Islam, tra crescita, identità, implicazioni politiche

 Secondo una ricerca del Pew Research Center ,nel periodo 2010/2050 le popolazioni musulmane nel mondo aumenteranno a un tasso del 73%. Ciò significa che i circa 1,6 miliardi di musulmani che si contavano nel 2010 saliranno nel 2050 a 2,76 miliardi. Nello stesso periodo le popolazioni cristiane cresceranno del 35%, passando dai 2,17 miliardi del 2010 a 2,92 miliardi nel 2050. In sostanza, lo scarto esistente fra i due gruppi nel 2010 andrà progressivamente assottigliandosi, fino a quasi scomparire nel 2050.

Questa previsione contribuisce a rafforzare il senso dell’urgenza del dialogo fra queste due realtà, che già oggi rappresentano quasi quattro miliardi di individui su una popolazione mondiale di poco superiore ai sette miliardi e mezzo.

Il mutuo recupero della consapevolezza degli elementi comuni
In questa prospettiva, se è vero che l’Occidente deve recuperare la consapevolezza degli elementi che condivide con il mondo islamico e che per secoli hanno permeato le rispettive culture, è anche vero il reciproco, e cioè che il mondo islamico deve impegnarsi nella ricerca di basi solide a partire dalle quali condurre un dialogo mutuamente vantaggioso e fondato sul riconoscimento dell’altro.

In questo contesto, un grande problema che il mondo islamico si trova a dover affrontare e risolvere è quello del conflitto fra modernità e tradizione, in un approccio che vede la modernità nella nostra accezione, frutto di un percorso culturale che nell’Islam non si è sviluppato, come espressione di un Occidente laico, oppressivo e prepotente e nel laicismo e nella secolarizzazione l’incarnazione del male.

Il concetto occidentale della laicità delle strutture di governo, sia pure con declinazioni diverse da Paese a Paese, non comporta la negazione del ruolo della religione nella società: la religione che accetti le regole del gioco democratico può portare al dibattito pubblico un prezioso nutrimento morale in un ambito nel quale la misura delle scelte politiche è affidata ad un confronto libero e pluralista per la ricerca di soluzioni il più possibile condivise..

Recuperi d’identità e arroccamenti difensivi
Di fronte al recupero di identità in corso nelle variegate realtà del mondo islamico, nel cui ambito la religione diventa spesso una difesa contro la complessità e le contraddizioni del mondo globalizzato e l’islamismo politico anche un’espressione del rifiuto di una ancora percepita volontà di dominio occidentale, cresce nell’Occidente, soprattutto europeo, la tendenza ad attestarsi su una posizione di difesa, a chiudere i canali di comunicazione, a rifugiarsi nella propria identità, cristiana o laica che sia, a ripiegare gelosamente sui proprî percorsi.

Mentre sarebbe necessario, invece, recuperare comunicazione e contatti e promuovere i presupposti del dialogo, superando la tentazione di travasare in modo impositivo costumi e modelli, fermi restando i principi fondamentali di uguaglianza giuridica e dignità di tutti gli esseri umani.

La divergenza sulla universialità dei diritti è emblematica
Tra le divergenze, quella sulla universalità dei diritti è emblematica delle difficoltà esistenti. Le riserve formulate in relazione alla Dichiarazione sui Diritti Umani del 1948 dai Paesi islamici esprimono una sensibilità in tema di identità cultural-religiosa con la quale è inevitabile doversi confrontare. D’altra parte, le istanze che esprimevano le piazze delle Primavere arabe echeggiavano, come si era manifestato senza seguiti duraturi e consolidati in altre fasi della storia recente di quei Paesi, temi del liberalismo e della democrazia occidentali.

Il dialogo al quale dobbiamo rivolgerci dovrà quindi saper conciliare l’esigenza del rispetto del sentimento religioso, e della spiritualità che esso esprime, con la ricerca di basi culturali e di valori umani e civili comuni per la convivenza pacifica tra i popoli e all’interno di essi.

Questa ricerca interpella tutti gli interlocutori del dialogo affinché non cedano a tentazioni di affermazione di una supremazia culturale, ma accettino invece la regola fondamentale di ogni dialogo, e cioè sapere misurare le proprie convinzioni sul metro di quelle altrui, superando la componente totalizzante che spesso le religioni e le ideologie recano in sé.

Sulle prospettive di un dialogo veramente costruttivo gravano spesso pregiudizi e suggestioni fuorvianti, come ad esempio quella che legge nei conflitti in corso nella regione mediorientale esclusivamente l’espressione del contrasto religioso fra sciiti e sunniti, sottovalutando, e spesso ignorando, la loro natura di scontro geo-politico per la supremazia nell’area in cui l’elemento religioso, lungi dall’essere il fattore scatenante, diviene spesso pretesto e strumento. Le vicende degli ultimi anni hanno inoltre alimentato una tendenza a parlare di Islam soprattutto in relazione al terrorismo, complicando al livello delle percezioni popolari le prospettive del dialogo.

Islam e democrazia, una narrazione stereotipata
Infine, la narrazione secondo la quale il mondo islamico è incapace di produrre sistemi democratici contrasta con l’evidenza che in non pochi Paesi musulmani si è assistito e si assiste a processi favoriti anche dalla sempre più accentuata circolazione culturale.

Si pensi – a fronte dell’oscurantismo pur con tante contradizioni di molti regimi, specie nell’area del Golfo, o all’autoritarismo di altri a noi geograficamente vicini – ai limitati ma innegabili progressi in alcuni Paesi islamici, specie della sponda sud del Mediterraneo, in materia di condizione femminile o diritto di famiglia, o al pluralismo – imperfetto quanto si vuole, ma comunque operante – di sistemi, come ad esempio quello algerino, nel quale da tempo i partiti di ispirazione islamica hanno accettato il gioco elettorale o, ancora, alla monarchia “benevola” marocchina o al coraggioso percorso seguito dalla Tunisia verso il riconoscimento generalizzato della libertà di fede e di coscienze in un quadro che, pur confermando l’Islam religione di Stato, non prevede la sha’aria come base del diritto del Paese.

Da questa varietà di situazioni sembra potersi concludere che ogni popolo ha i suoi ritmi evolutivi: sta al dialogo riconoscerli e auspicabilmente accompagnarli verso traguardi di ulteriore crescita.

Giuseppe Catapano: VOLTAGABBANA ITALICI E LEADER STRANIERI, È INIZIATA LA FUGA DA RENZI VERSO…

Vien voglia di difenderlo, Matteo Renzi, ora che tutti gli adulatori di ieri prendono le distanze o addirittura gli voltano la schiena. “Giglio Magico, avete un problema, il vostro Renzi sta diventando un primo ministro come gli altri: chi lo ha plebiscitato alle primarie e ha dato il 40% dei voti europei al Pd lo ha fatto per avere Matteo, se avesse voluto un leader imbalsamato si sarebbe tenuto Letta, che era più competente”, ha sdottoreggiato Massimo Gramellini sulla Stampa, gli stessi, autore e giornale, che hanno intonato lodi sperticate al Rottamatore da quando ha messo piede a palazzo Chigi. Ed è solo uno dei tanti esempi di chi – vecchia abitudine italica – giudica partendo dai dati elettorali anziché dai fatti. Nessuno di questi, al contrario di noi, si era guadagnato l’appellativo di “gufo” prima del voto. Non una critica, non un appunto (della serie meglio tenerselo buono). Poi, vista la botta che gli hanno assestato gli italiani, ecco le supponenti analisi su che cosa non va, sulla spinta propulsiva che si è esaurita. Ecco che di colpo si scopre che sui migranti è afono, che in Europa non batte chiodo, che la riforma della scuola è un pasticcio, che su Cdp ha fatto un gran casino, che l’Italicum gli tornerà sui denti come un boomerang. Giudizi crudi, espressi come se glieli avessero sempre detti in faccia. Veri e propri professionisti delle “previsioni sul passato” che, appunto, fanno di tutto per renderti simpatico Renzi, anche quando ce la mette tutta per rendersi urticante.

Ma anche fuori dai confini patri s’intravedono spalle che si girano. Non ci riferiamo a Hollande che pur di recuperare voti manda i militari al confine di Ventimiglia, dimenticandosi i vezzeggiativi che Renzi aveva usato nei suoi confronti quando si era immaginato un (inesistente) asse franco-italiano in funzione anti-Berlino. E neppure alla Merkel, che non si è mai sforzata molto di nascondere lo scarso feeling con quel ragazzo troppo chiacchierone. No, pensiamo soprattutto agli americani, cui non sono piaciuti i tentennamenti su Putin e che dopo l’iniziale endorsement ora si sono fatti guardinghi e freddi. Ciascuno di loro avrà buone ragioni, per carità, ma anche qui gli eccessi ci spingono, nostro malgrado, verso moti di simpatia nei confronti di Renzi.

Per fortuna, però, ci pensa lo stesso presidente del Consiglio, esagerando, a costringerci a tornare “gufi”. E sì perché, francamente, è inascoltabile quando riduce il primo comandamento del verbo renziano, le primarie piddine – già, proprio quelle su cui ha costruito la sua fortuna politica – ad una specie di “peste della partecipazione democratica”. Non eravamo forse disfattisti, noi che ne abbiamo criticato l’uso “à la carte” fin dai primordi? Bisognava che perdesse lui per accorgersi che le primarie o favoriscono i cacicchi locali (copyright Macaluso) o i populisti urlatori? Per non parlare della valutazione sulle elezioni regionali. Prima ti fa sperare in una sana autocritica quando parla apertamente di un suo “insuccesso” (ci volevano i ballottaggi?) e definisce il dopo-elezioni come il “momento più difficile” di questa legislatura, poi ti fa cascare le braccia quando s’inventa il non meglio definito ritorno al “Renzi 1”, riducendo tutto alla comunicazione e alla percezione che si ha di lui. Peccato che “Renzi 2” dica esattamente il contrario di “Renzi 1”, quando i proprietari della Ditta erano altri. Ma non è delle sorti del Pd che ci preoccupiamo, anche perché uno che se ne intende come Emanuele Macaluso l’ha dichiarato già morto. Ci preoccupa invece il governo e la guida che esso deve dare al Paese in una fase decisiva, in bilico tra stagnazione e ripresa e con il pericolo incombente che i fatti greci diventino una bomba pronta ad esplodere sotto le nostre terga. E qui le risposte, ahinoi, latitano. Macaluso dice con saggezza che “occorrono analisi serie e spietate, non solo sul risultato elettorale ma sulla società italiana e sulla crisi della politica che condiziona l’economia”. E aggiunge: “Renzi pensava di essere lui la soluzione, ma, al contrario, con queste elezioni i rischi di implosione del Paese e della stessa democrazia si sono accresciuti”. Vero. Perché se il renzismo batte in testa, non è vero che il centro-destra abbia recuperato centralità e consistenza. Un repechage di Berlusconi è assurdo solo pensarlo, mentre il profilo politico di Salvini è incompatibile con palazzo Chigi, non fosse altro per ragioni internazionali (la vicinanza alla Le Pen e il flirt con Putin). Inoltre noi non crediamo al “candidato nuovo”, vuoi perché non ci sono nomi credibili all’orizzonte, vuoi perché l’effetto Brugnaro non è trasferibile sul piano nazionale e vuoi, infine, perché Berlusconi non perderà mai la convinzione che meglio di lui elettoralmente parlando non può fare nessuno.

Dunque, Renzi rimane nella “scomoda” posizione (che sia tale è ormai accertato) di uomo senza alternative e dunque indispensabile. Cosa che, nel breve (mesi), lo costringe (o lo aiuta, a seconda dei punti di vista) a restare dov’è, ma che lo espone a bersaglio di tutti e, paradossalmente, favorisce la nascita di ipotesi magari fino a ieri impensabili. Per ora la mettiamo lì con beneficio d’inventario, ma la sensazione è che più d’uno, dentro e fuori Italia, guardi all’ipotesi di un movimento 5stelle non più grillino, ancora capace di spendere parole d’ordine populiste per mantenere e accrescere il tesoretto di voti finora conquistato ma nello stesso tempo temperato da innesti riformisti tali da rendere possibile un programma di governo sufficientemente serio ed equilibrato. Ripetiamo, per ora sono più che altro sensazioni, quelle che abbiamo. Ma le attenzioni verso Luigi Di Maio si moltiplicano, per essere casuali. E comunque il tema merita un ulteriore approfondimento, e ci torneremo presto. Anche perché questo scenario politico non è destinato a durare a lungo.

Catapano Giuseppe osserva: Grecia, Fmi esclude possibilità di far slittare rimborso

Massima trepidazione sui mercati per la riunione dell’Eurogruppo, che si sta tenendo oggi in Lussemburgo. Il ministro delle Finanze elleniche Yanis Varoufakis si presenterà con delle idee del governo per trovare un accordo effettivo. Non è chiaro se le proposte sono nuove o sempre le stesse già rispedite al mittente dai creditori.

Non rimane molto tempo: 13 giorni per l’esattezza. Il numero uno del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde ha infatti annunciato che stavolta non ci saranno proroghe del rimborso. Il 30 giugno è la data ultima prefissata perché Atene restituisca all’istituto prestatario 1,6 miliardi di euro.

Il tutto mentre si diffondono rumor sull’ipotesi di svalutazione del debito pubblico greco. Basterebbe mettere in pratica un’intesa siglata nel novembre del 2012, che rimase sulla carta. Secondo il quotidiano Kathimerini quell’accordo potrebbe essere ribadito la prossima settimana, in occasione del summit dell’Unione europea.

Pare che il taglio del passivo statale sia il vero insormontabile scoglio dei negoziati. La Commissione Europea e la Bce dovrebbero pubblicare in giornata un comunicato congiunto sulla questione del debito greco e degli aiuti al paese.

Michael Hewson, analista di CMC Markets, conferma al Guardian che “il meeting di oggi è visto come l’ultima chance” per permettere alla Grecia di siglare un accordo in tempo per la fine di giugno, esattamente per il 30: è quello il giorno X, in cui scade il termine per rimborsare parte dei prestiti erogati dall’Fmi, per un valore di 1,6 miliardi di euro.

La stessa Commissione europea ha escluso che alla scadenza del termine per raggiungere un accordo, il 30 giugno, si possa continuare il negoziato ad oltranza, come è invece avvenuto in precedenza. Stavolta “non pensiamo di fermare gli orologi”, ha affermato il portavoce Margaritis Schinas. Christine Lagarde, numero uno del Fondo Monetario Internazionale, ha ribadito che non c’è alcuna possibilità” che la Grecia ottenga uno slittamento della data di rimborso del prestito da 1,6 miliardi di euro.

“Non sono sicuro che faremo progressi”. Ha messo subito le mani in avanti il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che ammette di non essere particolarmente ottimista. “Non ho molte speranze”, continua. E arriva anche l’avvertimento di Pierre Gramegna, ministro delle Finanze del Lussemburgo: “il tempo sta per finire”.

Non si prevede tuttavia nessuna intesa, dal momento che la Grecia, reduce dalle proteste durante la notte contro l’austerity, non presenterà più nessun’altra proposta. Intanto il premier greco Alexis Tsipras vola in Russia per incontrare il presidente Vladimir Putin. Lo stesso ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha affermato, in un’intervista rilasciata a ITN News, di non sperare in nessun compromesso che possa sbloccare l’impasse.

Pessimista anche il numero uno di Bundesbank. In un’intervista alla Stampa Jens Weidmann ha detto che c’è il “rischio di un contagio”, ma che allo stesso tempo ciò non significa che l’euro sia in pericolo. La moneta unica oggi scambia sopra 1,14 dollari, forte di un progresso dello 0,65% circa.

Un problema di un’eventuale uscita dall’area euro e dall’Unione Europea della Grecia riguarda anche l’aspetto legale. Il caso non è infatti previsto dai trattati. È una delle lezioni da trarre da questa crisi, secondo il presidente della Bundesbank: “bisogna introdurre nei Trattati la possibilità di far fallire gli Stati”.

Ieri il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha detto che l’aspetto legale potrebbe creare ulteriore incertezza sul futuro della Grecia. Non sarebbe infatti ben chiaro come avverebbe un eventuale distacco dal blocco a 29 di Atene, visto che non un evento del genere non è previsto dai trattati.

In due settimane sarebbe impossibile correre ai ripari e introdurre una simile norma, anche perché i singoli paesi dovrebbero approvare democraticamente il nuovo regolamento.

Nonostante tutto la Cancelliera tedesca Angela Merkel è ottimista: al Parlamento tedesco ha detto che finché c’è volontà c’è speranza di raggiungere un accordo. Allo stesso tempo è la Grecia che la palla in mano e che deve “rispettare gli impegni presi sul piano delle riforme”.

Ma come titola oggi il Guardian in prima pagina, la “Grecia non può pagare e non pagherà”.

Non solo: la stessa Commissione sul debito che è stata istituita in Grecia ha appena dichiarato che tutto il debito nei confronti della troika è “illegale, illegittimo e odioso”.

In un report molto dettagliato, si legge che: “Tutte le prove che presentiamo in questo report dimostrano che la Grecia non solo non ha la capacità di onorare questo debito ma, anche, che non dovrebbe prima di tutto pagarlo, perchè il debito che emerge dagli accordi della troika è una violazione diretta dei diritti fondamentali umani dei cittadini greci”.

La Commissione ha un nome preciso: si chiama “Commissione per la verità sul debito pubblico”, ed è stata creata nell’aprile di quest’anno dal Parlamento greco, al fine di indagare sulle origini relative alla crescita del debito e, anche, sull’impatto che le condizioni sottostanti i prestiti hanno avuto sull’economia e la popolazione”.

Il report è diviso in diversi capitoli.

Nel capitolo 1), che analizza il debito verso la troika, si analizza la crescita del debito pubblico greco, a partire dagli anni Ottanta. Se ne deduce che “l’aumento del debito non è stato provocato da una spesa pubblica eccessiva, che di fatto è rimasta inferiore alla spesa pubblica di altri paesi dell’Eurozona, ma piuttosto è stato innescato al pagamento di tassi di interesse estremamente elevati, da una spesa militare eccessiva e ingiustificata, dalla perdita di entrate fiscali dovuta a flussi di capitali in uscita illegali, dalla ricapitalizzazione statale di banche private, e da squilibri internazionali creati a causa delle imperfezioni della stessa Unione monetaria”.

Nel capitolo 2 si parla dell’evoluzione del debito negli anni tra il 2010 e il 2015. Si conclude che il primo accordo sul debito del 2010 ha avuto come obiettivo primario quello di salvare le banche private greche ed europee, permettendo loro di ridurre la loro esposizione verso i bond governativi ellenici.

Nel capitolo 5, si fa riferimento alle condizioni che sono state incluse negli accordi di bailout, e che hanno prodotto la crisi dell’economia e l’insostenibilità del debito. Tali condizioni, “sulle quali i creditori insistono ancora, non solo hanno contributo a zavorrare il Pil, così come ad alzare i prestiti, dunque non solo hanno portato il rapporto debito/Pil greco a un livello ancora più insostenibile, ma hanno anche provocato cambiamenti drammatici nella società, causando una crisi umanitaria. Al momento, il debito pubblico greco può essere considerato totalmente insostenibile”.

Ancora, esaminando l’impatto dei “programmi di bailout”, si evince che le “misure che sono state adottate in linea con questi piani hanno direttamente colpito le condizioni di vita del popolo, violando i diritti civili, che la Grecia e i suoi partner sono obbligati a rispettare, proteggere e promuovere in base alla legge nazionale, regionale e internazionale. I drastici aggiustamenti imposti sull’economia e la società greca nel complesso, si sono tradotti in un deterioramento rapido del tenore di vita e rimangono incompatibili con la giustizia sociale, la coesione sociale, la democrazia e i diritti umani”.

Il Capitolo 9 affronta la questione che mette in allarme l’Unione europea, dal momento che tutto cambierebbe se con la Grecia si creasse un precedente.

Nella sezione del report si parla delle “fondamenta giuridiche per ripudiare e sospendere il debito sovrano greco”. Come opzioni vengono presentate la cancellazione del debito, e si parla di quelle condizioni in base a cui uno stato sovrano può esercitare il diritto di agire unilateralmente per ripudiare o sospendere il pagamento del debito, in base alle leggi internazionali.

Diverse argomentazioni legali permettono a uno stato di ripudiare unilateralmente il suo debito illegale, odioso e illegittimo. Nel caso della Grecia, tale atto unilaterale potrebbe basarsi sulle seguenti argomentazioni: la cattiva fede dei creditori che hanno portato la Grecia a violare la legge nazionale e gli obblighi internazionali, riguardo ai diritti dell’uomo; la preminenza dei diritti dell’uomo nei confronti di accordi, come quelli che sono stati siglati tra i precedenti governi con i creditori o la troika; la coercizione; le condizioni ingiuste che violano in modo flagrante la sovranità greca e la Costituzione; e alla fine, il diritto riconosciuto dalla legge internazionale, che permette a uno Stato di adottare contromisure verso le azioni illegali dei creditori, che intenzionalmente danneggiano la sua sovranità fiscale, obbligandolo a contrarre debiti odiosi, illegali e illegittimi, che violano la autodeterminazione economica e i diritti fondamentali dell’uomo”.

Catapano Giuseppe osserva: HA VINTO IL PARTITO DELLA SFIDUCIA HANNO PERSO BERLUSCONI E RENZI ORA CI ASPETTANO GRANDE INSTABILITÀ E (FORSE) ELEZIONI ANTICIPATE

Dopo aver scritto sabato scorso, prima del voto, quali sarebbero state le corrette chiavi di lettura da usare per esaminare il risultato delle elezioni regionali e le sue ripercussioni politiche, eccoci ora pronti ad applicarle. Partendo dalle conclusioni: le elezioni le ha vinte il “partito della sfiducia” e le hanno perse Renzi e Berlusconi, a causa del frettoloso abbandono del “patto del Nazareno”; la conseguenza sarà un loro progressivo indebolimento che porterà, presumibilmente, alla frantumazione delle attuali forze politiche e alla nascita (o riaggregazione) di nuove. Con una alta probabilità che il tutto sfoci in elezioni anticipate nella prossima primavera. Vediamo in dettaglio.

1) se fate la somma tra l’astensione e il voto dato ai due partiti “anti-sistema”, il movimento 5stelle e la Lega, si arriva a circa il 65% degli aventi diritto, di gran lunga il partito che esprime la maggioranza assoluta degli italiani. Certo, una quota di astensionismo è fisiologica, e il non voto “consapevole” non può essere mischiato con il voto di protesta dato ai grillini o a Salvini – della serie non tutti gli sfiduciati sono incazzati allo stesso modo – e dunque la somma che abbiamo fatto è per molti versi arbitraria. Tuttavia, la dice lunga sul fatto che, pur prendendo forme diverse, il clima di pessimismo che si respira nel Paese dall’inizio della grande crisi (2008) non solo non è cambiato, ma si è addirittura aggravato. E non crediamo, caro Renzi, che siano tutti “gufi” menagramo.

2) il Pd, l’anno scorso alle europee, aveva ottenuto il 40,8%, un risultato strepitoso, conseguito soprattutto a scapito del centro e del centro-destra e soprattutto al Nord, voto su cui Renzi aveva costruito la sua legittimità politica (dopo il blitz anti-Letta) e basato il suo futuro. Ora – secondo l’analisi, sempre accurata, dell’Istituto Cattaneo di Bologna – il Pd è sceso al 25,2% perdendo in assoluto circa due milioni di voti, nonostante che tre delle sette regioni in cui si è votato siano storicamente “rosse” (Toscana, Umbria e Marche). Quindici punti percentuali in meno, un livello persino inferiore, seppur di poco, a quel 25,9% che la Ditta di Bersani prese alle regionali del 2010 e che Renzi ha sempre indicato come il risultato inevitabilmente modesto di un partito perdente per indole. Non che quel giudizio fosse sbagliato, anzi, ma proprio per questo ora è inevitabile dire la stessa cosa del Pd di Renzi. Il quale perde a sinistra (prevalentemente a favore dell’astensione) e conferma solo marginalmente il voto moderato che aveva conquistato dando l’impressione di essere un riformista deciso a chiudere per sempre con la storia comunista e pansindacalista del suo partito. Ora, è vero che governare a lungo andare logora e che nel Pd c’è chi ha marciato contro – occhio, però, perché chi semina vento raccoglie tempesta, da che mondo è mondo – ma una botta simile non può essere sottovalutata né tantomeno nascosta (come invece si è cercato puerilmente di fare).

3) Forza Italia scende al 10% ma soprattutto cede il passo alla Lega, sia a quella in versione lepenista di Salvini sia a quella moderata di Zaia e Tosi pur concorrenti tra loro (ma se quei voti si sommano, il centro destra a trazione leghista moderata vale quasi tre volte il Pd di Renzi, che solo un anno fa aveva “conquistato il Veneto”). Questo significa che Berlusconi ha ulteriormente perso centralità sulla scena politica e non potrà recitare altro ruolo che quello del comprimario o, al massimo, del padre nobile (si fa per dire) di un aggregazione di centro-destra di cui non si vedono i contorni, anche perché è tutto da verificare se a Salvini convenga attenuare le sue tinte forti per tentare un improbabile scalata a palazzo Chigi o non piuttosto accentuarle per intercettare quanta più rabbia degli italiani possibile (e in giro ce n’è davvero tanta) ritagliandosi il ruolo a lui più confacente di capo di un’opposizione urlante e irriducibile.

4) le sconfitte di Renzi e Berlusconi hanno ragioni differenti, ma è evidente che ne abbiano una comune: l’abbandono del “patto” che li legava e che rendeva la loro alleanza, pur costruita solo su basi di potere, rassicurante per molti, probabilmente per la maggioranza degli italiani. Infatti, agli occhi degli elettori centristi il “patto del Nazareno” dava la certezza che il Pd fosse votabile nonostante le ascendenze, mentre a quelli più a destra restii a farlo ma convinti che a Renzi non ci fossero alternative, il governo ombra dava la certezza che quello al Cavaliere non fosse un voto sprecato. Dopo la rottura avvenuta sul Quirinale – per ingenuità di Berlusconi e per arroganza di Renzi – questo meccanismo di reciproca legittimazione è andato a farsi benedire, ed entrambi hanno pagato un prezzo elettorale altissimo. E non facilmente riassorbibile. Anche perché entrambi appaiono sempre meno quegli argini ai diversi populismi che si erano proposti di essere.

5) il governo ne esce indebolito nella misura in cui le tensioni dentro i partiti, a cominciare da quelle addirittura clamorose (vedi Bindi-De Luca) che dilaniano il Pd, saranno distraenti e condizionanti. In parlamento, e in particolare al Senato, ci potrebbero essere sorprese su alcune riforme, da quella della scuola a quella costituzionale. Mentre il processo di sfaldamento di Forza Italia da un lato e, dall’altro, la sempre più difficile possibilità di normalizzare il Pd – con i veleni campani destinati ad aumentare più che ad essere riassorbiti – rappresentano altrettante spinte centrifughe che renderanno progressivamente sempre più instabile la politica, peraltro sottoposta a nuovi logoramenti di natura giudiziaria. Il risultato sarà un crescente bisogno di elezioni anticipate, che lo stesso Renzi avrebbe dovuto perseguire già da tempo (ci ha pensato molto, ma gli è mancata, strano a dirsi per uno come lui, la necessaria determinazione) e che ora potrebbero tornargli utili

Catapano Giuseppe osserva: Salvini, l’alternativa a Renzi sono io

“La Lega e’ l’alternativa piu’ seria a Renzi oggi in Italia”. Cosi’ il leader del Carroccio Matteo Salvini, ha sottolineato che i dati raggiunti dal suo partito evidenziano come il “progetto” a cui ha lavorato in questi mesi “non riguarda solo i ‘campi rom’, ma anche agricoltura, pensioni, economia. Abbiamo dimostrato di essere credibili”. “Non voglio minestroni o ammucchiate”. “Si vince con idee chiare e coraggiose”. Dunque ben vengano le coalizioni, pronto a discutere con tutti, assicura Salvini, “ma con dei paletti”: ad esempio “Alfano e’ sparito, chi sta governando con Renzi non puo’ costruire l’alternativa a Renzi”. “Queste elezioni regionali e locali hanno un valore nazionale”, ha aggiunto Salvini. “In alcuni casi la Lega triplica e quadruplica la sua presenza. In Toscana siamo ora al 16%. Dal voto di oggi esce dalle urne un’alternativa al renzismo. I numeri ci dicono che dobbiamo sfidare e possiamo battere Renzi. In Liguria se fossimo andati da soli avremmo ottenuto un grande risultato ma ho preferito fare un passo indietro per vincere le elezioni”. “Il centrodestra ha i suoi problemi e oggi non c’e'”, cosi’ Salvini risponde a Berlusconi. Con Alfano e con chi sta con Renzi non e’ possibile alcuna alleanza. Ma il centrodestra si puo’ costruire”. “Tosi è stato un ottimo sindaco ma ha scelto di farsi del male. Chi esce dalla Lega lo fa per sempre”, ha concluso.

Catapano Giuseppe informa: Si scrive Repubblica democratica, si legge paradosso matematico

«Bevi Democrazia, la bibita gassata al gusto di libertà di espressione». «Democrazia, contro il monarca impossibile, senza pre-trattare».«Uso Democrazia. Perché? Non so perché!».

Quando si sente parlare di democrazia, ormai l’impressione è che si stia facendo un operazione di marketing. Non a caso di parla di “spot” elettorali.

«Vota e fai votare Antonio La Trippa»: non è poi cambiato molto da allora.

Chi crede veramente nella democrazia, non può che essere sconfortato da come essa funzioni.

Lo si è già scritto (e qualcuno nella storia lo ha già detto) che la democrazia è la peggior forma di governo, ma la migliore fra quelle che sinora abbiamo trovato.

Un’idea un po’ controcorrente, potrebbe essere invece quella di vedere la storia come un qualcosa di dinamico, ma circolare. Alla Giovan Battista Vico insomma. Ogni periodo storico necessiterebbe così di una sua forma di governo, che emergerebbe naturalmente nel dato periodo, come sua connaturata espressione. A qualcuno serviva il Re, a qualcuno il Comune, a qualcun altro il Partito.

A noi dunque è toccata la democrazia, coi suoi pregi e suoi difetti.

Ma cos’è la “democrazia”?

È “comando del popolo”, come suggerisce l’etimo? È il governo della maggioranza? È il diritto di esprimere sempre e comunque la propria opinione? È un sistema di governo che rappresenta il maggior numero di elettori? Già iniziano i problemi, perché sposando l’una o l’altra interpretazione – e tutte sono valide – cambiano gli effetti. E se si combinano due o più definizioni, si possono avere dei conflitti fra principi.

Complichiamo un po’ le cose: la democrazia poi, può essere diretta o rappresentativa. Oggi la democrazia rappresentativa va molto di moda e si è usi riempirsi la bocca del termine, abusarne, citarlo a sproposito.

Viene apologizzata la democrazia ateniese dell’antica Grecia, ma ci si dimentica di indicare alcuni dati. Nella città stato, l’apice di quella che oggi indichiamo come democrazia ateniese, si ha sotto Pericle. In questo periodo, solo i maschi, adulti, con cittadinanza e che avessero prestato il servizio militare, godevano del diritto di voto. In tutta l’Attica si stima fossero circa 30.000 (ossia un attuale paesino di campagna). In città come Atene, dunque, stiamo parlando solo del 10/20% della popolazione. In sostanza aveva diritto al voto qualche manciata di centinaia di persone.

Ed era una democrazia diretta. ..si potrebbe dire “il bello della diretta”!

La democrazia diretta funziona. Funziona abbastanza bene, ma deve fare i conti con la matematica. Con i grossi numeri (e i grossi territori) diventa difficilmente esercitabile.

La democrazia rappresentativa “funziona” un po’ peggio. Anch’essa funziona meglio in piccoli territori e con popolazioni ridotte nel numero.

Per entrambe poi, maggiore è l’educazione civica della popolazione, migliori saranno i risultati (quindi iniziamo a guardarci attorno e a farci qualche domanda…). Entrambe dunque si scontrano con la matematica. La democrazia rappresentativa addirittura, combatte con essa sul terreno dei paradossi.

Un certo premio nobel Kenneth Arrow, notò già qualche anno fa che i due concetti non andavano d’accordo e sviluppò una teoria economica-sociale detta dell’”Impossibilità”. Egli valutò che “democrazia” significasse un’insieme di requisiti da soddisfare, quali rappresentatività, universalità, stabilità di governo, efficacia ecc. . Notò che i requisiti non potevano essere soddisfatti tutti simultaneamente. Mai citato dai costituzionalisti e dai politici (ma capiamoli: in effetti non fa molto gioco dire che in realtà il nostro apologizzato sistema di governo non funziona!).

La cosa si spiega meglio con il “paradosso di Condorcet”, il quale cerca di individuare la scelta collettiva più coerente con le singole scelte individuali. In un sistema nel quale A è preferito a B e B è preferito a C, A dovrebbe essere preferito a C. Ma nella realtà ciò non sempre avviene. Si potrebbe per esempio avere la situazione in cui A abbia il 40% dei voti, B il 35% e C il 25%: A verrebbe eletto nonostante non rappresenti la maggioranza. In un sistema a ballottaggio poi, B potrebbe vincere su A ottenendo il 50% + 1 dei voti. Voti però, che si calcolano sul totale dei votanti (l’affluenza), non degli aventi diritto.

Ulteriore differenziazione nella democrazia rappresentativa è il sistema maggioritario e quello proporzionale. Entrambi, in qualche misura, non soddisfano la matematica e quindi la reale coerenza con le scelte individuali dei singoli elettori. Così ad esempio, nel 2000 Bush vinse su Gore col sistema maggioritario, nonostante quest’ultimo avesse ottenuto 500.000 voti in più. D’altra parte il sistema proporzionale, che meglio garantirebbe questa coerenza, all’opposto non garantisce la governabilità. Anzi, la sfavorisce.

Poi ancora c’è il sistema delle preferenze o delle tanto vituperate nomine. E qui iniziamo a guardare sotto il nostro zerbino.

Proviamo a scostare un attimo il velo. Se il primo sistema – che viene esaltato come garanzia di democraticità – fu sostituito, ci sarà pure un motivo. Nessuno forse si vuole ricordare della compravendita dei voti, dei voti di scambio o di cosa avveniva nelle chiese negli anni ’70, dove il parroco durante l’omelia “suggeriva” di votare un partito che fosse “democratico e cristiano”, mentre i partiti facevano a gara (e si accampavano davanti agli uffici elettorali) per ottenere la registrazione del simbolo in alto a sinistra (o in basso a destra) sulla scheda elettorale. Così si potevano indottrinare gli elettori molto più facilmente.

In certe zone d’Italia, ancora oggi, ogni voto ha un determinato prezzo. Può andare da 20 a 50 €. Oppure può consistere nel lavoro per un parente, nel condono, nella concessione ad edificare o in tante, tante altre cose.

A dispetto del «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no», le preferenze sono controllabili con una buona approssimazione, soprattutto nei seggi piccoli.

Da un lato, si possono ottenere voti in più con la “benemerenza” del Presidente di Seggio nell’interpretazione delle “chiare intenzioni di voto” e delle schede “nulle”. Dall’altro andando proprio a contare i dati del seggio alla fine dell’elezione. Se Impastato Peppino ti ha promesso il voto suo e del parentado – diciamo 12 voti – e tu, Antonio La Trippa, sai che nel suo seggio hai chiesto voti solo a lui, potrai controllare se ti ha effettivamente votato e fatto votare.

Poi, per esempio, ci sono accordi di partito, per cui un partito deve ottenere un tot di seggi al Parlamento: ma le votazioni hanno premiato un altro partito in quel collegio. Che fare? Niente paura, l’eletto non accetterà la carica (e avrà un’altra poltrona in cambio, magari in qualche consiglio di amministrazione) e il primo dei non eletti, ossia il nostro uomo, otterrà l’agognato seggio. Se poi il nostro uomo non è il primo, a catena gli altri si dimetteranno. E gli equilibri di potere saranno preservati. Non è fantascienza: capitava veramente (e forse capita ancora).

Poi possiamo sempre candidare il nostro uomo – natio di Bolzano – a Cosenza, perché quello è un seggio “sicuro” per il nostro partito.

Non ci stupiamo. La Repubblica italiana (che non è mai stata ufficialmente dichiarata) si fonda su presunti brogli elettorali e sul sicuro fatto che centinaia di migliaia di schede nulle non furono mai riconteggiate (come chiesto con ricorsi ufficiali in Cassazione) e qualche milione di votanti (quelli delle zone metropolitane delle Colonie) furono esclusi dal voto.

Rincuorante.

Così, la nomina, vorrebbe (ma rimane meramente nell’ottativo) evitare tutte queste fattispecie. Se l’uomo giusto, preparato, competente, tecnico, capace, fosse però poco eleggibile, ad esempio perché antipatico, o senza carisma o non in grado di comunicare efficacemente al corpo elettorale, il sistema a nomine potrebbe garantire che le sue capacità servano comunque la causa del bene comune. Già, in teoria. Perché la pratica della nomina ci è tristemente nota.

Quindi cosa fare?

Il problema rimane. Ma forse sarebbe saggio affrontarlo dall’altro capo. Gli elettori. Rivoltiamo il calzino allora.

Gli elettori hanno diritto – e ormai non più dovere – al voto. Sono elettori tutti i cittadini che abbiano compiuto gli anni 18 e godano dei diritti politici.

In base a cosa esercitano il loro diritto di voto?

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E qui sta la magagna. Ossia questo è fulcro della questione: l’educazione. Civica ovviamente, ma già quella sociale sarebbe una buona base di partenza. Un pizzico di cultura – nel senso conoscitivo del termine – poi non guasterebbe. E, ben più utopica, se ci fosse un pochettino di consapevolezza saremmo a cavallo.

Ma c’è anche quella vecchia storia dell’eguaglianza a mettere i bastoni tra le ruote: l’art. 3 Cost. recita più o meno che tutti i cittadini (i cittadini!) sono eguali (non uguali!) davanti alla legge. Il notevole sforzo ermeneutico fatto dalla Consulta in decenni di Repubblica, ha estrapolato il principio secondo cui «La legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera diversa situazioni diverse».

Wow!

Che dire?!

Quale illuminazione.

Ma traducendo, significa che considerando in maniera diversa (cambiando i nomi a) fattispecie ritenute uguali, si posso ribaltare i risultati.

Cosa molto utile quando si è chiamati a giudicare.

Una delle cose più banali nell’universo è l’unicità. La diversità né è la conseguenza. La diversità del singolo, si sposa poi con l’uguaglianza dell’insieme, grazie alla somiglianza. Questa è la base delle categorizzazioni. Così gli alberi sono tutti uguali (hanno le stesse caratteristiche), eppure fra di essi ci sono diverse varietà, classi e specie. Ogni albero di ciascuna di esse ha le stesse caratteristiche degli altri alberi, ma è comunque diverso da tutti questi. E così via all’infinito.

E quindi gli elettori sono tutti uguali. Però ci sono quelli consapevoli e quelli no, quelli influenzabili e quelli no. Ci sono anche gli evasori fiscali e cittadini onesti, gli informati e i menefreghisti, coloro che conoscono il funzionamento delle leggi e coloro che non hanno la minima idea di come funzioni lo Stato e si limitano a mettere una X ogni 5 anni. Se va bene.

Ci sono gli stupidi (non nel senso di ignoranti, ma di deficienti: che “deficiunt”, ossia mancano) e gli intelligenti. Ci sono gli ignoranti (che ignorano) e i dotti (che non è sinonimo di intelligenza).

Ed ognuno ha lo stesso diritto di voto. Il voto di ognuno vale quanto quello dell’altro.

Giusto? Forse sì, ma forse anche no.

E quindi forse si potrebbe anche pensare che il voto, come ogni diritto, andrebbe guadagnato e mantenuto. Così magari – ma è solo un’ipotesi – se ci liberassimo del dogma del “una testa un voto”, magari la democrazia, anche quella rappresentativa, funzionerebbe meglio.

Bisognerebbe però studiare attentamente un sistema predeterminato di “accesso proporzionale” al voto completo. Un voto suddiviso in decimi per esempio. Dove un decimo può essere la cittadinanza, un decimo il pagare le tasse, un decimo il servizio militare o civile (o genericamente alla collettività se suona meglio ai benpensanti), aver compiuto un tot di anni un altro decimo e così via. Il vero problema sarebbe solo di contare i voti, garantendo l’anonimato. Ma con un po’ di fantasia e organizzazione, sarebbe facilmente suprabile.

Gli anni. Altro fattore non trascurabile che influenza il voto. Nel 1975 ad esempio, quando l’età per votare fu portata da 21 a 18, le motivazioni che spinsero i governanti a compiere quella scelta non furono poi così nobili. I ragazzi, si sa, sono ribelli. E se sono ribelli voteranno in una certa direzione. Per la maggior parte almeno.

Eppure recenti studi neuroscientifici dimostrano che la maturità encefalica (ossia il pieno sviluppo delle capacità cognitive) si ha attorno ai 25 anni.

Avevano dunque ragione i nostri avi che potevano votare solo a 25 anni (ciò dal 1861 fino al 1912)?

A prescindere dai decimi o dagli interi, comunque, sta di fatto che il voto funzionerebbe meglio se fosse vissuto (e regolamentato) anche come un dovere, oltre che un diritto. E se diventa un dovere, si combatte l’astensionismo. Dopo tutto la scuola primaria è detta dell’”obbligo” proprio perché i governanti hanno dovuto “obbligare” la popolazione ad istruirsi.

E l’istruzione è l’altro fuoco del nostro ellisse. Il cittadino ha diritto di essere elettore solo in quanto cittadino. Giusto?!

Per diventare medico, bisogna aver studiato, aver superato un esame e aver fatto una determinata pratica. Perché curare le persone è un servizio importantissimo per la comunità e bisogna possedere il giusto grado di istruzione per poterlo fare in maniera corretta. Così vale per gli avvocati, per i commercialisti, ma anche per i meccanici e per gli agricoltori. Ogni contesto necessita della necessaria istruzione.

Istruzione civica, giuridica e politica, che noi elettori italiani non abbiamo. Ma eleggere chi ci governerà non è altrettanto – se non più – importante per la collettività?!

Facciamo un esempio semplice. Giusto per capire. Per poter guidare bisogna superare un esame teorico ed un pratico. Perché bisogna garantire di conoscere le regole che governano la circolazione stradale, bisogna dimostrare di conoscere come funziona un motore e di essere in grado di guidare consapevolmente nel traffico.

E allora, se il voto è la pietra angolare su cui si poggia la nostra democrazia rappresentativa, perché noi elettori non siamo a chiamati a dover conoscere il funzionamento istituzionale dello Stato. Quanti fra coloro che possiamo ammirare nei provini del “Grande Fratello” – così, tanto per sparare sulla Croce Rossa – sanno, anche in maniera elementare, come si forma una legge in Italia?

Eppure votano. Loro votano. L’uomo dei provini (amabilmente commentato dalla Gialappas Band) che alla domanda: «È la Terra che gira attorno al Sole o è il Sole che gira attorno alla Terra?» si è fermato a pensare ed ha risposto: «È il Sole che gira dentro alla terra!»: vota. E il suo voto vale quanto il tuo. E il caro Antonio La Trippa lo sa.

E se gli elettori dovrebbero essere istruiti, allo stesso modo lo dovrebbero esserlo gli eletti. E quindi si potrebbe loro richiedere di sostenere un esame preventivo per l’eleggibilità, che garantisca alla comunità che essi sappiano cosa stanno andando a fare.

Ma subito dopo “una testa, un voto” c’è “una testa, un’idea” …e si sa, troppe idee fanno male. Meglio evitare troppa gente che pensa con la sua testa.

Tanto alla fine ci scandalizziamo all’incontrario: guai a toccare la democrazia, guai a toccare l’u-guaglianza.

Quindi:

VotaAntoniovotAntoniovotaAntonio. E tutto andrà per il verso giusto. È una promessa: fidati.

Giuseppe Catapano comunica: LE MOSSE DI BERLUSCONI SONO FUORI TEMPO MASSIMO MA, AHINOI, VIVO E VEGETO RESTA IL BERLUSCONISMO (CIOÈ LA SECONDA REPUBBLICA)

Non abbiamo mai avuto simpatia, né politica né umana, per Umberto Bossi, e consideriamo la sua Lega e il localismo becero che ci ha imposto per due decenni, chiamandolo impropriamente federalismo, uno dei frutti più avvelenati, dei tanti, della Seconda Repubblica. Figuriamoci poi la versione senile e un po’ patetica del vecchio Senatur. Tutto ciò non toglie, però, che questa volta si debba spendere una parola di compiacimento per i giudizi, tanto efficaci quanto taglienti, che Bossi in un’intervista ha espresso su Silvio Berlusconi e la fine di Forza Italia. Riassumibili, certo, come ha fatto Repubblica, nel sintetico “Silvio è un pirla”, ma che nella consueta volgarità di linguaggio danno il senso del passaggio verso il nulla a cui stiamo assistendo. Fateci caso: erano mesi che del Cavaliere (vabbè, ex, ma che importa) e del centro-destra non si parlava. E non era, come qualcuno avrà sicuramente pensato, una scelta snobistica. No, semplicemente è perché non ci si occupa di cose marginali, che poco, o più probabilmente nulla, incidono sullo scenario politico. Ci direte: ma perché, forse adesso ciò che succede (ma soprattutto, non succede) a destra è di colpo diventato interessante? No e sì. No perché la marginalità rimane tale anche alla vigilia di un turno elettorale che, pur riguardando solo il 40% degli elettori complessivi, ha assunto un rilievo nazionale di non poco conto. E marginale resterà anche a urne aperte, persino nel caso che dovesse conquistare la Liguria e conservare la Campania oltre che il Veneto. Sì, invece, perché la disgregazione di Forza Italia – cui farà da pendant la resa dei conti dentro il Pd – assumerà, a suo modo, un ruolo strategico nella fase politica nuova che, presumiamo, si aprirà subito dopo le regionali.

Il voto del 31 maggio, infatti, sarà un netto spartiacque, qualunque ne sia il risultato. E Berlusconi, che certo non è più quello di prima ma l’aria la sa ancora fiutare, lo conferma con quella sua penosa uscita “ormai sono fuori dalla politica ma resto per senso di responsabilità”. È evidente il suo mettere le mani avanti rispetto non solo ad un risultato elettorale che lo vedrà perdente quand’anche non fosse un tracollo, ma anche e soprattutto alla marginalità che ne seguirà e che è già iniziata con la fine della breve stagione “nazarena” e la stupida posizione assunta su Mattarella. Solo che dopo le regionali – sia nel caso che Berlusconi prosegua nello stare sull’Aventino, sia che tenti di ricucire la tela strappata del patto con Renzi – il declino sarà certificato con altre diaspore oltre a quella già consumata da Fitto. E non sarà certo l’evocata idea di dar vita all’edizione italica dell’americano partito repubblicano – progetto tanto caliginoso quanto temerario – a consentirgli di uscire dall’angolo. La ricostruzione del centro-destra, di un polo capace di competere con quello di sinistra – tanto più se moderata e ancor più se connotata da un mix di populismo e riformismo, com’è quella di Renzi – richiede volontà, forza, idee, risorse economiche e umane, che oggi Berlusconi non possiede né comunque avrebbe voglia di spendere. Tanto più nel momento in cui, come gli ha spiegato Bossi dandogli del pirla per averlo votato, con l’Italicum si cancellano le coalizioni e si mette il Paese nelle condizioni o di scegliere Renzi al primo turno (improbabile, ma lunedì 1 giugno ne sapremo di più) o di andare ad un ballottaggio Renzi-Grillo.

Per questo appare grottesco che qualcuno si chieda chi sarà l’erede di Silvio Berlusconi. Nessuno, ovviamente. Vuoi perché non è un’ipotesi che lui stesso contempli, vuoi perché i leader populistico-carismatici non hanno eredi (e certo il Cavaliere in politica è assomigliato più a Peron che a De Gaulle), vuoi perché, come abbiamo cercato di spiegare, le condizioni non lo consentono. Diverso, invece, è chiedersi se il berlusconismo è in grado di sopravvivere a Berlusconi e a Forza Italia. La nostra risposta al quesito è duplice. Se con quella definizione s’intende ciò che l’intellighenzia (ma anche no) di sinistra ha inteso in questi anni, criminalizzando l’uomo – senza capire che così paradossalmente finiva per assolvere il capo del governo – allora il berlusconismo non può che finire con Berlusconi. Ed essendo Berlusconi politicamente finito nel 2011, il suo “ismo” sono già quattro anni che è defunto. Se invece, come noi pensiamo, il berlusconismo identifica i connotati del ventennio chiamato, peraltro impropriamente, Seconda Repubblica, allora esso prescinde dal suo genitore ed è – purtroppo – vivo e vegeto. Senza che Renzi ce ne abbia liberati, anzi.

La politica intesa come schema rigido (maggioritario, bipolarismo), come espressione leaderistica (uomo solo al comando), come disintermediazione dei soggetti sociali e rapporto diretto con l’opinione pubblica, ossessionato dalla continua ricerca e misurazione del consenso (populismo): tutto questo è dal 1992, ed è destinato a rimanere, il tratto saliente non (solo) del berlusconismo, ma del sistema politico italiano. Troppo comodo pensare – l’ha scritto bene Michele Magno su Formiche – che Berlusconi fosse una piaga purulenta sul corpo sano della nazione. Certo, se così fosse basterebbe l’eclissi dell’uomo nero e la crisi verticale di Forza Italia per inaugurare il nuovo rinascimento. Invece, Berlusconi è stato il Paese e l’intero sistema politico si è lasciato connotare secondo le sue regole del gioco. Per questo siamo ancora alle prese con i problemi di sempre e la curva del declino del Paese non è stata minimamente modificata. Dopo le elezioni regionali prossime, però, molti equilibri sono destinati a saltare e molte cose a mettersi in movimento. Ma ne parliamo sabato prossimo, mentre qualcuno di voi avrà l’arduo compito di pensare se e cosa votare.

Catapano Giuseppe osserva: Pensioni, Renzi: non avrebbe senso dare 18 miliardi a chi sta già bene

“La sentenza della Consulta avrebbe imposto al governo di ripagare 18 miliardi di euro ma i cittadini sanno che non ha senso spendere 18 miliardi per dare i rimborsi anche a chi sta abbastanza bene o bene”. Così il premier Matteo Renzi a Porta a Porta, sottolineando “abbiamo risolto un problema in giro di 15 giorni e abbiamo recuperato credibilità in Europa”. “L’impegno del governo è chiaro ed è: liberiamo dalla Fornero quella parte di popolazione che accettando una piccola riduzione può andare in pensione con un po’ più di flessibilità. L’Inps deve dare a tutti la libertà di scelta”, ha detto Renzi, a Porta a Porta, sul progetto di revisione della riforma delle pensioni. “Senza fare promesse, altrimenti dicono che è una promessa elettorale,” dico che “con la legge di stabilità stiamo studiano un meccanismo non per cancellare la Fornero ma per dare un po’ di libertà se ad esempio a 61 anni vuoi andare in pensione e accetti di prendere quei trenta euro in meno”, aggiunge. “Gli italiani sono intelligenti. Bisogna dire che su tu vai in pensione a questo livello prendi x. Se vai in pensione a questo altro livello, prendi questo. Scegli tu!”. “Per cambiare la scuola bisogna avere il coraggio di vincere alcuni tabù”, ha detto Renzi. “Non avevo sottovalutato gli insegnanti, ero certo che sulla scuola ci sarebbe stata una manifestazione di piazza fortissima. No, non ho frenato ma non sono stato bravo a comunicare la riforma”. In mattinata era stato il ministro del lavoro Giuliano Poletti a spiegare a Repubblica: “Non ci siamo fatti uno sconto. Ci siamo assunti la responsabilità di decidere e di non fare giochetti come non raramente è capitato in questo Paese. Non abbiamo trattato i cittadini come se non fossero in grado di comprendere. Abbiamo detto con chiarezza quello che si poteva fare nel contesto dato”. Lo ha detto a Repubblica il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, spiegando che la decisione sul rimborso delle pensioni e’ stata presa “nel rispetto della sentenza della Corte Costituzionale e nelle compatibilità economiche possibili”. “Ai due miliardi e 180 mln che costerà il pagamento degli arretrati vanno aggiunti i 450-500 mln che dal 2016 ci costerà ogni anno l’indicizzazione dei trattamenti che finora erano stati bloccati”. La strategia dell’esecutivo riceve anche il plauso di Carlo Cottarelli. -“Il governo ha confermato gli obiettivi di deficit precedenti alla sentenza della Consulta. Oltre al fatto che le regole europee devono essere rispettate, il debito pubblico italiano e’ molto alto e c’era poco spazio per spendere di piu’. Il Governo ha fatto una cosa giusta”, ha detto l’ex commissario straordinario per la spending review ed attuale direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale intervenendo a Radio Anch’io. “La realtà – ha proseguito – è che la spesa per pensioni in Italia è intorno al 16,5% del Pil, la più alta di tutti i paesi europei. All’interno di questa ci sono delle voci che in altri paesi sono comprese sotto la voce ‘assistenza’. É un peso molto elevato sulla spesa pubblica che toglie spazio ad altre spese”. Alla luce della sentenza, secondo Cottarelli “occorrerebbe fare un provvedimento ben disegnato e si può pensare a vari modi per intervenire, prima fra tutti far sì che le pensioni siano calcolate in base ai contributi, sempre piu’ elevate rispetto ai contributi effettivamente versati dai cittadini”.Poletti è anche intervenuto sulla legge Fornero. Per il ministro è necessario modificarla e favorire una maggiore flessibilità in uscita, anche per favorire una vera staffetta generazionale.

Ue,bene impegno governo su rispetto vincoli bilancio

Un placet arriva anche dalla Commissione europea che, prendendo nota del decreto sulle pensioni con cui il governo ha annunciato ieri di voler attuare la sentenza della Corte Costituzionale sul blocco alle indicizzazioni, ha accolto con favore l’impegno del governo a mantenere gli obiettivi di bilancio per il 2015, pur riservandosi di esprimere un giudizio definitivo solo dopo che il testo ufficiale del decreto sara’ disponibile. La Commissione, prendendo atto del decreto pensioni, “accoglie con favore l’impegno del governo di mantenere gli obiettivi di bilancio indicati nel programma di stabilità 2015,” si legge in una nota di un portavoce dell’Esecutivo Ue.
“Sulla base degli annunci del governo, l’analisi della Commissione del programma di stabilità dell’Italia, basato sulle previsioni economiche 2015, rimarrebbe invariato,” aggiunge la nota, che però precisa che “una verifica definitiva dell’impatto del decreto sul bilancio sarà fatta quando il testo ufficiale (del decreto) sarà a disposizione.

Catapano Giuseppe: L’Italicum è legge: non più il suffragio universale

L’Italicum è legge. Dalle 18.20 del 4 maggio Anno Domini MMXV, con 334 voti a favore, 4 astenuti e 61 contrari, alla Camera.

Quella Camera che se ne avvarrà per i propri eletti. Perché il Senato lo si vorrebbe non elettivo, anche se questo sarà possibile solo e soltanto in virtù di una modifica costituzionale in assenza della quale i problemi potrebbero essere non pochi.

Tuttavia, un pezzetto alla volta. Per “non elettivo” si intende in realtà eletto non dai cittadini bensì dai consiglieri regionali, specchiati esempi di dedizione e moralità. Supereremo così quel bicameralismo perfetto figlio di fascistici timori che certo non aiutò ed aiuta alla speditezza del buon italico governo.

Epperò già la consulta sancì a proposito del Porcellum che non può esistere un sistema con due differenti legge elettorali per le due camere.

Certo, cambiando la costituzione per tempo… ma perché? Perché mai si dovrebbe apportare una modifica limitativa della potestà di voto democratico a ciascuno di noi? Perché mai l’elezione dell’Aula di Palazzo Madama non dovrebbe passare per le forche caudine del suffragio universale? Ve ne siete accorti che c’è questo in gioco?

Una piccola magia e voilà, il suffragio universale se n’è andato. Eppure qualche lotta c’era costato. C’era scappato pure qualche morto… Come niente.

Ma tornando alla modalità elettiva della Camera, l’Italicum prescrive che delle due sole preferenze possibili una dovrà andare a candidato di genere diverso dall’altro. A me, forse troppo kraussiano, pare la fase finale dell’imbarbarimento, quella che vede l’intelletto sostituito da un organo genitale. Roba da Ultimi giorni dell’umanità, da involuzione evoliana: dall’oro al ferro.

Proporrei allora, pur sapendomi per certo inascoltato, di sostituire al concetto di parità il concetto di eccellenza. Il primo è duale, implica una contrapposizione, ed implicandola la perpetua. Il secondo nulla ha a che vedere con l’identità di genere ma solo con l’identità personale. Sinceramente non ne conosco altre.

Un’altra cosa che mi scontenta di questa legge sono i 100 capilista bloccati. Eletti direttamente dalle segreterie dei partiti. E perché? Ma perché infastidisce tanto assegnare la scelta dei governanti agli elettori? E questo al Sud che significherà? Lo sappiamo tutti.

E poi il premio di maggioranza non più alla coalizione ma alla lista. Il partitone egemone che diventa sempre più egemone e la “balcanizzazione” dell’opposizione con una soglia di sbarramento di appena il 3 per cento.

E tutto questo per il premierato forte. Per una forma del quale, per quanto speciosa, il bicameralismo perfetto in Italia era nato.

Catapano Giuseppe informa: Pensioni, rimborsi senza ricorso. In Gazzetta la sentenza della Consulta. Il governo studia le contromisure

Il governo è ancora al lavoro per trovare la soluzione al problema sul capitolo pensioni dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato lo stop alla rivalutazione degli assegni nel biennio 2012-13 e aperto la strada a rimborsi che secondo alcune stime potrebbero raggiungere quota 16,6 miliardi di euro. Rimborsi che arriveranno per tutti, perché la sentenza della Corte costituzionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale è già efficace, se il governo non riscriverà la norma e alzerà il tetto del blocco alle perequazioni. D’altra parte lo hanno già fatto i governi Prodi nel 1998 e Berlusconi nel 2007: in quelle occasioni la Consulta non ebbe nulla da ridire anche perché l’Ulivo vietò l’adeguamento per gli assegni oltre 5 volte il minimo e il Pdl fissò l’asticella a 8 volte il minimo. L’esecutivo, in ogni caso, per evitare ripercussioni gravi sul deficit, starebbe studiando l’ipotesi di restituire ai pensionati gli aumenti arretrati delle pensioni in titoli di Stato. In questo modo verrebbero neutralizzati gli effetti sull’indebitamento netto rilevanti ai fini europei, anche se naturalmente lo Stato dovrebbe fare più debito per onorare i propri impegni. Resta la necessita’ di trovare risorse finanziarie fresche per garantire l’effetto della mancata rivalutazione 2012-2013 per gli anni a venire e questo avverrà con la nuova legge di stabilità. Il governo sta comunque procedendo per tappe: il primo obiettivo è definire in modo esatto l’impatto finanziario della sentenza della Consulta e quindi sul piano giuridico definire nuove modalità di rivalutazione che permettano di rispettare la sentenza limitando però l’impatto sui conti. Poi, una volta fissata la platea, andrà messo a punto un provvedimento che regoli il passato, mentre il reperimento dei fondi dal 2016 in poi potrebbe essere appunto definito il prossimo anno.
Sul tema dei rimborsi degli arretrati ai pensionati si è occupato anche il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, secondo cui “sarebbe una follia rimborsare tutti”, mentre 5.000 euro potrebbe essere una soglia possibile.
Intervenendo ad Agorà su Raitre il sottosegretario ha spiegato come “non è giusto pensare di rimborsare tutte le pensioni, anche quelle più alte. Siamo in un contesto dove la sostenibilità del sistema pensionistico è stato mantenuto con sacrifici chiesti molto grandi ai pensionati di domani, col passaggio al contributivo, e ai quasi pensionati, spostando in avanti il momento dell’uscita”.
“E’ giusto quindi rispettare la sentenza, ma anche l’equità intergenerazionale. Sarebbe ingiusto dare il rimborso anche alle pensioni elevate, per Scelta Civica sarebbe una follia. Cinquemila euro – ha precisato- potrebbe essere una soglia, al di sopra di quella soglia sarebbe ingiusto rimborsare, verrebbe meno il requisito di giustizia sociale”.
A proposito delle risorse che si renderebbero necessarie per rimborsare tutti, “in un contesto di questo tipo, pensare di inserire somme cosi’ rilevanti facendo ricorso a ulteriori tagli come quelli previsti per rispettare la sentenza verso tutti è sinceramente impossibile. A quel punto non si va a tagliare l’inefficienza, ma si va a devastare un sistema”, ha sottolineato Zanetti. In totale disaccordo con Zanetti il viceministro all’Economia, Enrico Morando, che in un’intervista ad Affaritaliani.it ha messo in evidenza come “le decisioni devono ancora essere prese, quindi non sono in grado di fare valutazioni su questo punto. Bisogna realizzare un intervento molto rapidamente, affrontando il tema posto dalla Consulta. La sentenza, per come e’ scritta e non voglio commentarla, lascia spazio a interventi che possono essere anche significativamente diversi. Vedremo nei prossimi giorni che cosa decidere, ci sto lavorando. Ma trovo che sia negativo fare dichiarazioni senza prospettare soluzioni precise”.
Morando non si e’ sbilanciato sulle cifre spiegando che “dipende da che cosa si decide di fare. A seconda di come si intende attuare la sentenza si determinano esigenze finanziarie diverse. Certamente, quello che è sicuro – ha detto – è che il problema non è semplicemente sull’arretrato, perché, a differenza di quello che c’e’ scritto nella sentenza, la relazione tecnica al decreto originario del 2011 era molto chiara nel definire il risparmio di spesa che si realizzava con quella misura a partire dal 2012 e per tutti gli anni a venire. Quindi le cifre che abbiamo letto sui giornali si riferiscono a oneri annuali e non a oneri complessivi”.