Catapano Giuseppe: L’Italicum è legge: non più il suffragio universale

L’Italicum è legge. Dalle 18.20 del 4 maggio Anno Domini MMXV, con 334 voti a favore, 4 astenuti e 61 contrari, alla Camera.

Quella Camera che se ne avvarrà per i propri eletti. Perché il Senato lo si vorrebbe non elettivo, anche se questo sarà possibile solo e soltanto in virtù di una modifica costituzionale in assenza della quale i problemi potrebbero essere non pochi.

Tuttavia, un pezzetto alla volta. Per “non elettivo” si intende in realtà eletto non dai cittadini bensì dai consiglieri regionali, specchiati esempi di dedizione e moralità. Supereremo così quel bicameralismo perfetto figlio di fascistici timori che certo non aiutò ed aiuta alla speditezza del buon italico governo.

Epperò già la consulta sancì a proposito del Porcellum che non può esistere un sistema con due differenti legge elettorali per le due camere.

Certo, cambiando la costituzione per tempo… ma perché? Perché mai si dovrebbe apportare una modifica limitativa della potestà di voto democratico a ciascuno di noi? Perché mai l’elezione dell’Aula di Palazzo Madama non dovrebbe passare per le forche caudine del suffragio universale? Ve ne siete accorti che c’è questo in gioco?

Una piccola magia e voilà, il suffragio universale se n’è andato. Eppure qualche lotta c’era costato. C’era scappato pure qualche morto… Come niente.

Ma tornando alla modalità elettiva della Camera, l’Italicum prescrive che delle due sole preferenze possibili una dovrà andare a candidato di genere diverso dall’altro. A me, forse troppo kraussiano, pare la fase finale dell’imbarbarimento, quella che vede l’intelletto sostituito da un organo genitale. Roba da Ultimi giorni dell’umanità, da involuzione evoliana: dall’oro al ferro.

Proporrei allora, pur sapendomi per certo inascoltato, di sostituire al concetto di parità il concetto di eccellenza. Il primo è duale, implica una contrapposizione, ed implicandola la perpetua. Il secondo nulla ha a che vedere con l’identità di genere ma solo con l’identità personale. Sinceramente non ne conosco altre.

Un’altra cosa che mi scontenta di questa legge sono i 100 capilista bloccati. Eletti direttamente dalle segreterie dei partiti. E perché? Ma perché infastidisce tanto assegnare la scelta dei governanti agli elettori? E questo al Sud che significherà? Lo sappiamo tutti.

E poi il premio di maggioranza non più alla coalizione ma alla lista. Il partitone egemone che diventa sempre più egemone e la “balcanizzazione” dell’opposizione con una soglia di sbarramento di appena il 3 per cento.

E tutto questo per il premierato forte. Per una forma del quale, per quanto speciosa, il bicameralismo perfetto in Italia era nato.

Catapano Giuseppe informa: LA SENTENZA DELLA CONSULTA SULLE PENSIONI FOTOGRAFA UN QUADRO DESOLANTE DEL SISTEMA ISTITUZIONALE

Archiviamo per il momento l’Italicum. Ormai è legge, anche se alla Camera è passato con meno voti della maggioranza di governo, con tutte le opposizioni sull’aventino e con il Pd lacerato per una cinquantina di voti contrari alla fiducia. Ma ci torneremo più in là, perché quella legge è come se fosse un tavolo senza una gamba: manca la riforma costituzionale del Senato. Che ha tempi lunghi e una difficoltà non banale: deve essere votata dal Senato stesso. Ed è proprio a Palazzo Madama che la gamba mancante dell’Italicum rischia di frantumarsi, e di far cadere il tavolo. Non va dimenticato, infatti, che al Senato l’Italicum fu votato coi voti decisivi di Forza Italia, ora persi dopo l’affondamento del patto del Nazareno. Non è un caso che Renzi alla Camera abbia messo la fiducia – scelta legittima sul piano formale ma politicamente scivolosa – per evitare un qualsiasi emendamento: se l’Italicum fosse tornato in Senato, sarebbe morto.

Ma c’è tempo, ora bisogna vedere che indicazione politica uscirà dalle elezioni regionali e comunali di fine maggio. Il timore è, come ha scritto bene Davide Giacalone, che prevalga il trasformismo di aggregazioni spurie – di cui quella della lista capeggiata da De Luca in Campania è un perfetto prototipo – buone per vincere nelle urne ma perniciose per l’effettiva governabilità. Che è stato il tratto distintivo di tutta la Seconda Repubblica a tutti i livelli amministrativi e di governo, a conferma che quella che stiamo vivendo non è affatto una transizione verso l’agognata Terza Repubblica.

Nel frattempo, in attesa che accada – purtroppo – quel che è perfettamente prevedibile, non rimane che prendere atto del grado di disfacimento subito dal nostro sistema istituzionale. Ci riferiamo alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco delle indicizzazioni delle pensioni del 2011. Quando il governo Monti si assunse la responsabilità di intervenire sulla incandescente materia previdenziale, dicemmo con chiarezza che era necessario, sia per ragioni di finanza pubblica (allora particolarmente stringenti) e sia per ragioni di salvaguardia delle pensioni future e di adeguamento del sistema previdenziale alla mutate condizioni di vita. E non mancammo di sottolineare il coraggio di quella scelta (peccato che fu sostanzialmente l’unica di quel governo…). Ma specificammo che mentre eravamo totalmente favorevoli all’aumento dell’età pensionabile, non altrettanto ci convinceva il blocco delle rivalutazioni, sia come strumento per far cassa, sia perché introduceva l’idea che pensioni da 3 mila euro fossero roba da ricchi, sia infine intervenire sul terreno dei diritti già acquisiti e in corso di fruizione apriva la porta a contenziosi. Tuttavia, giudichiamo la sentenza della Corte tardiva e fuori luogo. Quella fu, pur criticabile, una scelta politica, un atto di politica economica e di bilancio, cioè sfere che sono, e devono rimanere, prerogativa del governo e del parlamento. I diritti sociali sono per definizione condizionati dalle risorse pubbliche disponibile in un determinato momento storico, e il punto d’equilibrio tra diritti e risorse è una scelta politica che è mobile e muta nel tempo. Se poi le conseguenze di una sentenza come quella formulata dalla suprema Corte, quasi quattro anni dopo, sono una voragine di oltre 13 miliardi nel bilancio dello Stato, beh maggiore prudenza sarebbe stata opportuna. Tanto più che la decisione è avvenuta con il voto decisivo del presidente (l’obbligo di una maggioranza dei due terzi per decisioni del genere, no?).

Sarebbe bastato, come molte altre volte è successo, che la Consulta invitasse il legislatore a correggere la norma, precisando che, in mancanza e ove nuovamente investita della questione, avrebbe dichiarato l’illegittimità. Oppure la Consulta avrebbe potuto agire come quando ha dichiarato, con ragione, l’incostituzionalità della cosiddetta Robin Tax (Tremonti 2008), ma non ha imposto allo Stato la restituzione alle società energetiche del “maltolto” proprio in nome dell’articolo 81 della Costituzione, che fa riferimento alla salvaguardia degli equilibri di bilancio e al rispetto del patto di stabilità europeo.

Inoltre, è paradossale – per non dire di peggio – che tra organi istituzionali non viga la civile prassi di comunicazioni dirette, seppure informali. Perché delle due l’una: o il governo quando ha scritto il Def e mandato a Bruxelles i numeri del 2015 non sapeva nulla – strano, però, perché l’udienza in cui si è decisa l’incostituzionalità del blocco alla perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo è del 10 marzo, mentre il Def è di un mese dopo – e allora la Consulta si è presa una bella responsabilità, oppure era a conoscenza del fatto che di lì a poco sarebbe arrivata quella mazzata, e allora avrebbe dovuto prudenzialmente accantonare in bilancio le risorse necessarie (altro che tesoretto!). Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante, anche perché è sempre più affollata la lista dei provvedimenti che finiscono sotto la mannaia della Corte. Da un lato, i governi continuano a fare norme attaccabili sotto il profilo costituzionale, o nella più beata ignoranza o nella consapevolezza che tanto passeranno anni e toccherà a qualcun altro beccarsi le conseguenze di provvedimenti volutamente sbagliati ma grazie ai quali si lucrano vantaggi politici immediati; dall’altro, la Consulta agisce con ritardo e in modo molto contradditorio. Questo, ahinoi, è lo stato del nostro Stato di diritto. E poi ci si stupisce se nella società italiana, sempre più sfiduciata, la parola d’ordine maggiormente gettonata è l’invocazione di una brutale semplificazione delle procedure istituzionali e democratiche identificata nel decisionismo dell’uomo solo al comando!

Catapano Giuseppe osserva: OK, ITALICUM E SENATO SONO RIFORME PESSIME MA L’ANTI-RENZISMO BECERO È SOLO UN REGALO A RENZI

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo alla vigilia della sua definitiva approvazione: la nuova legge elettorale è un indigeribile minestrone privo di qualunque parentela con i sistemi europei più consolidati, che mischia proporzionale, premio di maggioranza, sbarramento e doppio turno per diventare alla fine una forzatura maggioritaria. Al di là della controversa e comunque non decisiva questione “preferenze-liste bloccate”, che sarebbe stato meglio risolvere adottando i collegi uninominali, il cervellotico sistema escogitato, ha palesemente questi difetti: adotta un premio spropositato a fronte di una soglia bassa; caso unico in Europa, somma sbarramento e premio, producendo uno squilibrio eccessivo tra l’obiettivo della governabilità e quello della rappresentatività; induce il rischio alla frammentazione delle opposizioni; non annulla l’indicazione del nome del candidato premier prevista da norme precedenti, palesemente in contrasto con il profilo costituzionale del nostro sistema istituzionale, che assegna al Capo dello stato il compito di indicare il nome del presidente del Consiglio e al Parlamento di approvarlo. Soprattutto, è un aborto per due ragioni: da una parte la clausola di salvaguardia, difficilmente aggirabile per decreto, proroga l’entrata in vigore al luglio 2016; dall’altra, è valida solo per la Camera, mentre per il Senato si userebbe la legge (proporzionale) uscita dalla sentenza della Corte Costituzionale, con il rischio che, nel caso in cui le riforme istituzionali dovessero fermarsi, si voterebbe con sistemi diversi per i due rami del Parlamento. Inoltre, essa si incrocia con una riforma del Senato che è una vera e propria schifezza, perché non risolve il problema dell’efficienza e velocità della produzione legislativa (mentre basterebbe rivedere i regolamenti parlamentari), e nello stesso tempo apre la porta agli esponenti del decentramento regionale proprio quando invece bisognerebbe rivederlo se non addirittura abolirlo.

Insomma, un italico pasticcio che ignora i motivi del fallimento della Seconda Repubblica e che rende palese la fondatezza di quanto da tempo andiamo affermando, e cioè che se è vero che dobbiamo fare le riforme dopo tanto immobilismo – e una nuova regolamentazione elettorale e un superamento del bicameralismo inefficiente sono cose più che necessarie – è altrettanto vero che fare le riforme sbagliate è peggio che non farne alcuna. E queste in campo, ahinoi, sono proprio del tutto sbagliate.

Detto questo, e proprio perché si tratta di un giudizio inequivocabile, ci permettiamo di dissentire in modo fermo e assoluto con la gran parte delle motivazioni di coloro – forze politiche e commentatori – che in queste ore si sono dichiarati contrari a queste riforme, senza per questo temere di essere bollati come filo-renziani. Le accuse più stupide, in sé e perché offrono su un piatto d’argento a Renzi argomenti a suo favore da spendere con l’opinione pubblica, sono quelle di chi ha gridato al fascismo, all’insorgere di una pericolosa “democratura”. È lo stesso errore commesso con Berlusconi. Se al Cavaliere, anziché rovesciargli addosso le accuse più infamanti, se invece di scatenargli contro magistratura e media fino all’ossessione, ci si fosse limitati a dire che non era capace di governare – come purtroppo era chiaro fin dall’inizio, causa mancanza di cultura politica – e gli si fossero opposte idee di governo riformatrici, vi possiamo garantire che la sua presenza a palazzo Chigi si sarebbe fermata al 1994. E invece l’anti-berlusconismo è stato il più formidabile propellente di cui Berlusconi abbia potuto godere. Ora la storia si ripete con Renzi. Dire che si forzano i tempi, quando sono anni che si aspetta, e si forzano le regole perché è stata messa la fiducia, nonostante si sappia che gli è perfettamente consentito – e lui l’ha usata, pur non avendone alcun bisogno, proprio perché sapeva di poter beneficiare di questo stupido riflesso condizionato – o urlare che stiamo mettendo un uomo solo al comando, quando tutta la Seconda Repubblica è stata una leadercrazia travestita da bipolarismo, significa essere politicamente sciocchi e fare un regalo grande come una casa a colui che si vorrebbe combattere. Se poi a strapparsi le vesti sono coloro (minoranza Pd, Forza Italia) che al Senato quelle stesse norme avevano già approvato senza batter ciglio e contro le quali, nel merito, si limitano a chiedere “modifiche” (ma come, aprono la porta al fascismo e ci si limita a volerle ritoccare?), beh allora si cade addirittura nel ridicolo. In un referendum svoltosi nel 2009, promosso dal costituzionalista Guzzetta nel 2007, si proponeva il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione. Tra i tanti, lo firmarono Rosi Bindi, Gianni Cuperlo e Renato Brunetta e fu approvato anche da Berlusconi. Oggi, tutti soggetti che gridano alla “democrazia in pericolo”: ma via, siamo seri. Certo, anche Renzi nel gennaio 2014 twittava: “Le regole si scrivono tutti insieme, farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato”. Ma questa incoerenza non giustifica quella degli altri. Semmai aggiunge preoccupazione a preoccupazione. Tutta questa veemente invettiva da parte della “vecchia immobile” classe politica non fa che accreditare Renzi agli occhi dell’opinione pubblica come il premier che le cose le fa. Purtroppo, a prescindere da cosa fa. Mentre è del merito che dovremmo seriamente occuparci.

La verità è che se Bersani e soci vogliono davvero fermare queste schifezze – e lo sono, delle schifezze, non perché abbiano connotati anti-democratici, ma perché non servono a dare la necessaria governabilità al Paese – devono proporre riforme alternative e indicare in una nuova Assemblea Costituente lo strumento per rivedere in modo serio il nostro assetto istituzionale. E devono offrire non lo spettacolo penoso di gente che piagnucola perché Renzi gli ha portato via il gelato – anche perché agli italiani i malandrini fanno simpatia – ma di riformisti seri e decisi che spiegano ai cittadini che la governabilità non la si ottiene con qualche formula matematica, come ha dimostrato l’esperienza della passata legge elettorale, e che per assicurare un governo stabile non basta un premio di maggioranza, per quanto possa essere ampio, ma è necessaria la legittimazione dei governi e quindi occorrono regole e politiche condivise.

Il fatto è che Italicum e Senato federale sono solo delle scuse, il terreno di gioco per un doppio regolamento di conti, interno a Pd e FI. Renzi vuole creare un grosso partito centrista, emarginando quel che rimane della sinistra politica e sindacale. La quale, avendo perso ogni credibilità agli occhi del Paese, tenta di resistergli. Berlusconi, preso da rimettere ordine nel suo impero, non è più interessato a pagare i costi di Forza Italia, di cui intende liberarsi, insieme a quasi tutta la nomenclatura che lui stesso ha partorito, ufficialmente per far nascere il partito repubblicano americano in Italia (con buona pace del vecchio Pri di lamalfiana memoria), in realtà per qualcosa di più modesto, un manipolo di parlamentari fedeli che gli guardi le spalle. La prima sarebbe cosa buona e giusta, se Renzi avesse cultura di governo e classe dirigente all’altezza della sfida. La seconda è classificabile come questione sostanzialmente privata.