la sfida ed il conseguente impegno sono talmente forti che potrebbero costituire il decisivo colpo di frusta per la ripresa della nostra economia.

E poi …. c’era una volta una vecchia canzone che parlava dell’ultimo treno, “the three ten to Yuma…”, il treno delle tre e dieci del mattino per Yuma. Se perdi quello è inutile che aspetti, perché non passeranno altri treni. È quanto succederà alla “centralità mediterranea” se il nostro ed altri Paesi dell’area non saranno capaci di raccogliere il guanto di una sfida che è in pari tempo una straordinaria opportunità.

Catapano Giuseppe osserva: Il caso Dailymotion, una rilettura delle norme in tema di discovery e un’attenta riflessione fra tutela dei diritti e privacy

Lo scorso 3 giugno 2015 il Tribunale di Torino ha affrontato un nuovo caso di violazione on-line dei diritti d’autore di cui è titolare esclusivo un produttore e distributore di opere audiovisive. Come accade ormai sistematicamente, nonostante le opere audiovisive e cinematografiche siano di regola oggetto di legittima privativa, spesso pagata a caro prezzo, esse vengono messe a disposizione del pubblico contro la volontà del titolare dei diritti su molteplici piattaforme a ridosso del loro primo sfruttamento, senza che ad oggi a tali violazioni sia possibile porre fine utilizzando gli strumenti giuridici concessi dalla legge.
Le ragioni per le quali è arduo ottenere la rimozione efficace dei file delle opere protette che vengono immesse sulla rete telematica da non disinteressati uploaders, sono essenzialmente riconducibili al fatto che l’interpretazione delle norme vigenti nel nostro Paese, impedisce la identificazione dei soggetti che commettono tali violazioni, sottraendo inoltre gli Internet Service Provider da un reale obbligo di definitiva disabilitazione dell’accesso ai file illeciti che si trovano sulle piattaforme dagli stessi gestite, anche se per essi sia stata comunicata la Notice and Take Down da parte del titolare dei diritti.
Ciò avviene soprattutto nei casi in cui la segnalazione dei file illeciti da eliminare riguardi la stringa che identifica univocamente l’indirizzo Internet di un contenuto presente sul server che lo ospita in quanto l’URL che li contraddistingue rappresenta unicamente il luogo ove i singoli specifici contenuti si trovano e non esaurisce il novero degli identici esemplari presenti su una determinata e singola piattaforma.
Avuto riguardo a quest’ultimo tema, quello della rimozione dei file illeciti, va osservato che per le piattaforme che dispongano di sistemi di identificazione delle opere su di esse presenti on-line, attraverso l’impiego dei c.d. reference file creati sulla base del materiale audiovisivo reclamato dal relativo titolare dei diritti, il Tribunale di Torino si era già pronunciato nel provvedimento dello scorso anno.
In tale caso, esso aveva affermato che un ordine del giudice volto ad impedire un nuovo caricamento di uno stesso file sui siti web, non è assimilabile e non rientra nella categoria degli “obblighi generali di sorveglianza”, come tali esclusi dall’azione dell’ISP in base alla normativa comunitaria, ma costituisce un obbligo del fornitore del servizio che è già a conoscenza della loro illecita presenza sul sito web che esso gestisce nella sua qualità di hosting provider attivo.
Nel medesimo provvedimento il Tribunale aveva osservato che non fosse necessario che i reference files venissero forniti per la verifica dell’ISP da parte dei titolari dei diritti, in quanto sarebbe stato sufficiente che il software del Content ID disponesse esso stesso dei file di confronto, al fine di identificare quelli di uguale contenuto posti in rete in violazione dei diritti d’autore.
Il medesimo ragionamento svolto nel giugno 2014 su questo specifico punto è stato seguito dal Tribunale di Torino nel caso della piattaforma francese Dailymotion, il quale ha quindi escluso che il titolare dei diritti debba provvedere ad una nuova denuncia di ogni ulteriore violazione afferente i medesimi contenuti già in precedenza segnalati, asserendo che il fornitore dei servizi on-line non può rifiutarsi di utilizzare il reference file necessario alla identificazione degli ulteriori esemplari dei file abusivi immessi in rete. Secondo questo giudice, infatti, con la denuncia – da parte dei titolari dei diritti – degli URL che conducono ai contenuti illecitamente caricati, l’Internet Service Provider ha avuto la conoscenza effettiva della violazione commessa e dispone di tutti gli elementi necessari per intervenire con la loro rimozione.
Di grande momento, nell’esame del provvedimento di cui ci occupiamo, è la parte che riguarda l’ordine impartito a Dailymotion di fornire al titolare dei diritti i dati in suo possesso utili a identificare i responsabili delle violazioni commesse con l’uploading dei file delle opere protette.
Questo tema, che concerne la discovery dei soggetti che pongono in essere violazioni attraverso la rete telematica, come è noto a chi legge, è stato al centro di una precedente vicenda, anche giudiziaria, che è durata numerosi anni.
Ci riferiamo al noto caso “Peppermint” ed alle sue evoluzioni giurisprudenziali, basate sull’applicazione delle norme della Legge Autore, che hanno dato attuazione alla c.d. Direttiva Enforcement (Dir. 2004/48/CE).
Ci riferiamo in particolare alle disposizioni di cui agli artt. 156-bis e 156-ter L.A., la prima delle quali dispone, fra l’altro, che la parte abbia fornito seri elementi dai quali si possa ragionevolmente desumere la fondatezza delle proprie domande possa ottenere “che il giudice ordini alla controparte di fornire gli elementi per l’identificazione dei soggetti implicati nella produzione e distribuzione dei prodotti o dei servizi che costituiscono violazione dei diritti di cui alla presente legge”. Proprio richiamando la suddetta ipotesi di difesa di un diritto in sede giudiziaria, il Tribunale di Roma, decidendo circa la tutela conferita ex art. 156-bis LDA, aveva avuto modo di stabilire, con provvedimento in data 19 agosto 2006, che: “L’esibizione consentita dall’art. 156-bis 1. 633/41 non è inibita da alcuna norma del D. Lgsl. 96/2003. Stabilisce infatti l’art. 24, comma 1, lettera (f), D. Lgsl. 196/2003 che il trattamento dei dati personali – con esclusione della diffusione – è consentito anche senza il consenso dell’interessato, quando sia necessario “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria””. Il Tribunale con riferimento allo specifico caso oggetto del giudizio (Peppermint) aveva aggiunto che “Tale è proprio il caso che qui ci occupa, non avendo la società ricorrente altro strumento per risalire, attraverso l’IP degli autori dell’upload, alle generalità di questi ultimi”.
Questa linea giurisprudenziale venne successivamente mutata dal Tribunale di Roma, soprattutto per l’intervento dell’Autorità per la Tutela dei Dati Personali, la quale prese parte direttamente ad alcuni dei giudizi in cui gli attori facevano istanza volta ad ottenere i dati dei soggetti che avevano immesso on-line – abusivamente – file di opere tutelate, tanto che le decisioni posteriori a quelle sopra citate in merito alla possibilità di ottenere informazioni sui soggetti coinvolti si allinearono alle richieste del Garante Privacy, in base ad una serie di decisioni uniformi, fino a giungersi all’ultima ordinanza del caso Peppermint a noi conosciuta, quella resa dal giudice Gabriella Muscolo in data 19 marzo 2008 nel caso Techland – Peppermint Jam Records / Tiscali Italia.
Nell’ordinanza in questione il magistrato di prime cure, che al tempo faceva parte delle Sezioni Specializzate in materia di P.I. presso il Tribunale di Roma, ha condotto un’interessante analisi sul fondamento giuridico delle citate norme degli artt. 156-bis e 156-ter L.A., sostenendone la piena operatività ed efficacia nel nostro ordinamento per i fini che esse si prefiggono, ma rilevando che l’art. 156-bis, comma 3, imporrebbe al giudice, nel chiedere le informazioni dai contraffattori, l’obbligo di adottare “le misure idonee a garantire la tutela delle informazioni riservate, sentita la controparte”. Secondo lo stesso giudice del Tribunale di Roma, anche la Direttiva 2001/29/CE sulla tutela del D.A. nella società dell’informazione, all’art. 9, farebbe salve – fra le molte – le norme che riguardano “la riservatezza, la tutela dei dati e il rispetto della vita privata” la cui difesa prioritaria – ad avviso di tale magistrato – si estenderebbe anche ai provvedimenti inibitori “assunti nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi” di cui all’art. 8 della medesima citata Direttiva.
A tale stregua, il Tribunale di Roma dopo avere svolto un ragionamento circa la proporzionalità delle misure da adottare per la tutela dei diritti, anche in relazione al principio di bilanciamento degli interessi tutelati (privacy e proprietà intellettuale) tracciato dalla sentenza della Corte di Giustizia nel procedimento Promusicae / Telefonica(8), ha ritenuto che nei casi in cui “l’esecuzione dell’ordine di discovery si risolvesse in una comunicazione dei dati personali dei consumatori, senza alcun consenso dei medesimi, che operano sulla rete sulla presunzione di anonimato, la misura violerebbe il diritto alla riservatezza dei medesimi e pertanto ne difetterebbe il requisito di ammissibilità”.
Di diverso tenore è il testo dell’ordinanza del giudice di Torino di cui ci occupiamo oggi, secondo il quale, invece, il bilanciamento fra i contrapposti diritti deve essere letto nel senso che: “il diritto comunitario non impone agli Stati membri di istituire un obbligo di comunicare dati personali per garantire l’effettiva tutela del diritto d’autore nel contesto di un procedimento civile, ma neppure lo vieta”. Avuto riguardo alla domanda proposta dalla ricorrente Delta TV Programs nei confronti di Dailymotion, secondo il presidente delle Sezioni Specializzate di Torino essa appare “logica, mirata e circoscritta agli autori di conclamate, circoscritte e riconosciute violazioni, per giunta penalmente rilevanti (ai sensi dell’art.171 l.d.a.), e soprattutto, in palese divergenza rispetto al caso deciso dalla Corte di Giustizia (Promusicae vs.Telefonica), considerato che qui non si tratta di acquirenti di prodotti illecitamente diffusi ma dei veri e propri autori dell’atto di violazione”. In altri termini: va chiaramente distinto il downloading dall’uploading di opere protette, costituendo il primo un’azione penalmente neutra, mentre il secondo – chiaramente connotato da scopo di lucro – appare come fatto grave e tale da mutare il bilanciamento degli interessi in gioco.
A sostegno di tale tesi, il giudice del tribunale piemontese sottolinea che, nel caso in esame, non ci troviamo di fronte ad una contrapposizione fra sfruttamento patrimoniale dell’opera e libertà di comunicazione e di espressione dei privati che riproducono abusivamente i file di opere protette per un fine personale, ma detta contrapposizione semmai riguarda “la riproduzione e diffusione a fini almeno indirettamente commerciali dell’opera in regime di concorrenza di fatto”. In altri termini, la tutela della privacy non giustifica azioni di arricchimento a danno del titolare dei diritti sulle opere protette, tanto da sacrificare totalmente il suo investimento e quello dei suoi cessionari.
Non dissimilmente da quanto recentemente deciso dal Tribunale di Torino, anche il Tribunal de Grand Instance di Strasburgo, in data 21 gennaio 2015, ha ordinato a quattro importanti service provider di fornire agli avvocati dell’associazione antipirateria ricorrente “l’identità, l’indirizzo postale, l’indirizzo e-mail delle persone titolari degli indirizzi IP riportati nel processo verbale” in atti.
Forse è troppo presto per affermare che ci troviamo di fronte ad un revirement dei magistrati di fronte al dilagare degli illeciti commessi attraverso la rete telematica, ma – questo è certo – l’attenzione al problema sta crescendo al pari della preoccupazione dei titolari dei diritti sui contenuti, i quali ultimi appartengono in misura crescente alle stesse imprese che gestiscono le piattaforme digitali di maggiore rilievo e che hanno compreso la necessità di disporne per acquisire contatti e pubblicità, in altre parole: profitto.

Giuseppe Catapano osserva: Pubblicati cinque nuovi interpelli

Il Ministero del Lavoro, sezione Sicurezza sul Lavoro, ha pubblicato 5 nuovi interpelli che mirano a chiarire alcuni dubbi interpretativi emersi.

Interpello n. 1 del 23 giugno 2015 recante “Criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare”.
Con l’interpello in oggetto, il Ministero del Lavoro fornisce chiarimenti in merito al quesito, avanzato da Federcoordinatori, sui criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare.
Evidenzia il Ministero l’allegato XV, punto 2.2.1. lett. b), del D.Lgs 81/2008 stabilisce che il piano di sicurezza e coordinamento, di competenza del coordinatore per la sicurezza, deve contenere “l’analisi degli elementi essenziali di cui all’allegato XV.2, in relazione: […] all’eventuale presenza di fattori esterni che comportano rischi per il cantiere, con particolare attenzione ai lavori stradali ed autostradali al fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi derivanti dal traffico circostante”.
Pertanto, il riferimento all’art. 100 del d.lgs. n. 81/2008 non appare inappropriato con le finalità del decreto in oggetto, anche se tra le figure elencate per l’applicazione dei criteri minimi, non è espressamente menzionato il coordinatore per la sicurezza.

Interpello n. 2 del 24 giugno 2015 recante “Criteri di qualificazione del docente formatore in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
Si evidenzia, in proposito, che il Consiglio nazionale degli ingegneri ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione in merito alla identificazione dei requisiti che debbono essere posseduti dai docenti dei corsi di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro (in base all’allegato al d.m. 6 marzo 2013). In proposito il Ministero del Lavoro premette che i requisiti dei quali deve essere in possesso il docente dei corsi di formazione per datore di lavoro, che intenda svolgere i compiti (quando ciò è consentito dalla legge) di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per lavoratori, dirigenti e preposti sono individuati dal decreto interministeriale di attuazione dell’art. 6, comma 8, lettera m-bis, del decreto legislativo n. 81/2008 – decreto 6 marzo 2013, in vigore dal 18 Marzo 2014.
Tale decreto identifica un prerequisito – individuato nel possesso del diploma di scuola media superiore (non richiesto al datore di lavoro che svolga il ruolo di formatore) – e sei requisiti, la cui dimostrazione è a carico del docente. Inoltre, il decreto 6 marzo 2013 specifica che la qualificazione opera in relazione a tre distinte aree tematiche di formazione, quali:
1. area normativa/giuridica/organizzativa;
2. area rischi tecnici/igienico-sanitari;
3. area relazioni/comunicazioni.
Di conseguenza, puntualizza sempre il Decreto 6 Marzo 2013, “la qualificazione si acquisisce con riferimento alla specifica area tematica”.
Tanto premesso il Ministero del Lavoro, con la risposta in commento, ritiene che il Decreto 6 marzo 2013 imponga a ciascun docente dei corsi di formazione in materia di salute e sicurezza, per datore di lavoro, che intenda svolgere il ruolo di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per lavoratori, dirigenti e preposti, di essere in grado di documentare – in relazione a ciascuna delle aree tematiche identificate dal decreto (area normativa/giuridica/organizzativa; area rischi tecnici/igienico—sanitari e area relazioni/comunicazioni) – il possesso di uno dei sei criteri di cui al decreto 6 marzo 2013. Dunque, colui che intenda svolgere corsi di formazione in tutte le aree di cui al citato decreto, dovrà documentare il possesso di almeno uno dei criteri in parola in relazione a ognuna delle tre aree.
Ne consegue che l’ingegnere che svolga professionalmente la propria attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro potrà assumere l’incarico di docente nei corsi di formazione per datore di lavoro che svolga i compiti di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, lavoratori, dirigenti e preposti, a condizione che documenti – in qualunque modo idoneo allo scopo – il possesso dei criteri di cui al Decreto 6 marzo 2013, per ciascuna delle citate “aree tematiche ” per la quale voglia svolgere le attività di docenza.

Interpello n. 3 del 24 giugno 2015 recante “Applicazione dell’art. 96 del D.Lgs. 81/2008 alle imprese familiari”, in base al quale il Ministero del Lavoro ritiene che, ai fini dell’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, alle imprese familiari, di cui all’art. 230-bis del codice civile, si applica l’art. 21 del D.Lgs 81/2008 e che le imprese familiari, qualora si trovino a operare in un cantiere temporaneo o mobile, sono tenute a redigere il piano operativo di sicurezza (Pos). Tale piano, prosegue il Ministero, deve riportare tutti i punti dell’Allegato XV del decreto, ad eccezione dei punti i cui obblighi non trovano applicazione nella fattispecie delle imprese familiari. A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, nei Pos delle imprese familiari non potrà essere indicata la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i nominativi degli addetti al primo soccorso, ecc.

Interpello n. 4 del 24 giugno 2015 recante “Formazione e valutazione dei rischi per singole mansioni ricomprese tra le attività di una medesima figura professionale”.
Al riguardo il Ministero evidenzia che la valutazione redatta dal datore di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed il relativo documento deve essere redatto in modo da essere idoneo strumento per la pianificazione e prevenzione degli interventi aziendali. In sostanza tale documento deve essere ispirato a criteri di brevità, semplicità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza, e deve individuare le mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento.
Per quanto riguarda la formazione, il Ministero ritiene che essa debba essere correlata alla valutazione dei rischi e deve essere periodicamente rivista in relazione all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi. Ne discende che i contenuti e la durata della formazione specifica, costituiscono un percorso minimo che il datore di lavoro dovrà valutare se sufficiente e da integrare tenendo conto sia di nuove normative che di quanto emerso dalla valutazione dei rischi.

Interpello n. 5 del 24 giugno 2015 recante “Interpretazione dell’art. 65 del D.Lgs 81/2008 sui locali interrati e seminterrati”, attraverso il quale con il quale il Ministero precisa che il potere attribuito all’organo di vigilanza dall’art. 65, comma 3 del D.Lgs. 81/08 – che prevede che l’organo di vigilanza può consentire l’uso dei locali chiusi sotterranei o semisotterranei anche per altre lavorazioni per le quali non ricorrono le esigenze tecniche, quando dette lavorazioni non diano luogo ad emissioni di agenti nocivi, sempre che siano rispettate le norme del D.Lgs. 81/08 e il datore di lavoro abbia assicurato idonee condizioni di aerazione, di illuminazione e di microclima – si concretizza in uno specifico potere autorizzativo atto a rimuovere, con un determinato provvedimento, i limiti posti dall’ordinamento all’utilizzazione dei locali sotterranei o semisotterranei, previa verifica della compatibilità di tale esercizio con il bene tutelato e costituito, nel caso in specie, della salute e sicurezza dei lavoratori.
A giudizio del Ministero, il provvedimento di autorizzazione deve essere congruamente motivato in ordine a quanto previsto al comma 3 dell’art. 65, il quale impone che le predette lavorazioni “non diano luogo ad emissione di agenti nocivi”, presuppone il rispetto del D.Lgs. 81/08 e, in particolare, richiede la verifica che si sia provveduto ad assicurare idonee condizioni di aerazione, di illuminazione e di microclima (comma 2, art. 65, D.Lgs. 81/08).
Sulla base di quanto sopra, si desume che nell’ambito dell’atto autorizzativo anche eventuali limitazioni sull’orario di lavoro devono trovare una concreta e determinata motivazione strettamente correlata alle esigenze imposte e specificate dalla norma medesima.

Giuseppe Catapano osserva: Vendita al dettaglio, lo scontrino prova l’acquisto

Lo scontrino fiscale rilasciato dal negoziante è il mezzo più specifico e dettagliato per provare l’acquisto di beni di consumo da parte dell’acquirente, soprattutto se il documento descrive quel tipo di articoli e il relativo prezzo corrisponde al valore del bene. Lo ha detto la Cassazione in una recente ordinanza. Non tutti i contratti devono necessariamente essere scritti. La gran parte delle vendite di beni al consumo avviene con accordi verbali che non per questo non devono considerarsi veri e propri contratti. Il documento scritto viene redatto solo qualora vi possano essere specifiche esigenze di prova dell’avvenuto scambio del bene contro il prezzo: è, insomma, predisposto solo per esigenze di garanzia, ma non è necessario. Che succede, allora, se tutto viene lasciato alla stretta di mano e non vi è un documento che dimostri l’avvenuta compravendita? Il consumatore ha una prova “regina” del contratto: si tratta dello scontrino fiscale. Specie se quest’ultimo è particolarmente dettagliato, perché contiene l’indicazione dell’oggetto acquistato, esso può valere come dimostrazione – in caso di future contestazioni – della stipula di un contratto di compravendita. Lo scontrino, peraltro, evidenzia due aspetti fondamentali del rapporto giuridico insorto tra il commerciante e il consumatore: la data dell’operazione e il prezzo. Mettiamo che un soggetto abbia acquistato un televisore e, come di norma avviene in questi casi, non abbia firmato alcun contratto scritto. Qualora, riscontrando un difetto di funzionamento, ne chieda la restituzione, la sua “carta vincente” per dimostrare la vendita sarà, innanzitutto, lo scontrino. Così, se il titolare del negozio neghi che l’oggetto sia stato acquistato presso il proprio punto vendita, tale documento fiscale varrà come prova. A fronte dell’acquisto al dettaglio di beni di consumo, acquisto che di norma avviene verbalmente e attraverso il semplice scambio della cosa e del denaro, non si può esigere dall’acquirente – scrive la Corte – prova più specifica e dettagliata dello scontrino fiscale rilasciato dal negoziante: documento che è da ritenere idoneo a fornire la prova richiesta, soprattutto se il documento rilasciato dal negozio tratti quel tipo di articoli e se il relativo prezzo corrisponda al valore del bene. Non è vero, allora – come qualche rivenditore vorrebbe far credere – che lo scontrino dimostri solo il prezzo pagato, ma non il fatto che l’oggetto sia stato acquistato presso un determinato emporio. Altrimenti si finirebbe per gravare l’acquirente-consumatore di una prova particolarmente onerosa, se non impossibile. Insomma, se il prezzo corrisponde al valore del bene che si assume essere stato acquistato e la marca del prodotto (nell’esempio di prima, il televisore) rientri tra quelle commercializzate in quel negozio, lo scontrino è un mezzo di prova più che sufficiente. Spetta allora al negoziante l’eventuale prova contraria (ossia dimostrare la non corrispondenza dello scontrino ad un effettivo acquisto avvenuto in quella data e con quell’oggetto, producendo la documentazione in suo possesso circa i movimenti di magazzino, le registrazioni di cassa, la documentazione fiscale, ecc.). Ciò non toglie che, in caso di smarrimento dello scontrino, si possa dimostrare l’esistenza di un contratto anche in altri modi come, per esempio, con testimoni. A riguardo, il codice civile esclude l’ammissibilità della prova testimoniale di quei contratti che hanno un valore superiore a 2,58 euro; tuttavia è potere del giudice di consentire ugualmente la prova per testimoni oltre tale limite, in base alle circostanze del caso concreto, come la qualità delle parti, la natura del contratto e in base a ogni altra circostanza.

Catapano Giuseppe: Tolleranza dei 15 giorni dopo la scadenza della RC per auto e moto

Può anche trattarsi della solita dimenticanza, fatto sta che il rischio di essere non (più) assicurati, perché la polizza è scaduta, in caso di indicente stradale, è assolutamente da evitare: immaginate i danni che dovremmo pagare oltre alla multa, che va dagli 687 ai 2.754 Euro, e al sequestro del veicolo, sanzioni applicabili solo per aver circolato senza copertura assicurativa. Ecco perché si era affermata la prassi, da parte delle compagnia di assicurazione, a tutela del “distratto” conducente e cliente della compagnia, di accordargli un periodo di tolleranza di 15 giorni in più, rispetto alla scadenza, di copertura assicurativa, considerandosi il contratto di assicurazione rinnovato con la stessa compagnia in mancanza di disdetta nei termini di legge (il cosiddetto tacito rinnovo). È però intervenuta una riforma legislativa, in campo assicurativo, che ha disposto il divieto del tacito rinnovo dei contratti di responsabilità civile per auto e moto, e dal 1° gennaio 2013 la situazione è cambiata. Non di meno, tale riforma ha recepito la prassi consolidata del periodo di tolleranza dei 15 giorni a tutela dell’automobilista o motociclista distratto. Chi faceva maggiormente le spese di tale riforma, però, era la compagnia di assicurazione, lasciata nell’incertezza, non essendo più tutelata nella continuità del contratto dal tacito rinnovo, circa un espresso e fattivo rinnovo del contratto da parte del proprio cliente conducente, che probabilmente aveva in riserbo, non rinnovando alla scadenza, di cambiare compagnia di assicurazione. A riguardo è intervenuto il Ministero dell’Interno con una circolare, chiarendo alcuni punti fondamentali. Anzitutto le compagnie di assicurazione devono sempre garantire la copertura per i 15 giorni dopo la scadenza, anche nel caso cioè in cui il conducente, automobilista o motociclista, dovesse rinnovare l’assicurazione con un’altra compagnia. Inoltre il conducente stesso è in regola, circolando durante tale periodo di tolleranza, anche con la normativa del codice della strada, non essendo più multabile per assicurazione scaduta. Quindi, se si viene oggi fermati per un controllo e il tagliando dell’assicurazione risultasse scaduto da meno di 15 giorni, il cittadino conducente non ha più alcun problema, si è perfettamente in regola. Ricordiamoci però di rinnovare l’assicurazione al più presto e non oltre il quindicesimo giorno, o con la stessa o con altra compagnia di assicurazione.

Catapano Giuseppe scrive: Se la ditta fallisce l’Inps paga il Tfr

Tanto in caso di fallimento (volontario o richiesto su istanza dei creditori), tanto in caso di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo, tanto nel caso di rigetto dell’istanza di fallimento (per assenza, da parte dell’azienda – comunque insolvente – delle condizioni soggettive e/o oggettive per l’ammissione a tale procedura), se il datore di lavoro è una società a responsabilità limitata o per azioni, il lavoratore può chiedere l’intervento del Fondo di garanzia: un particolare fondo istituito presso l’Inps. È quest’ultimo a pagare: – le ultime tre mensilità di stipendio (a condizione che il rapporto di lavoro non sia cessato prima di un anno dalla data di presentazione del ricorso per il fallimento); – tutto il TFR maturato dal dipendente alla data di fallimento dell’azienda. È necessario che il credito del lavoratore risulti però già accertato. Il che, in termini pratici, si traduce: – nel caso di fallimento: ci deve essere stata (e conclusasi) la cosiddetta “udienza di verifica dello stato passivo”. In essa il giudice delegato al fallimento accerta tutti i crediti intervenuti al fallimento e che hanno chiesto l’ammissione al passivo e, dopo aver redatto una sorta di schema degli ammessi, dichiara esecutivo lo stato passivo. Con l’emissione di questo provvedimento, il lavoratore può chiedere l’intervento del Fondo di Garanzia; – nel caso di rigetto dell’istanza di fallimento per insussistenza dei presupposti per l’ammissione alla procedura, o in caso di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo, non essendo intervenuta la verifica dello stato passivo, è necessario che il lavoratore abbia ottenuto, preventivamente, un decreto ingiuntivo o una sentenza del tribunale che abbia accertato il proprio credito. A riguardo di quest’ultimo punto è intervenuta una precisazione dell’Inps. È noto che, con la riforma del diritto fallimentare, non è più necessario procedere alla verifica dello stato passivo qualora risulti che non vi sia (o non possa essere acquisito) attivo da distribuire ai creditori intervenuti al passivo del fallimento. Questo significa che non vi può essere né un’udienza di verifica dello stato passivo, né tantomeno un provvedimento che dichiara esecutivo lo stato passivo. Come fanno, allora, i lavoratori a chiedere il pagamento al Fondo di Garanzia dell’Inps? È l’Inps stesso a chiarirlo: quando il datore di lavoro sia una società a responsabilità limitata o per azioni, poiché la legge prevede la cancellazione dal Registro delle Imprese in caso di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo, stante l’impossibilità di tentare azioni esecutive contro un soggetto estinto, è sufficiente che il lavoratore – che voglia ottenere il pagamento del Tfr – produca all’Inps il decreto di chiusura della procedura concorsuale. Resta ferma la necessità di provare l’esistenza del credito mediante la consegna dell’originale di un titolo esecutivo quale una sentenza, un decreto ingiuntivo, un decreto di esecutività del verbale di conciliazione davanti alla Direzione del Lavoro, la diffida accertativa quando, con provvedimento del Direttore della Dpl, acquista valore di accertamento tecnico con efficacia di titolo esecutivo.

Giuseppe Catapano scrive: Il recupero crediti dell’avvocato passa per la negoziazione assistita

Se l’avvocato fa causa alla società propria cliente per ottenere il pagamento della parcella per l’attività svolta in suo favore, è necessario che prima proceda con la negoziazione assistita. Sempre a condizione che il valore della lite non superi 50 mila euro. Lo ha precisato il Tribunale di Verona con una recente ordinanza. Tutte le volte, infatti, in cui chi agisce per il recupero dei propri crediti non utilizzi lo strumento del decreto ingiuntivo (optando, piuttosto per la causa ordinaria) e il debitore non sia un consumatore, è necessario inviare l’offerta alla controparte con cui la si invita a una procedura di negoziazione assistita dagli avvocati. Non importa – si legge nel provvedimento in commento – che, in questo caso, la parte che agisce (ossia l’avvocato) sia anche parte sostanziale del processo. È infatti vero che la nuova normativa nega la necessità della negoziazione tutte le volte in cui la parte può stare in giudizio personalmente, ma tale deroga si riferisce solo a quelle cause in cui il creditore agisce davanti al giudice di pace per liti di valore non superiore a 1.100 euro o a quelle avviate col rito sommario speciale previsto in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato; solo in questi ultimi due casi non si applica l’obbligo della negoziazione assistita. In sintesi: se si tratta di una causa con rito ordinario, se il debitore non è un consumatore e il valore della lite non supera 50 mila euro, l’avvocato che voglia agire per farsi pagare l’attività non può rivolgersi direttamente al giudice, ma deve passare prima per la negoziazione assistita.

Catapano Giuseppe comunica: Assegni scoperti e identità falsa del correntista, banca responsabile

Anche la banca può essere responsabile se un proprio cliente emette un assegno a vuoto compiendo una palese truffa: prima, infatti, di aprire un conto corrente, il dipendente dell’istituto di credito deve effettuare delle verifiche preliminari sul nuovo cliente per verificare che questi non abbia fornito documenti falsi o artefatti. Se c’è negligenza in tale attività, l’eventuale soggetto che abbia ricevuto, dal truffatore, un assegno scoperto può chiedere il risarcimento anche alla banca di quest’ultimo. Lo ha detto la Cassazione in una recente sentenza. Solo il compimento di verifiche diligenti da parte del funzionario escludono la responsabilità dell’istituto di credito che ha disposto l’apertura di conto corrente con rilascio di carnet di assegni. Numerose sentenze della Cassazione hanno chiarito che la legge che regola il sistema bancario impone, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti al dipendente dell’istituto di credito la cui violazione può costituire fonte di colpa per omesso controllo. Se però tutto avviene regolarmente, nessuna responsabilità può avere la banca se il conto era in rosso o l’assegno non coperto. In tal caso, la colpa è solo del correntista. Peraltro, si legge in sentenza, il rilascio del carnet di assegni può legittimamente avvenire solo a fronte della semplice apertura del conto corrente: nessuna norma, infatti, ne subordina il rilascio alla concreta disponibilità di somme sul conto stesso.