Catapano Giuseppe: Investigatori e Informatori Commerciali: obbligatoria l’iscrizione al registro delle imprese

Il Ministero dell’Interno con Circolare del 12 giugno 2015 indirizzata alle Prefetture chiarisce i requisiti necessari per svolgere l’attività di investigazione privata e informazioni commerciali.

Precisamente, con la nota 557/PAS/U/018519/10089.D(1)REG del 17.10.2012, il Ministero dell’Interno indicava come obbligatoria l’iscrizione al registro delle imprese per gli istituti di investigazione privata, successivamente ha ritenuto di chiedere chiarimenti al Ministero dello Sviluppo Economico che, a sua volta, con la nota del 20.04.2015 ha espresso il proprio parere al riguardo.

Il citato dicastero ha osservato che nell’attività di investigazione privata e di informazioni commerciali si riscontrerebbero gli elementi caratterizzanti l’attività di impresa, indipendentemente dalla tipologia di servizio d’indagine autorizzato e/o dal volume di affari.
Tali elementi sono identificati dal Codice Civile nell’ art. 2082 e cioè l’economicità, la professionalità e l’organizzazione. Nel momento in cui in cambio della prestazione di un servizio viene corrisposto un corrispettivo si determina il requisito di economicità.

La professionalità emerge invece, quando si rendano necessarie formazione continuativa e capacità organizzative nello svolgimento dell’attività per cui viene richiesta la licenza. Attualmente detta licenza ha validità di 3 anni grazie alla modifica dell’art. 13 del TULPS, ed è rinnovabile presentando una semplice dichiarazione di prosecuzione dell’attività.

L’organizzazione di impresa, infine, come la definizione di imprenditore ex art. 2082 del c.c., nel parere del Ministero dello Sviluppo Economico, sembra essere imposta e suggerita dalla stessa normativa di settore.
L’insieme di adempimenti e disposizioni, obbligatori od eventuali, a carico del titolare della licenza nel momento in cui richiede l’autorizzazione, mettono in evidenza come l’esercizio dell’investigazione privata sia un’attività economica organizzata dall’imprenditore, come tante altre.
Attraverso la prestazione di un servizio mediante un insieme di elementi produttivi ed economici (sedi, attrezzature, personale, procedure e risorse economiche).

Da tutto ciò, secondo il Ministero dell’Interno, consegue l’obbligo, per i titolari di licenza di investigazione privata e/o informazioni commerciali, di iscrizione al Registro delle imprese.

Viene quindi chiarito un punto cruciale, questa attività seppur professionale deve essere svolta sotto forma di attività imprenditoriale.

Giuseppe Catapano scrive: Divorzio all’italiana

Da qualche settimana è entrata in vigore la nuova normativa sul c.d. divorzio breve. Il Governo, dando seguito ad istanze provenienti da più parti della società civile, ha promosso la solita soluzione di compromesso, riducendo drasticamente i termini intercorrenti fra le procedure di separazione e divorzio, ma senza comprendere le reali conseguenze della propria scelta.

Come sono solito sostenere nei miei interventi, si è dimostrato, ove fosse ancora necessario, che il Legislatore non abbia la minima idea di quelli che siano i problemi concreti del nostro sistema giuridico. Da divorzista, parto dal presupposto che una coppia sul punto di separarsi o divorziare sia, dal punto vista emotivo, una bomba pronta ad esplodere. Presumo, sebbene abbia molte prove in senso contrario, che sia preciso dovere del Legislatore, in primis, e di un avvocato divorzista, in seconda istanza, evitare ogni forma di tensione sociale e, quindi, l’esplosione della bomba in questione.

Nel caso di una separazione consensuale sarebbe utile, quindi, sfruttare la calma emotiva del momento per porre fine, con una singola procedura, al rapporto matrimoniale. Nel caso di separazione giudiziale, abbreviare il termine intercorrente con il divorzio, invece, non permette all’emotività in eccesso, spesso causa della proliferazione di futili ragioni di scontro, di svanire.

Ora, le conseguenze della nuova legge rischiano di essere opposte rispetto allo scopo che si prefiggeva, con aumento esponenziale dei divorzi contenzioni. Mi spiego meglio. Due coniugi costretti a separarsi giudizialmente non ritroveranno, nei nove mesi successivi alla separazione, l’armonia necessaria per affrontare bonariamente una procedura di divorzio. Ergo, posto che non ho mai visto un divorzio contenzioso giungere a conclusione in così poco tempo, è probabile che, in pendenza di procedura di separazione giudiziale, gli stessi incardinino un procedimento per divorzio che, ovviamente, se non altro per ragioni di principio, seguirà la stessa forma della separazione. Quella litigiosa.

Due coniugi che, d’altra parte, siano d’accordo sulle condizioni di separazione, o trovino detto accordo in corso di causa, potrebbero, per una svariata tipologia di ragioni, entrare in contrasto fra loro e, di conseguenza, andare ad ingrossare le file di coloro che litigano per le modalità di visita dei figli o l’entità dell’assegno di mantenimento.

La norma, peraltro, trasuda ipocrisia. Il termine di sei mesi dalla separazione consensuale per accedere al divorzio è talmente breve da essere privo di senso. Mi chiedo, quindi, per quale motivo non sia stato azzerato. L’unica risposta che posso darvi è che la lobby degli avvocati, preponderante per numero in Parlamento, abbia fatto valere il suo peso. Sdoppiamento di procedure vuol dire sdoppiamento di parcelle.

Senza contare che i crociati di Santa Madre Chiesa, con rispetto parlandone, parimenti in gran numero fra le file di onorevoli e senatori, non avrebbero mai votato a favore di una legge che abolisse, totalmente e definitivamente, l’istituto della separazione, nato nell’alveo cattolico, quale periodo necessario a ripensare alle conseguenze della frattura familiare e favorire una riconciliazione. Si è dovuto, quindi, risolvere all’italiana. Se non altro per una questione di numeri e maggioranze. Per non scontentare nessuno, la montagna ha partorito il solito topolino.

Giuseppe Catapano informa: Dal giudice il sì per accedere alle banche dati

I poteri di indagine telematica attribuiti all’ufficiale giudiziario nell’esecuzione a carico del debitore (articolo 19 del Dl 132/2014 convertito nella legge 162/2014) denotano un livello apprezzabile di consapevolezza sulla necessità di dare immediata certezza su dove promuovere l’esecuzione e sulla capienza del debitore. La scelta di demandare all’ufficiale giudiziario (su richiesta del creditore e previa autorizzazione del Tribunale) la facoltà di effettuare una vera investigazione informatica mediante accesso alle banche dati pubbliche e/o accessibili alla PA risponde alla ratio di attribuire un potere ritenuto particolarmente invasivo a un apparato statale anziché al privato. Su questa scelta si può discutere, mentre sembrano oggettivi gli spunti di riflessione sui pro e i contro di questa previsione.

Tra i vantaggi quello principale è sicuramente la funzione di supporto al creditore nell’assumere una decisione fondata e consapevole se, dove e su quali beni promuovere l’esecuzione.

In teoria l’applicazione puntuale del sistema di investigazione statale prevista dalla norma dovrebbe garantire una benefica (per il creditore) contrazione di tempi/costi e l’assunzione di decisioni mirate (anche a vantaggio del debitore nullatenente). Le controindicazioni paiono però nettamente maggiori dei vantaggi e tali da comportarne la sostanziale disapplicazione. Da un lato infatti il sistema non risulta funzionale alla mole di esecuzioni promosse nei tribunali. Secondo il legislatore, il creditore dovrebbe per ciascuna pratica presentare istanza al tribunale che, a sua volta, dovrà rilasciare autorizzazione in carta bollata. Dall’altro lato queste previsioni non tengono conto del fatto che nella prassi il creditore non attende l’avvio dell’esecuzione per attivarsi nella verifica sulla consistenza patrimoniale del debitore. Lo stesso legislatore è consapevole di come la figura dell’ufficiale giudiziario dotato di sistemi informativi e infrastrutture telematiche idonee sia una chimera, viste le carenze strutturali degli apparati della giustizia, e ciò vale anche per le strutture degli uffici che dovrebbero fornire questo servizio di intelligence. In questo caso il Governo ha facoltizzato al “fai da te” il creditore, che potrà venire autorizzato ad accedere direttamente alle banche pubbliche. Ciò apre la strada ad una interessante sinergia con gli info provider privati, che potrebbero sopperire al gap della PA efficientando un sistema che, altrimenti, appare destinato a restare lettera morta.

Catapano Giuseppe informa: Italia, sì al “prelievo forzoso”, si potranno colpire conti correnti

In queste ore in cui tutti i riflettori sono puntati più che mai sulla Grecia, gli stessi italiani forse non si sono resi conto di quanto stava accadendo a casa loro.

Nella giornata di ieri, l’aula della Camera ha approvato in via definitiva la legge di delegazione europea 2014 che recepisce 58 direttive europee, adegua la normativa nazionale a 6 regolamenti Ue e attua 10 decisioni quadro. I sì sono stati 270, 113 i no, 22 gli astenuti.

Il punto è di quali direttive europee si sta parlando. In un momento in cui le parole più scritte e ripetute ovunque sono controlli di capitali, pensioni, tasse, corsa agli sportelli, in un momento in cui si teme che la crisi delle banche e degli Stati alla fine sarà esclusivamente sulle spalle dei cittadini, la Camera ha detto sì anche alla direttiva comunitaria che di per sé ha già reso legittima la procedura del “bail in”.

Cosa significa? Si tratta di un piano ben preciso che prevede che, in caso di crisi, siano i creditori e i correntisti a pagare per gli errori commessi dalle banche che, se non corretti, potrebbero tradursi in vere e proprie bombe sistemiche.

La norma stabilisce che, con effetto a partire dal 2016, in caso di crisi di liquidità di banche, i problemi – come dice la parola bail in, in contrapposizione a quella di bailout (aiuti che vengono dall’esterno) – saranno risolti accedendo, in caso di necessità, anche ai depositi superiori ai 100.000 euro.

Qualcuno potrà dire che alla fine saranno colpiti solo i ricchi. Ma la cosa non funziona proprio in questo modo, un po’ perchè in un periodo di forti pressioni del fisco, chi non evade, comunque vede assottigliarsi l’ammontare dei risparmi di una vita, e anche perchè a pagare saranno anche azionisti e obbligazionisti meno assicurati.

Catapano Giuseppe: COSA RENZI PUÒ FARE (E FINORA NON HA FATTO) IN QUEL CONCORSO DI COLPE CHE È LA CRISI EURO-GRECA

Matteo Renzi è, notoriamente, un uomo fortunato. La questione greco-europea, infatti, non solo è lungi dall’avergli procurato problemi – almeno finora – ma gli fa pure maledettamente comodo. Da un lato, infatti, distrae l’opinione pubblica dalle questioni interne, che certo negli ultimi tempi non girano a favore del presidente del Consiglio, e dall’altro consente di stemperare gli irrisolti problemi italiani nella cornice di un disfacimento euro-continentale talmente clamoroso da rendere marginale tutto il resto. Inoltre, molti analisti, e noi con loro, ritengono che in caso di default e uscita dall’euro della Grecia, il conseguente rischio di contagio al resto dell’Eurozona, Italia in testa, sia relativamente contenuto, e comunque non paragonabile a quello corso nel 2011. Certo, nessuno ci potrà risparmiare una fase di risk-off sui mercati, ma la Bce ha tutti gli strumenti, oltre che la ferma volontà, per stroncare sul nascere la speculazione. Sempre che, naturalmente, la fine dell’irreversibilità della moneta unica non disarticoli così tanto l’eurosistema da farlo saltare, perché in quel caso i primi a restare sotto le macerie saremmo noi. In fondo, persino i maggiori costi del debito da rialzo dello spread, pur essendo ovviamente un aggravio di cui il Tesoro farebbe volentieri a meno, potrebbero tornar utili a Renzi, consentendogli di giustificare all’opinione pubblica o una manovra sanguinosa o il dover subire lo scatto delle clausole di salvaguardia (come l’aumento dell’Iva) dando la colpa alla speculazione cattiva (che poi questa narrazione convinca gli italiani è altra questione).

Ma, come sempre nella vita, contare solo sulla buona stella può rivelarsi assai rischioso. Per cui sarebbe utile per lui, e per noi, che Renzi riflettesse su alcune questioni. La prima, e più importante, è relativa al ruolo che l’Italia si è ritagliata nel dipanarsi della crisi greca: nessuno. Si dirà: la partita si è giocata tutta lungo l’asse Berlino-Francoforte-Atene. Vero. Ma noi, pur essendo uno dei maggiori creditori di Atene (36 miliardi), siamo rimasti a guardare, mentre gli altri, Francia in testa, almeno sono stati coinvolti nei tavoli ristretti sulla crisi e hanno partecipato alle consultazioni tra leader, compresa quelle sollecitate da Obama, che ha persino chiamato Cameron, che pure con questa partita c’entra poco o nulla. Eppure lo spazio per una mediazione c’era (c’è?), e avremmo dovuto occuparlo. Magari avendo l’umiltà di andare da Draghi a chiedere consiglio, anziché raccontare (intervista al Sole 24 Ore) che l’Italia è fuori dalla linea di fuoco dei rischi di un eventuale default greco perché “abbiamo iniziato un percorso coraggioso di riforme strutturali, l’economia sta tornando alla crescita e l’ombrello della Bce ci mette al riparo” (solo l’ultima delle tre affermazioni è vera). Certo, il precedente della questione immigrazione – con il governo che prima (a casa) annuncia che detterà le regole d’ingaggio europee in materia di accoglienza e di redistribuzione dei profughi, e poi (in Europa) incassa senza colpo ferire il “vaffa” dei partners Ue – non faceva sperare più di tanto, ma veder andare in scena il film di Renzi che si fa fotografare mentre abbraccia Tsipras e nello stesso tempo lascia trapelare l’appoggio sostanziale ai tedeschi, fa male al nostro orgoglio nazionale. Dunque, Renzi smetta di essere lupo nelle scaramucce domestiche e pecora nei teatri internazionali.

Anche perché in Europa si è aperta una fase in cui occorre decidere da che parte stare: o facciamo come gli spagnoli, che si sono aggregati ai paesi del nord nel fare squadra con la Germania, lucrando tutti i vantaggi che ne derivano e tenendo di fatto aperte le porte a Putin (come fa la Merkel), o abbiamo la forza di creare un’opposizione reale (non a chiacchiere) allo strapotere tedesco e diventiamo il perno di un’Europa non germanocentrica che approfitta della posizione americana per diventare il punto di riferimento atlantico nell’eurozona. O, come preferiremmo noi, ci candidiamo a recitare un ruolo di mediazione e cerniera, partendo dal presupposto che nella vicenda euro-greca esiste un clamoroso “concorso di colpe” – che somma, da un lato le responsabilità storiche dell’incompiuta europea (solo la moneta senza la preventiva creazione dello Stato federale europeo) e quelle di una politica economica ottusamente rigorista, e dall’altro i peccati capitali di una classe dirigente greca ignorante e truffaldina – per cui una posizione terza tra Schäuble e Tsipras non solo è possibile, ma anche auspicabile.

Certo, per farlo occorrono idee e credibilità. Alle prime si può sempre attingere, e qui ne forniamo volentieri una noi, mentre la seconda o ce l’hai o nessuno te la può fornire. Ma si può sempre cercare di costruirsela, pazientemente. Per esempio, mettendo tutti intorno ad un tavolo a ragionare sul seguente schema di lavoro: se si obbliga la Grecia a dichiararsi insolvente, non è detto che sia automatica e inevitabile la sua uscita dall’euro, perché non sta scritto da nessuna parte che il default di un paese e la sua partecipazione alla moneta unica siano incompatibili. Partiamo dal presupposto che le due tesi che si stanno scontrando in questo momento rispondono a questa domanda: ci costa di più non far pagare alla Grecia il prezzo dei suoi errori, con il rischio che anche altri paesi si sentano legittimati a fare nuovo deficit e debito (falchi), o viceversa ci costa maggiormente la pressione speculativa che i mercati sicuramente innescherebbero avendo l’uscita di Atene dall’euroclub sancito che l’euro non è più una scelta irrevocabile (colombe)? Ecco, noi dovremmo proporre di rispondere a questo quesito suggerendo un punto di compromesso che da un lato soddisfi il principio di responsabilità cui (giustamente) tiene la Germania, secondo cui quel principio non può operare all’interno dell’euroclub finché l’unione monetaria non mostri di saper “digerire” il default di uno dei suoi membri, e dall’altro eviti di offrire ai mercati l’estro per dissotterrare l’ascia di guerra che nel 2011 portò gli spread ai massimi. E si tratterebbe di un accomodamento che tutto sommato potrebbe andarci bene, perché se è vero che il default ci penalizza in quanto creditori (diretti e come terzo contributore dei fondi europei che hanno in pancia il 60% dei 330 miliardi di debito greco), è altrettanto vero che il primo paese che entrerebbe nel mirino della speculazione se i mercati registrassero la reversibilità dell’euro sarebbe proprio il nostro, con molto più danno.

Sarebbe stato meglio che questa proposta fosse stata fatta nelle settimane scorse, prima che il duo Tsipras-Varoufakis s’inventasse quella trappola (prima di tutto per i greci) che è il referendum. Ma dopo che si saranno contati i SI e i NO – anche se la nostra speranza è che prevalgano gli astenuti (bisogna che siano oltre il 60% essendoci la soglia di validità del 40%) – ci sarà comunque da ricucire la tela strappata. E quello può essere il momento. A patto di esserne consapevoli e di sapere che non bastano 140 caratteri per sistemare le cose.

Catapano Giuseppe: PIENAMENTE VALIDA LA NOTIFICA DELLE CONTRODEDUZIONI CON APPELLO INCIDENTALE

Secondo il disposto della sentenza della Corte di Cassazione n. 17953/2012, nel processo tributario la costituzione in giudizio della parte appellata può avvenire non solo tramite materiale deposito delle proprie controdeduzioni, ma anche mediante trasmissione con plico raccomandato, poiché, sebbene l’art. 54 del DLgs. n. 546/92 richiami l’art. 23 del medesimo DLgs., il quale fa riferimento soltanto al deposito degli atti, una soluzione che escluda l’ammissibilità della spedizione per posta sarebbe irragionevolmente diversa – e quindi in contrasto con gli artt. 3 e 23 Cost. – rispetto a quella prevista dal combinato disposto degli artt. 53 e 22 dello stesso DLgs., che consente di spiegare appello principale anche a mezzo di invio postale, tanto più che il processo tributario è ispirato al modello della semplificazione delle attività processuali e che l’uso dei mezzi di trasmissione è ampiamente ammesso nel sistema dei processi civili e amministrativi.

Catapano Giuseppe informa: ANNULLATO IN APPELLO L’ACCERTAMENTO SULLA SOCIETÀ. CIÒ NON RENDE LEGITTIMA LA DECISIONE SULLA POSIZIONE DELLA SOCIA

“Avviso di accertamento” per “maggiori redditi (non contabilizzati e non dichiarati)” nei confronti della società. Di rimbalzo, però, a finire nel mirino del Fisco è anche una “socia”, cui viene attribuito un “reddito da partecipazione”, anche tenendo presente che la “compagine societaria” era “a formazione ristretta e con soci tra cui intercorrevano rapporti familiari”.
Correlazione stretta, quindi, tra società e socia. E tale correlazione è rilevante per i giudici tributari regionali: questi ultimi, difatti, hanno “annullato l’avviso di accertamento riferito alla società” e ora ritengono che “anche il provvedimento rivolto nei confronti della socia” vada “annullato”. Ciò perché “l’accertamento induttivo, ritenuto illegittimo, ha riverberato i suoi effetti sul reddito dei soci ma è carente, per le stesse motivazioni, del presupposto impositivo”.
Ma la vittoria per la “socia” è effimera. Per i giudici della Cassazione, difatti, la visione tracciata in Commissione tributaria regionale è erronea. Difatti, “norme” alla mano, “il giudicante” non avrebbe dovuto “pronunciarsi, prima che fosse passata in giudicato la sentenza relativa alla questione pregiudicante”.
Detto in maniera chiara, sarebbe stato più logico ‘congelare’ la posizione della “socia” in attesa di definire la questione relativa alla “società”.
E tale visione spinge ora i giudici della Cassazione a riaffidare la vicenda ai giudici tributari regionali, i quali potranno “provvedere sulle questioni oggetto dell’appello” proposto dalla socia “una volta decisa definitivamente” la posizione della società.

Giuseppe Catapano comunica: DOCUMENTAZIONE MESSA SUL TAVOLO DAL CONTRIBUENTE, MA CI SONO ANCORA ‘CONI D’OMBRA’ SUI DATI CONTABILI

“Controllo automatizzato” sui “dati della dichiarazione annuale ‘Modello Unico 2002’”. Conseguenza – poco gradita per il contribuente – è una corposa “cartella di pagamento” in materia di Iva. Secondo il Fisco, “la dichiarazione era priva dei dati contabili al quadro ‘VF’, fatto questo che aveva comportato l’indebita detrazione al quadro ‘VL’ dell’IVA assolta sugli acquisti con conseguente recupero dell’imposta non versata”. Ma il ragionamento seguito dal Fisco non è condiviso dai giudici tributari… Vittoria, difatti, sia in primo che in secondo grado, per il contribuente. Vittoria poggiata su questa considerazione: “l’Agenzia delle Entrate” ha riconosciuto che “i motivi della iscrizione a ruolo sono esclusivamente dovuti alle risultanze dell’anagrafe tributaria e non dalla constatazione dei fatti”. In questa ottica, viene evidenziato che “il contribuente in primo grado ha prodotto ampia documentazione” – da cui “si desume un credito per il 2001 di lire 216.792.000” –, “l’Agenzia delle Entrate ha ricevuto detta documentazione in allegato al ricorso di primo grado” ma non ha sentito il bisogno di “effettuare alcun riscontro presso il contribuente”. Errore grave, questo, secondo i giudici tributari, perché “l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di provare la fondatezza della sua pretesa e non di trincerarsi dietro le risultanze dell’anagrafe tributaria, che – proprio nella fase iniziale – è stata fonte di numerosi rilevanti errori, anche perché la digitazione dei dati dei ‘modelli Unici’ era spesso affidata a terzi impreparati”. Ma ora provvedono i giudici della Cassazione a rimettere tutto in discussione…
In sostanza, viene criticata la valutazione compiuta tra primo e secondo grado, soprattutto perché sono state ignorare alcune ‘lacune’ – come la “assenza di indicazioni contabili” – nella “documentazione” del contribuente. Peraltro, viene evidenziato, i giudici tributari regionali hanno fatto “riferimento al dato contabile finale, e non al contenuto della dichiarazione”, trascurando completamente le contestazioni mosse dal Fisco, secondo cui “non risultano indicate le fatture alla base della detrazione di cui il contribuente intende avvalersi”. Troppi, quindi, i ‘coni d’ombra’… Per questo motivo, la vicenda dovrà essere approfondita nuovamente dai membri della Commissione tributaria regionale.

Catapano Giuseppe: L’avviso di ricevimento non prova la spedizione del ricorso

Se c’è contestazione sulla data di spedizione del ricorso in appello, l’avviso di ricevimento depositato dall’ufficio contestualmente al ricorso, ovvero in una fase successiva, avendo solo valore presuntivo, non costituisce prova a fede privilegiata. Sono le interessanti conclusioni raggiunte dalla cassazione nell’ordinanza n. 12932/15 di martedì scorso. L’art. 22 del dlgs n. 546/92 dice che, il ricorrente, qualora utilizzi il mezzo postale, nei successivi trenta giorni dalla proposizione del ricorso deve depositare, a pena d’inammissibilità, copia della spedizione della raccomandata. La prassi adottata dalle agenzie erariali prevede per ogni appello, il deposito contestuale del ricorso con l’elenco cumulativo di quelli consegnati quello stesso giorno all’ufficio postale; successivamente, per ogni appello presentato, l’ufficio deposita la cartolina di ricevimento; con questo successivo deposito si ritiene di dimostrare sia l’avvenuta spedizione del ricorso in caso di mancata costituzione dell’appellato, sia il momento dell’effettiva spedizione dell’atto. Nella vertenza trattata dal collegio supremo, i giudici regionali, sulla base di una certificazione rilasciata dalle Poste italiane, avevano dichiarato tardivo l’appello proposto contro la sentenza della commissione provinciale; l’ufficio tuttavia, replicava come dall’avviso di ricevimento depositato, lo stesso appello risultasse regolarmente spedito nel termine semestrale previsto dalla norma.

Giuseppe Catapano scrive: Esecuzioni immobiliari sprint

Esecuzioni immobiliari con il turbo. Termini dimezzati per gli adempimenti preparatori e chiusura della procedura a tappe forzate sono gli strumenti messi in campo dal decreto legge sulla giustizia, approvato dal governo il 23 giugno 2015.

Deposito documentazione. Il creditore che richiede la vendita deve provvedere ad allegare l’estratto del catasto, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei 20 anni anteriori alla trascrizione del pignoramento; tale documentazione può essere sostituita da un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari (art. 567 cpc). La produzione documentale serve a individuare il bene e alle operazioni di stima del valore dello stesso ad opera di un esperto nominato dal giudice. Nella versione precedente l’incombenza doveva essere eseguita entro 120 giorni dal deposito del ricorso. Il decreto legge in commento accorcia il termine a 60 giorni. Sempre l’art. 567 cpc prevede la possibilità di proroga del termine per il deposito dei documenti. Nella versione attuale questo termine può essere prorogato una sola volta su istanza dei creditori o dell’esecutato, per giusti motivi e per una durata non superiore ad ulteriori 120 giorni; termine che il decreto legge in esame riduce a 60 giorni. Secondo l’art. 567 attuale il giudice assegna al creditore un termine di 120 giorni, quando lo stesso magistrato ritiene che la documentazione depositata debba essere completata: anche qui scatta il dimezzamento a 60 giorni. L’adempimento in questione è particolarmente importante in quanto se la documentazione non è depositata nel termine assegnato, il giudice dell’esecuzione, anche d’ufficio, dichiara l’inefficacia del pignoramento.