Estensione del fallimento alla super società di fatto: ambito applicativo ed elementi presuntivi

Tribunale Vibo Valentia, 14 Ottobre 2021. Pres. Passarelli. Est. Buggè.

La fattispecie all’esame del Tribunale è la richiesta di fallimento, ex art. 147 l.f., in estensione relativa ad alcune società che operano in uno o più settori di riferimento suffragata dalla rete di connessioni esistenti tra le stesse compagini, in particolare, i locali, i segni distintivi, i rapporti contabili, i rapporti sociali, gli incarichi sociali, gli affari intrattenuti e, infine, anche i rapporti familiari tra le componenti personali dei soci e degli amministratori. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

Dirompente è, infatti, il primo comma dell’art. 147 l.f. il quale expressis verbis impone due concetti: che il fallimento di alcuni tipi societari produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, anche se non persone fisiche; automatismo fallimentare svincolato dalla dimostrazione dei requisiti di fallibilità nel caso di specie si propone istanza di fallimento in estensione di società, anche diverse di quelle di cui all’art. 147, comma 1, legge fallimentare, che sono socie occulte di una società di fatto. In buona sostanza, l’art. 147, comma 5, legge fallimentare prevede anche l’ipotesi di fallimento della società occulta di cui sono soci non solo ditte individuali, ma anche persone giuridiche, nella specie società eterogenee tra di loro in quanto a tipo societario, e ciò è possibile grazie anche ad un’interpretazione evolutiva della normativa in questione avvalorata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (6/12/2017, n. 255) e della Corte di Cassazione (sent. n. 10507/2016). (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

Il ragionamento induttivo può essere usato per la dimostrazione dell’esistenza di una società di fatto ai fini della dichiarazione di fallimento in estensione ex art. 147 legge fallimentare. Tale ragionamento deve basarsi su elementi gravi, precisi e concordanti (in tal senso, Tribunale Bergamo Sez. II, 5/12/2018 che ha stabilito che “Il riscontro probatorio dell’esistenza di una “supersocietà di fatto occulta” ben può avvenire alla stregua di elementi presuntivi, purché gravi, precisi e concordanti”. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)
 
Gli elementi costitutivi della società occulta sono: 1) il c.d. patto di occultamento; 2) il c.d. vincolo associativo; 3) la c.d. affectio societatis. L’assenza di atti giuridici che palesino in maniera concreta l’esistenza della supersocietà ha imposto l’elaborazione, da parte della giurisprudenza e della migliore dottrina, di quelli che sono gli indici di esteriorizzazione della società occulta e oggetto di una prova rigorosa (Cassazione civ., Sez. I, 20/5/2016, n. 10507): a. sostegno finanziario; b. spendita del nome; c. comunanza di mezzi, poteri amministrativi e rischio d’impresa; d. detenzione delle quote societarie o delle partecipazioni; e. coincidenza delle attività svolte dalle società; f. svolgimento dell’attività in locali anche solo parzialmente coincidenti; g. esistenza di operazioni tra le società da cui derivi un ricavo. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

L’efficacia probatoria del contenuto della relazione del curatore fallimentare va diversamente valutata a seconda della natura delle risultanze da essa emergenti; infatti, mentre la relazione, in quanto formata da pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza, il contenuto delle dichiarazioni rese dai terzi rimane liberamente valutabile in ordine alla sua veridicità. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

Dall’esame degli atti e delle attività dei Soci Occulti e della Fallita emerge all’evidenza che la “super-società” possa qualificarsi come un soggetto economico comune avente, quale oggetto della propria impresa: a. la produzione di frutta e verdura (per il tramite di due società); b. la trasformazione dei prodotti agricoli in derivati da essi (per il tramite di altre due società); c. la commercializzazione dei prodotti in parola (per il tramite delle società sub b) e di altra); d. il trasporto presso i punti vendita (per il tramite di altra società). Evidente, pertanto, l’esistenza di un oggetto comune costituito al fine di occuparsi dall’intera filiera, dalla produzione alla consegna ai rivenditori finali, di prodotti di natura agricola. Da quanto appena indicato appare in modo evidente quella che è l’attività imputata alla supersocietà, definibile, in sostanza, nell’attività di produrre, commerciare e distribuire prodotti agricoli. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

Dalla disamina degli atti emerge che quando una delle società resistenti agiva all’esterno venisse chiaramente speso il nome del gruppo e, pertanto, l’azione venisse percepita come riferibile al gruppo e non singolarmente alla società, tant’è che anche i professionisti che hanno a che fare col gruppo pensano di svolgere un’attività professionale per lo stesso. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)
Nel caso in esame, la società di fatto è indipendente dal raggruppamento temporaneo e, anzi, quest’ultimo rappresenta solo una modalità operativa per la gestione di un interesse comune. L’utilizzo della carta di credito intitolata ad altra società del gruppo da parte della società del gruppo che si occupa dei trasporti sottolinea ancora una volta l’esistenza di un soggetto terzo, la società di fatto, in quanto tra le società palesi v’è una comunanza di mezzi e di fondi che va al di là del mero rapporto parentale e, peraltro, si suggella in un comune rischio di impresa. Tutti questi elementi (sede, persone fisiche che hanno ruoli nella società, i ruoli e la gestione familiare delle imprese peraltro incontestati, elevato importo della cartella esattoriale e mezzi e fondi comuni) depongono univocamente verso una gestione comune dei poteri di amministrazione e del rischio di impresa. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)
La tesi dell’unicità della direzione delle società, da parte di un centro di imputazione economico amministrativo costituito dalla società di fatto, sarebbe avvalorato dal fatto che alcuni dei soggetti cardine delle più importanti cariche e affari disconoscessero molti dei dati basilari relativi alle imprese in cui ricoprivano dei ruoli dall’analisi combinata di questi indici, tant’è che è emerso che la persona fisica abbia avuto la gestione della società di fatto di cui sono socie le società palesi e che lo stesso decideva i ruoli all’interno delle società e gli affari che le singole società devono perseguire. Già da un punto di vista concettuale se si svolge un’attività economica plurisoggettiva vi deve essere una minima differenziazione tra le attività svolte. Peraltro, sono tutte aziende che operano, oggettivamente su mercati differenti, ma in un settore comune che è quello agricolo. L’unica società che si occupa di un’attività diversa è quella dei trasporti, la quale tuttavia ha un’attività strumentale rispetto a quelle delle altre società palesi ed è mezzo necessario per la realizzazione degli affari della società di fatto. Risulterebbe, in effetti, arduo concepire la gestione di una intera filiera economica nel settore agricolo senza pensare alla necessaria logistica del trasporto dei prodotti agricoli. Pertanto, gli elementi fin qui illustrati sono gravemente indicativi dell’esistenza della società di fatto e corroborato da altri indici precisi e concordanti. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)
Diversamente opinando, in ogni caso, nella fattispecie in esame, tutte le circostanze, benchè singolarmente non univoche, insieme danno un risultato univoco in quanto sono giustificate solo dall’esistenza di un soggetto, costituito da un insieme di società con diversi dipendenti che si occupano della filiera agricola nell’ambito di bandi pubblici di valore milionario, a cui imputare soggettivamente e oggettivamente le operazioni non giustificabili dal punto di vista commerciale con l’imputazione alle singole società. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

L’assenza di automaticità nella dichiarazione di fallimento, inoltre, pone un’altra questione che è quella relativa all’insolvenza della supersocietà. Infatti, devono rimanere concettualmente distinte l’insolvenza della supersocietà da quella della società socia occulta In tal senso si sono pronunciate diverse corti di merito e la Corte di Cassazione (cfr. Corte d’Appello Lecce, 14/01/2019 secondo la quale “Al fine della dichiarazione di fallimento di una società di fatto occulta esistente tra una società di capitali, già dichiarata fallita, ed altra società di capitali, con ripercussione del fallimento su quest’ultima, il soggetto istante deve allegare ed il tribunale deve accertare la esistenza di un autonomo stato di insolvenza della società di fatto, da valutarsi alla luce di una situazione patrimoniale consolidata, che tenga conto, cioè, complessivamente ed unitariamente, delle situazioni patrimoniali di ciascuna società.”. Cfr anche Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 4/3/2021, n. 6030 secondo la quale “Il fallimento della super-società costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci; perciò l’indagine del giudice deve essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza, perché all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della società di fatto.”). Pertanto, per aversi il fallimento in estensione della società occulta deve essere dimostrata la sua insolvenza. Tuttavia, dimostrata l’insolvenza della società occulta, la dichiarazione di estensione del fallimento prescinde dalla tenuta patrimoniale delle altre società, anche di capitali, che sono socie della supersocietà non palese. L’insolvenza in questione è pacificamente quella di cui all’art. 5 legge fallimentare. La ricostruzione della Curatela ha fatto riferimento a passività per oltre due milioni di euro a fronte di attivi incapaci di garantire il regolare pagamento delle obbligazioni sociali della supersocietà. (Luca Caravella) (riproduzione riservata)

DEBITI SOCIETA’ESTINTE

Per i debiti non soddisfatti dalla societa’ di capitali, davvero succede a pieno titolo il socio che quindi risponde nei confronti del creditore? La tesi appare non supportata dal dato normativo ma e’ tuttavia presente in modo ambiguo in una recente pronuncia della Cassazione.
Per le obbligazioni contratte dalla società di capitali risponde sempre e solo quest’ultima con il suo patrimonio. Questo principio generale vale anche quando la società procede all’estinzione per effetto del termine della liquidazione, pur
non avendo onorato in tutto o in parte i propri debiti: infatti a norma dell’art. 2495, c. 2, C.C., per i debiti non estinti i creditori possono rivolgersi ai soci, se questi ultimi hanno incassato somme derivanti dall’attività di liquidazione, oppure al liquidatore se il mancato pagamento è dipeso da colpa di quest’ultimo. Questi principi cardine del nostro
ordinamento, che con alcune precisazioni valgono anche per i debiti tributari, sono stati messi in dubbio da una recente sentenza della Corte di Cassazione (2.07.2018, n. 17243), nella cui succinta motivazione emergono passaggi francamente incomprensibili, a meno che, appunto, la succinta stesura non tragga in inganno il lettore. Nella citata
sentenza si afferma che il socio subentra con un fenomeno di tipo successorio, per cui i debiti insoddisfatti si trasferiscono in capo a quest’ultimo. Ma ciò che davvero è grave è il passaggio successivo, in cui si afferma che ciò accade indipendentemente “dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di
liquidazione” e poi si aggiunge che la responsabilità del socio di società di capitali “non subisce limitazione alcuna in ragione dell’entità del conferimento in favore dei soci“.
Si tratta di affermazione dalle quali emerge un quadro preoccupante e certamente in controtendenza rispetto a quanto generalmente si è sostenuto dalla dottrina e cioè che la responsabilità del socio rispetto alle obbligazioni non estinte dalla società di capitali, cancellata dal Registro Imprese per effetto dell’avvenuta liquidazione volontaria, è limitata alla ipotesi in cui, durante la fase di liquidazione, abbia riscosso somme a titolo di riparto del patrimonio della società. Per la particolare ipotesi dei debiti tributari, l’art. 36 del D.P.R. 602/1973, al c. 3 aggiunge la previsione secondo cui i soci rispondono dei debiti stessi, nel limite non solo delle somme incassate durante la liquidazione bensì anche per quelle incassate quale effetto di assegnazioni avvenute nei due periodi d’imposta precedenti la messa in liquidazione. Ma si tratta pur sempre di limiti ben precisi, in relazione ai quali si può affermare che, se il socio non ha
incassato nulla a titolo di riparto dalla società durante la fase di liquidazione e durante il biennio precedente, nessuna responsabilità può essergli ascritta.
Lo scenario potrebbe sembrare eccessivamente lesivo dei diritti dei creditori, ma occorre sempre ricordare che, anche se la società fosse operativa, la responsabilità rispetto alle obbligazioni sociali sarebbe sempre limitata al patrimonio della società: i creditori non potrebbero intentare alcuna azione nei confronti dei soci. E a pensarci bene, il limite di
responsabilità previsto dal combinato disposto degli artt. 2495 C.C. e 36 D.P.R. 602/1973 (le somme incassate dai soci a titolo di riparto) altro non fa che confermare la regola generale: risponde sempre e solo il patrimonio netto della società, anche se trasferito ai soci: appunto, le assegnazioni avvenute prima e durante la fase di liquidazione. Alla luce
di tutto ciò, risulta ancora più incomprensibile il contenuto della sentenza sopra citata.

Catapano Giuseppe informa: ANNULLATO IN APPELLO L’ACCERTAMENTO SULLA SOCIETÀ. CIÒ NON RENDE LEGITTIMA LA DECISIONE SULLA POSIZIONE DELLA SOCIA

“Avviso di accertamento” per “maggiori redditi (non contabilizzati e non dichiarati)” nei confronti della società. Di rimbalzo, però, a finire nel mirino del Fisco è anche una “socia”, cui viene attribuito un “reddito da partecipazione”, anche tenendo presente che la “compagine societaria” era “a formazione ristretta e con soci tra cui intercorrevano rapporti familiari”.
Correlazione stretta, quindi, tra società e socia. E tale correlazione è rilevante per i giudici tributari regionali: questi ultimi, difatti, hanno “annullato l’avviso di accertamento riferito alla società” e ora ritengono che “anche il provvedimento rivolto nei confronti della socia” vada “annullato”. Ciò perché “l’accertamento induttivo, ritenuto illegittimo, ha riverberato i suoi effetti sul reddito dei soci ma è carente, per le stesse motivazioni, del presupposto impositivo”.
Ma la vittoria per la “socia” è effimera. Per i giudici della Cassazione, difatti, la visione tracciata in Commissione tributaria regionale è erronea. Difatti, “norme” alla mano, “il giudicante” non avrebbe dovuto “pronunciarsi, prima che fosse passata in giudicato la sentenza relativa alla questione pregiudicante”.
Detto in maniera chiara, sarebbe stato più logico ‘congelare’ la posizione della “socia” in attesa di definire la questione relativa alla “società”.
E tale visione spinge ora i giudici della Cassazione a riaffidare la vicenda ai giudici tributari regionali, i quali potranno “provvedere sulle questioni oggetto dell’appello” proposto dalla socia “una volta decisa definitivamente” la posizione della società.

Catapano Giuseppe: L’IRAP E’ SEMPRE DOVUTA DALLE SOCIETA’

L’agenzia delle entrate ricorre contro il rimborso IRAP proposto da una società di persone che asseriva di non possedere un’autonoma organizzazione in quanto preponderante era il lavoro personale. La sentenza della corte di cassazione è lapidaria: ove ci sia una società o un associazione anche di natura professionale essa è in re ipsa assoggettabile all’imposta regionale per le attività produttive. La conclusione a cui pervengono i giudici di ultima istanza è che ,se accolta la tesi del contribuente, allora verrebbe minata la nozione di impresa che, ai fini questa imposta, deve essere definita come lavoro individuale. Inoltre tale decisione derivava dall’esatta interpretazione dell’arresto della corte costituzionale numero 156. Secondo tale interpretazione il motivo per non essere assoggettati a tale imposta era il dover dimostrare di non possedere un autonoma organizzazione, e nel nostro caso il termine di evitare l’imposizione era stata evidenziata nell’assenza di collaboratori esterni e dipendenti. Evidentemente elemento non sufficiente per le forme societarie.

Catapano Giuseppe osserva: ANCHE UN SOLO DEBITO PUO’ SANCIRE IL FALLIMENTO DELLA SOCIETA’

Non è questione di quantità ma di qualità; un unico debito non dovrebbe fare primavera ma in questo caso si, soprattutto se i giudici di merito abbiano valutato la complessità della situazione in generale. E’ la soluzione che la suprema corte di Cassazione affibbia al nostro caso in tema di presupposto oggettivo del fallimento. La società ricorrente poneva in dubbio l’operato dei giudici di merito in quanto esso si basava, a dire del ricorrente, addirittura su un solo debito non definitivo e su di una prospettiva economico patrimoniale ben diversa da quella che poteva essere addossata ad un’impresa insolvente. Di diverso avviso i giudici supremi che analizzando la questione fanno salvo l’operato dei giudizi precedenti condannando alle spese i ricorrenti.

Catapano Giuseppe osserva: DICHIARAZIONE IVA ‘TRUCCATA’ DELLA SOCIETÀ, AVVISO DI ACCERTAMENTO PER IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO D’AMMINISTRAZIONE

Riflettori puntati su una ‘società per azioni’. A destare sospetti, per il Fisco, è la “dichiarazione Iva per l’anno d’imposta 1999”. Consequenziale, a chiusura di un approfondimento ad hoc, la “rettifica” di quella dichiarazione.
Passaggio successivo è la notifica di un “avviso di accertamento, contenente irrogazione di sanzioni pecuniarie” nei confronti del “presidente”, all’epoca dei fatti, del “consiglio di amministrazione della società”.
Operazione illegittima, secondo i giudici tributari, quella compiuta dal Fisco. Ciò per una ragione semplicissima: è mancata la “prova di un comportamento colpevole direttamente addebitabile al presidente del consiglio di amministrazione, in un contesto societario di discrete dimensioni, con centoquattordici dipendenti ed un’articolata ripartizione di compiti”.
Tale visione, però, viene demolita dai giudici della Cassazione, i quali, invece, considerano corretto il ragionamento portato avanti dal Fisco.
In sostanza, “il presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, anche al cospetto di una mera ripartizione interna di compiti”, come in questo caso, “risponde, presumendosene la colpevolezza, delle sanzioni amministrative derivanti da violazioni delle norme tributarie, in mancanza di prova, da parte sua, dell’assenza di colpa”.
A dare forza a questa prospettiva, secondo i giudici della Cassazione, diverse considerazioni: primo, “la centralità, in seno all’organizzazione sociale, del ruolo spettante agli amministratori, ai quali non è demandata soltanto l’esecuzione delle delibere dell’assemblea, ma anche la gestione dell’attività sociale”, e ciò comporta che “condotte come quelle” contestate in questa vicenda – “violazioni consistite nell’omessa regolarizzazione di acquisti senza fattura, nella mancata emissione di fatture relative ad operazioni imponibili compiute e nella conseguente omessa registrazione, nell’omessa indicazione dell’imposta in cinque fatture e nella loro omessa registrazione, nella dichiarazione con imposta inferiore a quella dovuta e nell’irregolare tenuta della contabilità Iva” –, condotte che peraltro “investono aspetti rilevanti di gestione”, sono “riferibili a tutti gli amministratori ed a ciascuno di essi”; secondo, “la mera ripartizione dei compiti”, ritenuta decisiva in Appello, “è del tutto irrilevante ad escludere o anche ad attenuare la riferibilità delle violazioni”, non essendo emerso “il ricorso a deleghe di funzioni al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori”; terzo, “una divisione di fatto delle competenze tra gli amministratori, l’adozione, anch’essa di fatto, del metodo disgiuntivo nell’amministrazione, o, semplicemente, l’affidamento all’attività di altri componenti il collegio di amministrazione, non riescono ad escludere la responsabilità di alcuni amministratori per le violazioni commesse dagli altri”; quarto, “la condotta omissiva per affidamento a terzi, lungi dal comportare esclusione di responsabilità, può costituire, di contro, ammissione dell’inadempimento dell’obbligo di diligenza e vigilanza”.
Pare conquistare solidità, quindi, la visione tracciata dal Fisco, anche se ora toccherà ai giudici della Commissione tributaria regionale riesaminare la vicenda, tenendo presenti però le indicazioni fornite dalla Cassazione.

Catapano Giuseppe: Il fisco arriva a pesare fino all’80% sulle società

Imprese italiane asfissiate dal fisco. La tassazione sulle medie aziende «continua a essere punitiva». Il livello impositivo nel 2013 è stato del 38,1%, con punte dell’80% in alcuni casi limite. Senza l’Irap la pressione fiscale scenderebbe di oltre 11 punti percentuali al 26,4%, in linea cioè con quello delle medie imprese europee. Qualche spiraglio è stato aperto dalla legge n. 190/2014, che ha reso integralmente deducibile il costo del lavoro ai fini Irap: la misura dovrebbe portare il tax rate complessivo al 33% nel 2015, pur lasciando picchi di imposizione intorno al 60%. È quanto emerge dall’indagine annuale sulle medie imprese industriali italiane, realizzata da Mediobanca e Unioncamere, presentata ieri a Milano. Il rapporto è basato sulla rilevazione di 3.212 aziende manifatturiere, che assicurano il 16% del valore aggiunto del settore e il 17% delle esportazione nazionali. Pur in un contesto di generale miglioramento, il capitolo fiscale continua a restare un peso significativo. Anche se la manovra sull’Irap adottata dal governo con la legge di stabilità 2015 lascia aperte buone prospettive. «Il costo del lavoro pesa nelle medie imprese per circa il 66% del valore aggiunto», evidenzia lo studio, «si stima che la riforma fiscale possa abbattere il tax rate dal 38,1% al 33%. Per il panel considerato si tratta di un calo di circa 460 milioni di euro di minori imposte su base annua, cioè 1,4 miliardi nel triennio 2015-2017». Un risparmio fiscale che, sottolinea il rapporto, potrebbe valere 11.450 posti di lavoro in più (+2%), oppure maggiori investimenti (+7%) o ancora un rafforzamento della struttura patrimoniale delle società (+9%). L’indagine rileva pure che il carico tributario complessivamente gravante sulle medie imprese (38% nel 2013) è di 12 punti percentuali superiore a quello che emerge dai bilanci dei grandi gruppi.

Giuseppe Catapano comunica: Uscita soci al registro imprese

In caso di decesso, recesso ed esclusione del socio la comunicazione al registro delle imprese va effettuata entro 30 giorni dall’evento a prescindere dalla preventiva modificazione dell’atto costitutivo della società. Nei casi di mancato rispetto del termine tutti gli amministratori della società saranno assoggettati alla sanzione amministrativa ex art. 2630 c.c. È quanto prevede la direttiva emanata dal ministero dello sviluppo economico, d’intesa con il ministero della giustizia in merito all’exit dei soci di società di persone. Il problema Nei casi di decesso, recesso o esclusione del socio di società personali, ex artt. da 2284 a 2290 del codice civile, ad oggi i comportamenti dei registri delle imprese italiane risultano estremamente disomogenei. Tale situazione, secondo il Mise rappresenta «un sicuro e grave ostacolo all’ordinato svolgimento dell’attività delle imprese, nonché all’affidabilità delle notizie ricavabili dai registi delle imprese». In accordo con l’unione italiana delle camere di commercio, ai sensi dell’art. 8, comma 2 della legge 580/1993, viene quindi emanata una direttiva volta ad uniformare il comportamento degli uffici del Registro delle imprese sui temi in questione. Il decesso II decesso del socio di società di persone, di cui all’art. 2284 del codice civile costituisce un fatto modificativo dell’atto costitutivo. Ne deriva, per il combinato disposto degli artt. 2295 e 2300 c.c., che, lo stesso, deve essere iscritto nel registro delle imprese. Questo adempimento pubblicitario dovrà essere eseguito dagli amministratori entro trenta giorni dalla data del decesso, pena l’applicazione delle sanzioni ex art. 2630 c.c. (da 103 a 1.032 euro), su ciascun amministratore, (sanzione eventualmente oblazionabile ndr). Da rilevare che la direttiva Mise non distingue la libera trasferibilità mortis causa o meno della partecipazione, in relazione alle previsioni dell’atto costitutivo, per cui gli amministratori sono obbligati alla comunicazione al RI in ogni situazione. A seguito dell’istanza degli amministratori l’ufficio del registro delle imprese provvede ad iscrivere la notizia del decesso sulla posizione del socio. Recesso del socio Anche il recesso, nelle società di persone di cui all’art. 2285 c.c., costituisce un fatto modificativo dell’atto costitutivo e pertanto deve esser iscritto al registro delle imprese da parte degli amministratori, anche prescindendo dalla preventiva modifica dell’atto costitutivo della società. La posizione del Mise, quindi, si distacca da quella del notariato (ufficio studi del notariato nota del nov. 2008 e mass. Not. Triveneto O.A. 8/2014) che ritiene la dichiarazione di recesso notificata, un atto iscrivibile al registro delle imprese solo se riveste la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. In merito alla tempistica dell’adempimento pubblicitario il Mise ritiene che i canonici trenta giorni, oltre i quali scatterebbe la sanzione di cui all’art. 2630 c.c., decorrano da quanto il recesso è divenuto efficace.

Catapano Giuseppe osserva: Fallimento anche per debiti fiscali non scaduti e perdite di esercizio

La società può essere dichiarata fallita per debiti fiscali non ancora scaduti e soprattutto quando ha continue perdite di esercizio. Il chiarimento proviene da una sentenza di ieri della Cassazione che, di certo, non farà dormire sonni tranquilli a chi ha debiti con Equitalia o, comunque, con il fisco. Il fatto che i crediti non siano ancora esigibili (ossia scaduti) non toglie che l’imprenditore possa subire la sentenza dichiarativa di fallimento sempre che sussistano i requisiti soggettivi e oggettivi (leggi, a riguardo, “Fallimento: presupposti per essere dichiarati falliti”). Secondo la Corte, la verifica dello stato d’insolvenza prescinde dall’indagine sull’effettiva esistenza dei crediti fatti valere nei confronti del debitore. Tant’è che la qualità di creditore, necessaria per legittimare il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento, si estende a tutti coloro che vantano un credito, nei confronti del debitore, anche se non necessariamente certo (per esempio, se contestato), liquido (se ancora non esattamente determinato nel suo ammontare) ed esigibile (se, per esempio, soggetto a una condizione non ancora verificatasi). Lo stato di insolvenza, presupposto per potersi dichiarare fallimento, è una situazione di impotenza economico-patrimoniale idonea a privare l’imprenditore della possibilità di far fronte con mezzi normali ai propri debiti. Essa si può desumere da una serie di elementi di fatto: per esempio, l’infruttuoso tentativo del creditore istante di incassare gli assegni consegnatigli dalla società debitrice; l’ammissione del amministratore della società; ricorrenti perdite di esercizio nell’ultimo biennio; complesso di debiti, anche tributari, pur se non scaduti. Tutti questi indizi, valutati complessivamente, sono sufficienti a provare quella situazione di impotenza economica, prescindendo dall’indagine su esistenza ed esigibilità di ciascuno dei suddetti crediti.

CATAPANO GIUSEPPE COMUNICA: MARCHIO DEL PRODOTTO SULL’INSEGNA, MA LA FUNZIONE È IDENTIFICARE IL TIPO DI ESERCIZIO COMMERCIALE: RICONOSCIUTA L’ESENZIONE DALL’IMPOSTA SULLA PUBBLICITÀ

Due “‘cassonetti’ luminosi bifacciali” in bella mostra per segnalare i due “esercizi commerciali” della società. Pare scontata l’applicazione dell’“imposta sulla pubblicità”, ma i giudici tributari prima e quelli di Cassazione poi sono dell’avviso opposto.
Azzerato, così, in via definitiva l’“avviso di accertamento” per “omessa denuncia e mancato pagamento dell’imposta sulla pubblicità” notificato dalla “concessionaria del servizio di accertamento e riscossione” alla “ditta individuale”.
Corretta, quindi, la valutazione tracciata tra primo e secondo grado, dove si è sancito che i singoli “cassonetti” vanno catalogati come “insegna di esercizio”, perché, pur contenendo “il marchio del prodotto”, hanno avuto la mera funzione di “individuare il tipo di esercizio, con l’unico caffè venduto, a differenza di analoghi esercizi commerciali”. Di conseguenza, legittima l’“esenzione” riconosciuta alla società, sanciscono i giudici della Cassazione, poiché l’“insegna” è apposta “presso la sede in cui la società esercita la propria attività commerciale e di produzione”, e presenta dimensioni – 2 metri quadrati – nettamente inferiori a quelle massime consentite.