L’Amministrazione Finanziaria non può giustificare i propri recuperi adducendo unicamente una mancanza di trasparenza nel contegno del contribuente e il sospetto di evasione d’imposta: la carenza di motivazione rappresenta in tale ambito un efficace tassello della difesa tributaria.
Con una sintetica ma efficace pronuncia, la Cassazione (Cass. Civ. Sez. VI, ord. 25.06.2018, n. 16647) interviene su una tematica di rilievo riguardante la valutazione della concretezza della strutturazione probatoria dei rilievi mossi
dall’Agenzia delle Entrate nel contesto delle ordinarie attività ispettive, di controllo e accertamento.
In particolare, la vicenda trae spunto da un’attività accertativa risultante ex post evidentemente carente sotto l’aspetto dell’idoneità probatoria dei recuperi oggetto di contestazione. Infatti è stato rilevato ed evidenziato, in sede di giudizio di merito, che le singole pretese tributarie risultavano connotate da evidenti carenze, insufficienze e
superficialità dei recuperi, in quanto l’accertamento dell’Ufficio finanziario procedente risultava esser fondato su evidenze fattuali esposte in maniera approssimativa e generica, avendo l’ufficio dedotto, ma non concretamente esplicato e motivato, la mancanza di trasparenza nella condotta del contribuente verificato (tramite c.d. redditometro) e arrestandosi in tale contesto a gettare sospetti, senza dimostrare con prove le proprie asserzioni.
I rilievi del Fisco, in tale prospettiva, sono stati ritenuti “indimostrati” e pertanto “non ammessi”.
La pronuncia in commento, nonostante la brevità e la semplicità espressa, ruota attorno al fulcro di ogni controversia col
Fisco: la prova.
Si rileva infatti che nel contesto della propria attività istituzionale, per i controlli orientati alla corretta determinazione degli imponibili e delle imposte, l’Amministrazione Finanziaria si deve adoperare per la ricerca della prova, soprattutto nei casi in cui debba giustificare una propria pretesa impositiva o sanzionatoria.
Affinché l’attività svolta dall’Amministrazione Finanziaria possa superare il vaglio di eventuali invalidità, è opportuno che nell’esecuzione di tali incombenze sia rispettato tale dovere che, concretamente, si trova a essere frazionato:
– in primis, nell’obbligo di acquisire elementi informativi concretamente idonei ad attestare la rispondenza al vero degli enunciati fattuali insiti nella propria pretesa impositiva;
– in seconda istanza, nell’obbligo di esplicitare in maniera adeguata, nella motivazione, i presupposti alla base di tali pretese.
L’obbligatorietà e la completezza della motivazione emergono in maniera piuttosto evidente da un buon numero di norme (in primis l’art. 3, L. 241/1990), sino a giungere alla formulazione sulla disciplina delle sanzioni tributarie,
prevedendo espressamente, nell’art. 16 D.Lgs. 472/1997, l’obbligo per l’ufficio di enunciare gli elementi probatori nell’atto di contestazione delle sanzioni e comminando la sanzione della nullità in caso di inosservanza di tale precetto.
In termini di completezza del controllo a posteriori di tali attività accertative e avuto riguardo agli argomenti proposti, si ritiene che in termini funzionali possano costituire oggetto di controllo valutativo sia la prova quale elemento cognizione
(il mezzo di prova), che la prova come fattore dimostrativo (dimostrazione del fatto).
sentenza
Catapano Giuseppe informa: LA SENTENZA DELLA CONSULTA SULLE PENSIONI FOTOGRAFA UN QUADRO DESOLANTE DEL SISTEMA ISTITUZIONALE
Archiviamo per il momento l’Italicum. Ormai è legge, anche se alla Camera è passato con meno voti della maggioranza di governo, con tutte le opposizioni sull’aventino e con il Pd lacerato per una cinquantina di voti contrari alla fiducia. Ma ci torneremo più in là, perché quella legge è come se fosse un tavolo senza una gamba: manca la riforma costituzionale del Senato. Che ha tempi lunghi e una difficoltà non banale: deve essere votata dal Senato stesso. Ed è proprio a Palazzo Madama che la gamba mancante dell’Italicum rischia di frantumarsi, e di far cadere il tavolo. Non va dimenticato, infatti, che al Senato l’Italicum fu votato coi voti decisivi di Forza Italia, ora persi dopo l’affondamento del patto del Nazareno. Non è un caso che Renzi alla Camera abbia messo la fiducia – scelta legittima sul piano formale ma politicamente scivolosa – per evitare un qualsiasi emendamento: se l’Italicum fosse tornato in Senato, sarebbe morto.
Ma c’è tempo, ora bisogna vedere che indicazione politica uscirà dalle elezioni regionali e comunali di fine maggio. Il timore è, come ha scritto bene Davide Giacalone, che prevalga il trasformismo di aggregazioni spurie – di cui quella della lista capeggiata da De Luca in Campania è un perfetto prototipo – buone per vincere nelle urne ma perniciose per l’effettiva governabilità. Che è stato il tratto distintivo di tutta la Seconda Repubblica a tutti i livelli amministrativi e di governo, a conferma che quella che stiamo vivendo non è affatto una transizione verso l’agognata Terza Repubblica.
Nel frattempo, in attesa che accada – purtroppo – quel che è perfettamente prevedibile, non rimane che prendere atto del grado di disfacimento subito dal nostro sistema istituzionale. Ci riferiamo alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco delle indicizzazioni delle pensioni del 2011. Quando il governo Monti si assunse la responsabilità di intervenire sulla incandescente materia previdenziale, dicemmo con chiarezza che era necessario, sia per ragioni di finanza pubblica (allora particolarmente stringenti) e sia per ragioni di salvaguardia delle pensioni future e di adeguamento del sistema previdenziale alla mutate condizioni di vita. E non mancammo di sottolineare il coraggio di quella scelta (peccato che fu sostanzialmente l’unica di quel governo…). Ma specificammo che mentre eravamo totalmente favorevoli all’aumento dell’età pensionabile, non altrettanto ci convinceva il blocco delle rivalutazioni, sia come strumento per far cassa, sia perché introduceva l’idea che pensioni da 3 mila euro fossero roba da ricchi, sia infine intervenire sul terreno dei diritti già acquisiti e in corso di fruizione apriva la porta a contenziosi. Tuttavia, giudichiamo la sentenza della Corte tardiva e fuori luogo. Quella fu, pur criticabile, una scelta politica, un atto di politica economica e di bilancio, cioè sfere che sono, e devono rimanere, prerogativa del governo e del parlamento. I diritti sociali sono per definizione condizionati dalle risorse pubbliche disponibile in un determinato momento storico, e il punto d’equilibrio tra diritti e risorse è una scelta politica che è mobile e muta nel tempo. Se poi le conseguenze di una sentenza come quella formulata dalla suprema Corte, quasi quattro anni dopo, sono una voragine di oltre 13 miliardi nel bilancio dello Stato, beh maggiore prudenza sarebbe stata opportuna. Tanto più che la decisione è avvenuta con il voto decisivo del presidente (l’obbligo di una maggioranza dei due terzi per decisioni del genere, no?).
Sarebbe bastato, come molte altre volte è successo, che la Consulta invitasse il legislatore a correggere la norma, precisando che, in mancanza e ove nuovamente investita della questione, avrebbe dichiarato l’illegittimità. Oppure la Consulta avrebbe potuto agire come quando ha dichiarato, con ragione, l’incostituzionalità della cosiddetta Robin Tax (Tremonti 2008), ma non ha imposto allo Stato la restituzione alle società energetiche del “maltolto” proprio in nome dell’articolo 81 della Costituzione, che fa riferimento alla salvaguardia degli equilibri di bilancio e al rispetto del patto di stabilità europeo.
Inoltre, è paradossale – per non dire di peggio – che tra organi istituzionali non viga la civile prassi di comunicazioni dirette, seppure informali. Perché delle due l’una: o il governo quando ha scritto il Def e mandato a Bruxelles i numeri del 2015 non sapeva nulla – strano, però, perché l’udienza in cui si è decisa l’incostituzionalità del blocco alla perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo è del 10 marzo, mentre il Def è di un mese dopo – e allora la Consulta si è presa una bella responsabilità, oppure era a conoscenza del fatto che di lì a poco sarebbe arrivata quella mazzata, e allora avrebbe dovuto prudenzialmente accantonare in bilancio le risorse necessarie (altro che tesoretto!). Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante, anche perché è sempre più affollata la lista dei provvedimenti che finiscono sotto la mannaia della Corte. Da un lato, i governi continuano a fare norme attaccabili sotto il profilo costituzionale, o nella più beata ignoranza o nella consapevolezza che tanto passeranno anni e toccherà a qualcun altro beccarsi le conseguenze di provvedimenti volutamente sbagliati ma grazie ai quali si lucrano vantaggi politici immediati; dall’altro, la Consulta agisce con ritardo e in modo molto contradditorio. Questo, ahinoi, è lo stato del nostro Stato di diritto. E poi ci si stupisce se nella società italiana, sempre più sfiduciata, la parola d’ordine maggiormente gettonata è l’invocazione di una brutale semplificazione delle procedure istituzionali e democratiche identificata nel decisionismo dell’uomo solo al comando!
Catapano Giuseppe comunica: Mancata registrazione della sentenza: il termine breve per l’impugnazione decorre lo stesso
Se il creditore si fa rilasciare una copia della sentenza di primo grado a uso notifica, prima ancora di versare la relativa imposta di registro all’Agenzia delle Entrate, e l’ufficiale giudiziario la consegna correttamente alla parte soccombente del giudizio, comincia a decorrere subito, per quest’ultima, il termine breve per proporre impugnazione (30 giorni per l’appello; 60 giorni per il ricorso in Cassazione). Questo perché – secondo quanto affermato da una sentenza della Cassazione del 2012 e ribadita qualche giorno fa dalla stesa Corte – la mancata registrazione della sentenza notificata non impedisce il decorso del termine breve per impugnare nei confronti del destinatario. Non si può, infatti, subordinare la decorrenza del termine per impugnare la sentenza alle disponibilità economiche della parte vittoriosa. Una interpretazione di tal genere determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra soggetti in situazioni identiche, e si porrebbe in contrasto non solo con la nostra Costituzione, ma anche con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo volta ad assicurare la ragionevole durata del processo. Del resto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno più volte affermato che non vi è più l’obbligo di registrazione per tutte le sentenze civili. In ogni caso, anche per quelle ove l’obbligo è previsto, il cancelliere, su richiesta dell’avvocato, deve rilasciare a quest’ultimo una copia ad uso notifica, ancor prima della registrazione, se ciò è necessario ai fini della prosecuzione del giudizio e, quindi, al decorso dei termini per l’impugnazione. Dunque, una volta avvenuta la comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, la successiva notificazione della copia integrale del dispositivo fa comunque decorrere, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve di per la proposizione dell’appello.