Giuseppe Catapano informa: Pensioni, lusso di stato

Nel 1995 la riforma Dini sancisce il logico principio che una pensione sia calcolata sui contributi versati e non sullo stipendio percepito, ma lascia una grande lacuna perché tale principio sarebbe stato applicato
solo a coloro che venivano assunti dopo il 1995. Per coloro che avevano maturato più di diciotto anni di lavoro rimaneva il metodo retributivo totale, mentre per chi ne aveva di meno ci sarebbe stato un calcolo pro rata. Sono passati venti anni dalla riforma Dini e in questo periodo le pensioni di lusso rappresentano ancora la quasi totalità delle pensioni.
Solo una piccolissima percentuale (circa il 10%) percepisce pensioni con il metodo contributivo puro, con importi veramente miseri se paragonate a quelle maturate con il metodo retributivo. La spesa pensionistica, nonostante la riforma Dini, è aumentata, perché era rimasto il peccato originale della lacuna lasciata e ancora oggi assistiamo, oltre allo scandalo dei vitalizi alla casta, a pensionati che hanno già percepito il doppio, il triplo e fino a dieci volte i contributi versati. Questa situazione è ingiusta e deve essere corretta subito. I poveri giovani non possono continuare a versare contributi per pagare le pensioni d’oro calcolate con il metodo retributivo, sapendo, senza ombra di dubbio, che le loro saranno veramente misere.
Questa situazione investe in pieno i lavoratori autonomi della gestione separata che si sono resi già conto, con i primi pensionamenti, della triste realtà. Realtà che scopriranno in tanti con la possibilità per tutti di effettuare la propria proiezione pensionistica, fortemente voluta dal neopresidente dell’Inps, Tito Boeri. Il problema deve essere affrontato e i diritti acquisiti se «sproporzionati» vanno «riproporzionati» in una giusta visione di equità sociale. In tal senso si sono già espressi grandi conoscitori della materia pensionistica ed economisti del calibro di Tiziano Treu, Cesare Damiano, Michele De Lucia, Giuliano Cazzola, Renata Polverini, Ignazio Marino e non da ultimi Tito Boeri e Mario Baldassarri. L’Ancot che si batte da tempo per una previdenza più equa anche con il Colap e con la neo costituita Federazione dei tributaristi, è stata invitata a Palermo al «Festival del lavoro», un convegno indetto dai Consulenti del lavoro. Molto caldo il tema della tavola rotonda: «Un futuro a mezza pensione». Anche in questa occasione daremo il nostro modesto contributo alla soluzione dell’annoso e grande problema della previdenza.
Ci auguriamo che l’occasione di tale evento possa essere veramente propositivo per il governo che sta
mostrando vivo interesse per una riforma della previdenza con diversi suoi esponenti e con il premier Matteo Renzi in prima persona. Un sentito ringraziamento al presidente Marina Calderone, a Vincenzo
Silvestri e a tutto il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per il gradito invito.

Giuseppe Catapano informa: Visco: la ripresa è avviata, accelerare sulle riforme. Pericolo Grecia per la stabilità

Le “difficoltà” della Grecia a definire le riforme necessarie, assieme all’incertezza “sull’esito delle prolungate trattative con le istituzioni europee e con il Fondo monetario internazionale, alimentano tensioni gravi, potenzialmente destabilizzanti”.
Lo ha affermato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle considerazioni finali all’assemblea annuale, aggiungendo che, ad ogni modo, “il riacutizzarsi della crisi greca ha avuto ripecussioni finora limitate sui premi per il rischio sovrano nel resto dell’area, riflettendo le riforme avviate in molti Paesi, i progressi conseguiti nella governance europea e negli strumenti a disposizione delle autorità per evitare fenomeni di contagio”.
Nella sua relazione il governatore ha sottolineato che l’Italia torna a crescere ma c’è il rischio di una ripresa frenata che non crea occupazione. Un timore, questo, particolarmente accentuato nel Mezzogiorno. Occorre perciò rimuovere le debolezze della nostra struttura economica e produttiva accelerando le riforme: solo così l’uscita dalla crisi potrà riflettersi in un aumento dei posti di lavoro, assicurando nuova linfa alla domanda interna, in grado, a sua volta, di consolidare lo sviluppo.
Visco, fotografa nelle sue “Considerazioni finali”, un Paese che esce finalmente dalla crisi più lunga del dopoguerra ma deve creare le condizioni per sfruttare al meglio la migliorata congiuntura internazionale e “consolidare la ripresa”. L’azione del governo viene promossa e incoraggiata insieme: bene Jobs act, bonus 80 euro e gestione dei conti pubblici, ma guai a fermarsi in mezzo al guado.
In Italia, dice Visco, “esiste il rischio, particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che la ripresa non sia in grado di generare occupazione nella stessa misura in cui è accaduto in passato all’uscita da fasi congiunturali sfavorevoli”.
“L’aumento del pil nel primo trimestre – riconosce il governatore nel testo letto davanti alla platea dell’assemblea di Bankitalia – interrompe una lunga fase ciclica sfavorevole; proseguirebbe nel trimestre in corso e in quelli successivi”. Ma poi avverte subito: “Per non deludere le aspettative di cambiamento occorre allargare lo spettro dell’azione di riforma avviata e accelerarne l’attuazione”. I benefici in alcuni casi non sono immediati ma questo, spiega Visco, “è un motivo in più per agire, perseguendo un disegno organico e coerente”. E’ il caso del Jobs act, una cui valutazione degli effetti procurati è ancora “prematura”. E tuttavia “la forte espansione delle assunzioni a tempo indeterminato nei primi mesi del 2015, favorita anche dai consistenti sgravi fiscali in vigore da gennaio, è un segnale positivo, suggerisce che con il consolidarsi della ripresa l’occupazione potrà crescere e orientarsi verso forme più stabili”.
Ma non è solo l’eventuale stallo nelle riforme a preoccupare il numero uno di Bankitalia: “Il ritorno a una crescita stabile, tale da offrire nuove prospettive di lavoro, richiede che prosegua lo sforzo di innovazione necessario per adeguarsi alle nuove tecnologie e alla competizione a livello globale”. E, in questo senso, in Italia “esiste il rischio, particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che la ripresa non sia in grado di generare occupazione nella stessa misura in cui e’ accaduto in passato all’uscita da fasi congiunturali sfavorevoli”. Questo perché la crisi appena superata “si è innestata su una grande trasformazione dettata dal progresso tecnologico e dalla crescita dell’integrazione tra le economie, con grandi paesi emergenti tra i protagonisti”.
In questo scenario, secondo il governatore di Bankitalia, “la domanda di lavoro da parte delle imprese più innovative potrebbe non bastare a riassorbire la disoccupazione nel breve periodo. Ne risenterebbe la stessa sostenibilità della ripresa, che non troverebbe sufficiente alimento nella spesa interna”.
Il consolidamento della ripresa passa anche necessariamente attraverso la capacità delle imprese italiane di competere a livello internazionale. E qui Visco sottolinea con preoccupazione un dualismo nel nostro sistema produttivo: “I risultati delle imprese più efficienti, che hanno aumentato le vendite sui mercati esteri, investito e realizzato innovazioni, contrastano con quelli di una parte considerevole del sistema produttivo, caratterizzata da una scarsa propensione a innovare e da strutture organizzative e gestionali più tradizionali”.
Visco rileva che “l’attività innovativa è in Italia meno intensa che negli altri principali paesi avanzati, soprattutto nel settore privato”. Da noi, spiega, “le imprese non solo nascono mediamente più piccole, ma faticano anche a espandersi”. Con rilessi negativi sui posti di lavoro: “In termini di occupati, anche quando hanno successo crescono a ritmi più bassi e per un periodo più limitato”.
Non devono esserci perciò più indugi nel rimuovere gli ostacoli all’attività delle imprese e alla loro crescita, che vanno dalla complessità del quadro normativo alla scarsa efficienza delle amministrazioni pubbliche, ai ritardi della giustizia, alle carenze del sistema dell’istruzione e della formazione. Una situazione per giunta “aggravata dai fenomeni di corruzione e in più aree dall’operare della criminalità organizzata”.
Il consiglio di Visco alle imprese è “una maggiore attenzione per l’ammodernamento urbanistico, per la salvaguardia del territorio e del paesaggio, per la valorizzazione del patrimonio culturale”. Più investimenti pubblici e privati in questi settori potranno “produrre benefici importanti, coniugando innovazione e occupazione anche al di fuori dei comparti piu’ direttamente coinvolti, quali edilizia e turismo”.
Ultima indicazione sulla scuola. Visco non dà valutazioni sul contestato ddl all’esame del Parlamento, ma avverte: “Per migliorare i programmi di investimento, accrescerne la qualità e indirizzare le risorse dove sono più necessarie non si può prescindere da una valutazione sistematica e approfondita dei servizi offerti e delle conoscenze acquisite”.
Sofferenze a 200 mld a fine 2014. “Alla fine del 2014 la consistenza delle sofferenze è arrivata a sfiorare i 200 mld, il 10% del complesso dei crediti; gli altri prestiti deteriorati ammontavano a 150 mld, il 7,7% degli impieghi”. Lo ha detto il governatore di Bankitalia, aggiungendo che “prima della crisi, nel 2008, l’incidenza delle partite deteriorate era, nel complesso, del 6%”.
Il 90% del bonus da 80 euro già speso dalle famiglie. L’indagine sui bilanci delle famiglie condotta dalla Banca d’Italia indica che il 90% circa del bonus fiscale sarebbe stato speso e che, nei primi mesi del 2015, la quota delle famiglie che segnala di arrivare con difficoltà alla fine del mese si sarebbe lievemente ridotta rispetto a un anno prima.

Catapano Giuseppe informa: Pensioni, rimborsi senza ricorso. In Gazzetta la sentenza della Consulta. Il governo studia le contromisure

Il governo è ancora al lavoro per trovare la soluzione al problema sul capitolo pensioni dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato lo stop alla rivalutazione degli assegni nel biennio 2012-13 e aperto la strada a rimborsi che secondo alcune stime potrebbero raggiungere quota 16,6 miliardi di euro. Rimborsi che arriveranno per tutti, perché la sentenza della Corte costituzionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale è già efficace, se il governo non riscriverà la norma e alzerà il tetto del blocco alle perequazioni. D’altra parte lo hanno già fatto i governi Prodi nel 1998 e Berlusconi nel 2007: in quelle occasioni la Consulta non ebbe nulla da ridire anche perché l’Ulivo vietò l’adeguamento per gli assegni oltre 5 volte il minimo e il Pdl fissò l’asticella a 8 volte il minimo. L’esecutivo, in ogni caso, per evitare ripercussioni gravi sul deficit, starebbe studiando l’ipotesi di restituire ai pensionati gli aumenti arretrati delle pensioni in titoli di Stato. In questo modo verrebbero neutralizzati gli effetti sull’indebitamento netto rilevanti ai fini europei, anche se naturalmente lo Stato dovrebbe fare più debito per onorare i propri impegni. Resta la necessita’ di trovare risorse finanziarie fresche per garantire l’effetto della mancata rivalutazione 2012-2013 per gli anni a venire e questo avverrà con la nuova legge di stabilità. Il governo sta comunque procedendo per tappe: il primo obiettivo è definire in modo esatto l’impatto finanziario della sentenza della Consulta e quindi sul piano giuridico definire nuove modalità di rivalutazione che permettano di rispettare la sentenza limitando però l’impatto sui conti. Poi, una volta fissata la platea, andrà messo a punto un provvedimento che regoli il passato, mentre il reperimento dei fondi dal 2016 in poi potrebbe essere appunto definito il prossimo anno.
Sul tema dei rimborsi degli arretrati ai pensionati si è occupato anche il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, secondo cui “sarebbe una follia rimborsare tutti”, mentre 5.000 euro potrebbe essere una soglia possibile.
Intervenendo ad Agorà su Raitre il sottosegretario ha spiegato come “non è giusto pensare di rimborsare tutte le pensioni, anche quelle più alte. Siamo in un contesto dove la sostenibilità del sistema pensionistico è stato mantenuto con sacrifici chiesti molto grandi ai pensionati di domani, col passaggio al contributivo, e ai quasi pensionati, spostando in avanti il momento dell’uscita”.
“E’ giusto quindi rispettare la sentenza, ma anche l’equità intergenerazionale. Sarebbe ingiusto dare il rimborso anche alle pensioni elevate, per Scelta Civica sarebbe una follia. Cinquemila euro – ha precisato- potrebbe essere una soglia, al di sopra di quella soglia sarebbe ingiusto rimborsare, verrebbe meno il requisito di giustizia sociale”.
A proposito delle risorse che si renderebbero necessarie per rimborsare tutti, “in un contesto di questo tipo, pensare di inserire somme cosi’ rilevanti facendo ricorso a ulteriori tagli come quelli previsti per rispettare la sentenza verso tutti è sinceramente impossibile. A quel punto non si va a tagliare l’inefficienza, ma si va a devastare un sistema”, ha sottolineato Zanetti. In totale disaccordo con Zanetti il viceministro all’Economia, Enrico Morando, che in un’intervista ad Affaritaliani.it ha messo in evidenza come “le decisioni devono ancora essere prese, quindi non sono in grado di fare valutazioni su questo punto. Bisogna realizzare un intervento molto rapidamente, affrontando il tema posto dalla Consulta. La sentenza, per come e’ scritta e non voglio commentarla, lascia spazio a interventi che possono essere anche significativamente diversi. Vedremo nei prossimi giorni che cosa decidere, ci sto lavorando. Ma trovo che sia negativo fare dichiarazioni senza prospettare soluzioni precise”.
Morando non si e’ sbilanciato sulle cifre spiegando che “dipende da che cosa si decide di fare. A seconda di come si intende attuare la sentenza si determinano esigenze finanziarie diverse. Certamente, quello che è sicuro – ha detto – è che il problema non è semplicemente sull’arretrato, perché, a differenza di quello che c’e’ scritto nella sentenza, la relazione tecnica al decreto originario del 2011 era molto chiara nel definire il risparmio di spesa che si realizzava con quella misura a partire dal 2012 e per tutti gli anni a venire. Quindi le cifre che abbiamo letto sui giornali si riferiscono a oneri annuali e non a oneri complessivi”.

Catapano Giuseppe osserva: OK, ITALICUM E SENATO SONO RIFORME PESSIME MA L’ANTI-RENZISMO BECERO È SOLO UN REGALO A RENZI

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo alla vigilia della sua definitiva approvazione: la nuova legge elettorale è un indigeribile minestrone privo di qualunque parentela con i sistemi europei più consolidati, che mischia proporzionale, premio di maggioranza, sbarramento e doppio turno per diventare alla fine una forzatura maggioritaria. Al di là della controversa e comunque non decisiva questione “preferenze-liste bloccate”, che sarebbe stato meglio risolvere adottando i collegi uninominali, il cervellotico sistema escogitato, ha palesemente questi difetti: adotta un premio spropositato a fronte di una soglia bassa; caso unico in Europa, somma sbarramento e premio, producendo uno squilibrio eccessivo tra l’obiettivo della governabilità e quello della rappresentatività; induce il rischio alla frammentazione delle opposizioni; non annulla l’indicazione del nome del candidato premier prevista da norme precedenti, palesemente in contrasto con il profilo costituzionale del nostro sistema istituzionale, che assegna al Capo dello stato il compito di indicare il nome del presidente del Consiglio e al Parlamento di approvarlo. Soprattutto, è un aborto per due ragioni: da una parte la clausola di salvaguardia, difficilmente aggirabile per decreto, proroga l’entrata in vigore al luglio 2016; dall’altra, è valida solo per la Camera, mentre per il Senato si userebbe la legge (proporzionale) uscita dalla sentenza della Corte Costituzionale, con il rischio che, nel caso in cui le riforme istituzionali dovessero fermarsi, si voterebbe con sistemi diversi per i due rami del Parlamento. Inoltre, essa si incrocia con una riforma del Senato che è una vera e propria schifezza, perché non risolve il problema dell’efficienza e velocità della produzione legislativa (mentre basterebbe rivedere i regolamenti parlamentari), e nello stesso tempo apre la porta agli esponenti del decentramento regionale proprio quando invece bisognerebbe rivederlo se non addirittura abolirlo.

Insomma, un italico pasticcio che ignora i motivi del fallimento della Seconda Repubblica e che rende palese la fondatezza di quanto da tempo andiamo affermando, e cioè che se è vero che dobbiamo fare le riforme dopo tanto immobilismo – e una nuova regolamentazione elettorale e un superamento del bicameralismo inefficiente sono cose più che necessarie – è altrettanto vero che fare le riforme sbagliate è peggio che non farne alcuna. E queste in campo, ahinoi, sono proprio del tutto sbagliate.

Detto questo, e proprio perché si tratta di un giudizio inequivocabile, ci permettiamo di dissentire in modo fermo e assoluto con la gran parte delle motivazioni di coloro – forze politiche e commentatori – che in queste ore si sono dichiarati contrari a queste riforme, senza per questo temere di essere bollati come filo-renziani. Le accuse più stupide, in sé e perché offrono su un piatto d’argento a Renzi argomenti a suo favore da spendere con l’opinione pubblica, sono quelle di chi ha gridato al fascismo, all’insorgere di una pericolosa “democratura”. È lo stesso errore commesso con Berlusconi. Se al Cavaliere, anziché rovesciargli addosso le accuse più infamanti, se invece di scatenargli contro magistratura e media fino all’ossessione, ci si fosse limitati a dire che non era capace di governare – come purtroppo era chiaro fin dall’inizio, causa mancanza di cultura politica – e gli si fossero opposte idee di governo riformatrici, vi possiamo garantire che la sua presenza a palazzo Chigi si sarebbe fermata al 1994. E invece l’anti-berlusconismo è stato il più formidabile propellente di cui Berlusconi abbia potuto godere. Ora la storia si ripete con Renzi. Dire che si forzano i tempi, quando sono anni che si aspetta, e si forzano le regole perché è stata messa la fiducia, nonostante si sappia che gli è perfettamente consentito – e lui l’ha usata, pur non avendone alcun bisogno, proprio perché sapeva di poter beneficiare di questo stupido riflesso condizionato – o urlare che stiamo mettendo un uomo solo al comando, quando tutta la Seconda Repubblica è stata una leadercrazia travestita da bipolarismo, significa essere politicamente sciocchi e fare un regalo grande come una casa a colui che si vorrebbe combattere. Se poi a strapparsi le vesti sono coloro (minoranza Pd, Forza Italia) che al Senato quelle stesse norme avevano già approvato senza batter ciglio e contro le quali, nel merito, si limitano a chiedere “modifiche” (ma come, aprono la porta al fascismo e ci si limita a volerle ritoccare?), beh allora si cade addirittura nel ridicolo. In un referendum svoltosi nel 2009, promosso dal costituzionalista Guzzetta nel 2007, si proponeva il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione. Tra i tanti, lo firmarono Rosi Bindi, Gianni Cuperlo e Renato Brunetta e fu approvato anche da Berlusconi. Oggi, tutti soggetti che gridano alla “democrazia in pericolo”: ma via, siamo seri. Certo, anche Renzi nel gennaio 2014 twittava: “Le regole si scrivono tutti insieme, farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato”. Ma questa incoerenza non giustifica quella degli altri. Semmai aggiunge preoccupazione a preoccupazione. Tutta questa veemente invettiva da parte della “vecchia immobile” classe politica non fa che accreditare Renzi agli occhi dell’opinione pubblica come il premier che le cose le fa. Purtroppo, a prescindere da cosa fa. Mentre è del merito che dovremmo seriamente occuparci.

La verità è che se Bersani e soci vogliono davvero fermare queste schifezze – e lo sono, delle schifezze, non perché abbiano connotati anti-democratici, ma perché non servono a dare la necessaria governabilità al Paese – devono proporre riforme alternative e indicare in una nuova Assemblea Costituente lo strumento per rivedere in modo serio il nostro assetto istituzionale. E devono offrire non lo spettacolo penoso di gente che piagnucola perché Renzi gli ha portato via il gelato – anche perché agli italiani i malandrini fanno simpatia – ma di riformisti seri e decisi che spiegano ai cittadini che la governabilità non la si ottiene con qualche formula matematica, come ha dimostrato l’esperienza della passata legge elettorale, e che per assicurare un governo stabile non basta un premio di maggioranza, per quanto possa essere ampio, ma è necessaria la legittimazione dei governi e quindi occorrono regole e politiche condivise.

Il fatto è che Italicum e Senato federale sono solo delle scuse, il terreno di gioco per un doppio regolamento di conti, interno a Pd e FI. Renzi vuole creare un grosso partito centrista, emarginando quel che rimane della sinistra politica e sindacale. La quale, avendo perso ogni credibilità agli occhi del Paese, tenta di resistergli. Berlusconi, preso da rimettere ordine nel suo impero, non è più interessato a pagare i costi di Forza Italia, di cui intende liberarsi, insieme a quasi tutta la nomenclatura che lui stesso ha partorito, ufficialmente per far nascere il partito repubblicano americano in Italia (con buona pace del vecchio Pri di lamalfiana memoria), in realtà per qualcosa di più modesto, un manipolo di parlamentari fedeli che gli guardi le spalle. La prima sarebbe cosa buona e giusta, se Renzi avesse cultura di governo e classe dirigente all’altezza della sfida. La seconda è classificabile come questione sostanzialmente privata.