Catapano Giuseppe informa: Italia, sì al “prelievo forzoso”, si potranno colpire conti correnti

In queste ore in cui tutti i riflettori sono puntati più che mai sulla Grecia, gli stessi italiani forse non si sono resi conto di quanto stava accadendo a casa loro.

Nella giornata di ieri, l’aula della Camera ha approvato in via definitiva la legge di delegazione europea 2014 che recepisce 58 direttive europee, adegua la normativa nazionale a 6 regolamenti Ue e attua 10 decisioni quadro. I sì sono stati 270, 113 i no, 22 gli astenuti.

Il punto è di quali direttive europee si sta parlando. In un momento in cui le parole più scritte e ripetute ovunque sono controlli di capitali, pensioni, tasse, corsa agli sportelli, in un momento in cui si teme che la crisi delle banche e degli Stati alla fine sarà esclusivamente sulle spalle dei cittadini, la Camera ha detto sì anche alla direttiva comunitaria che di per sé ha già reso legittima la procedura del “bail in”.

Cosa significa? Si tratta di un piano ben preciso che prevede che, in caso di crisi, siano i creditori e i correntisti a pagare per gli errori commessi dalle banche che, se non corretti, potrebbero tradursi in vere e proprie bombe sistemiche.

La norma stabilisce che, con effetto a partire dal 2016, in caso di crisi di liquidità di banche, i problemi – come dice la parola bail in, in contrapposizione a quella di bailout (aiuti che vengono dall’esterno) – saranno risolti accedendo, in caso di necessità, anche ai depositi superiori ai 100.000 euro.

Qualcuno potrà dire che alla fine saranno colpiti solo i ricchi. Ma la cosa non funziona proprio in questo modo, un po’ perchè in un periodo di forti pressioni del fisco, chi non evade, comunque vede assottigliarsi l’ammontare dei risparmi di una vita, e anche perchè a pagare saranno anche azionisti e obbligazionisti meno assicurati.

Catapano Giuseppe: COSA RENZI PUÒ FARE (E FINORA NON HA FATTO) IN QUEL CONCORSO DI COLPE CHE È LA CRISI EURO-GRECA

Matteo Renzi è, notoriamente, un uomo fortunato. La questione greco-europea, infatti, non solo è lungi dall’avergli procurato problemi – almeno finora – ma gli fa pure maledettamente comodo. Da un lato, infatti, distrae l’opinione pubblica dalle questioni interne, che certo negli ultimi tempi non girano a favore del presidente del Consiglio, e dall’altro consente di stemperare gli irrisolti problemi italiani nella cornice di un disfacimento euro-continentale talmente clamoroso da rendere marginale tutto il resto. Inoltre, molti analisti, e noi con loro, ritengono che in caso di default e uscita dall’euro della Grecia, il conseguente rischio di contagio al resto dell’Eurozona, Italia in testa, sia relativamente contenuto, e comunque non paragonabile a quello corso nel 2011. Certo, nessuno ci potrà risparmiare una fase di risk-off sui mercati, ma la Bce ha tutti gli strumenti, oltre che la ferma volontà, per stroncare sul nascere la speculazione. Sempre che, naturalmente, la fine dell’irreversibilità della moneta unica non disarticoli così tanto l’eurosistema da farlo saltare, perché in quel caso i primi a restare sotto le macerie saremmo noi. In fondo, persino i maggiori costi del debito da rialzo dello spread, pur essendo ovviamente un aggravio di cui il Tesoro farebbe volentieri a meno, potrebbero tornar utili a Renzi, consentendogli di giustificare all’opinione pubblica o una manovra sanguinosa o il dover subire lo scatto delle clausole di salvaguardia (come l’aumento dell’Iva) dando la colpa alla speculazione cattiva (che poi questa narrazione convinca gli italiani è altra questione).

Ma, come sempre nella vita, contare solo sulla buona stella può rivelarsi assai rischioso. Per cui sarebbe utile per lui, e per noi, che Renzi riflettesse su alcune questioni. La prima, e più importante, è relativa al ruolo che l’Italia si è ritagliata nel dipanarsi della crisi greca: nessuno. Si dirà: la partita si è giocata tutta lungo l’asse Berlino-Francoforte-Atene. Vero. Ma noi, pur essendo uno dei maggiori creditori di Atene (36 miliardi), siamo rimasti a guardare, mentre gli altri, Francia in testa, almeno sono stati coinvolti nei tavoli ristretti sulla crisi e hanno partecipato alle consultazioni tra leader, compresa quelle sollecitate da Obama, che ha persino chiamato Cameron, che pure con questa partita c’entra poco o nulla. Eppure lo spazio per una mediazione c’era (c’è?), e avremmo dovuto occuparlo. Magari avendo l’umiltà di andare da Draghi a chiedere consiglio, anziché raccontare (intervista al Sole 24 Ore) che l’Italia è fuori dalla linea di fuoco dei rischi di un eventuale default greco perché “abbiamo iniziato un percorso coraggioso di riforme strutturali, l’economia sta tornando alla crescita e l’ombrello della Bce ci mette al riparo” (solo l’ultima delle tre affermazioni è vera). Certo, il precedente della questione immigrazione – con il governo che prima (a casa) annuncia che detterà le regole d’ingaggio europee in materia di accoglienza e di redistribuzione dei profughi, e poi (in Europa) incassa senza colpo ferire il “vaffa” dei partners Ue – non faceva sperare più di tanto, ma veder andare in scena il film di Renzi che si fa fotografare mentre abbraccia Tsipras e nello stesso tempo lascia trapelare l’appoggio sostanziale ai tedeschi, fa male al nostro orgoglio nazionale. Dunque, Renzi smetta di essere lupo nelle scaramucce domestiche e pecora nei teatri internazionali.

Anche perché in Europa si è aperta una fase in cui occorre decidere da che parte stare: o facciamo come gli spagnoli, che si sono aggregati ai paesi del nord nel fare squadra con la Germania, lucrando tutti i vantaggi che ne derivano e tenendo di fatto aperte le porte a Putin (come fa la Merkel), o abbiamo la forza di creare un’opposizione reale (non a chiacchiere) allo strapotere tedesco e diventiamo il perno di un’Europa non germanocentrica che approfitta della posizione americana per diventare il punto di riferimento atlantico nell’eurozona. O, come preferiremmo noi, ci candidiamo a recitare un ruolo di mediazione e cerniera, partendo dal presupposto che nella vicenda euro-greca esiste un clamoroso “concorso di colpe” – che somma, da un lato le responsabilità storiche dell’incompiuta europea (solo la moneta senza la preventiva creazione dello Stato federale europeo) e quelle di una politica economica ottusamente rigorista, e dall’altro i peccati capitali di una classe dirigente greca ignorante e truffaldina – per cui una posizione terza tra Schäuble e Tsipras non solo è possibile, ma anche auspicabile.

Certo, per farlo occorrono idee e credibilità. Alle prime si può sempre attingere, e qui ne forniamo volentieri una noi, mentre la seconda o ce l’hai o nessuno te la può fornire. Ma si può sempre cercare di costruirsela, pazientemente. Per esempio, mettendo tutti intorno ad un tavolo a ragionare sul seguente schema di lavoro: se si obbliga la Grecia a dichiararsi insolvente, non è detto che sia automatica e inevitabile la sua uscita dall’euro, perché non sta scritto da nessuna parte che il default di un paese e la sua partecipazione alla moneta unica siano incompatibili. Partiamo dal presupposto che le due tesi che si stanno scontrando in questo momento rispondono a questa domanda: ci costa di più non far pagare alla Grecia il prezzo dei suoi errori, con il rischio che anche altri paesi si sentano legittimati a fare nuovo deficit e debito (falchi), o viceversa ci costa maggiormente la pressione speculativa che i mercati sicuramente innescherebbero avendo l’uscita di Atene dall’euroclub sancito che l’euro non è più una scelta irrevocabile (colombe)? Ecco, noi dovremmo proporre di rispondere a questo quesito suggerendo un punto di compromesso che da un lato soddisfi il principio di responsabilità cui (giustamente) tiene la Germania, secondo cui quel principio non può operare all’interno dell’euroclub finché l’unione monetaria non mostri di saper “digerire” il default di uno dei suoi membri, e dall’altro eviti di offrire ai mercati l’estro per dissotterrare l’ascia di guerra che nel 2011 portò gli spread ai massimi. E si tratterebbe di un accomodamento che tutto sommato potrebbe andarci bene, perché se è vero che il default ci penalizza in quanto creditori (diretti e come terzo contributore dei fondi europei che hanno in pancia il 60% dei 330 miliardi di debito greco), è altrettanto vero che il primo paese che entrerebbe nel mirino della speculazione se i mercati registrassero la reversibilità dell’euro sarebbe proprio il nostro, con molto più danno.

Sarebbe stato meglio che questa proposta fosse stata fatta nelle settimane scorse, prima che il duo Tsipras-Varoufakis s’inventasse quella trappola (prima di tutto per i greci) che è il referendum. Ma dopo che si saranno contati i SI e i NO – anche se la nostra speranza è che prevalgano gli astenuti (bisogna che siano oltre il 60% essendoci la soglia di validità del 40%) – ci sarà comunque da ricucire la tela strappata. E quello può essere il momento. A patto di esserne consapevoli e di sapere che non bastano 140 caratteri per sistemare le cose.

Giuseppe Catapano: Fattore vincente e motore per lo sviluppo

Nel mercato globale la competizione continua a crescere ed accelerare. Aumenta la domanda soprattutto grazie ai mercati in ascesa e aumenta l’offerta soprattutto grazie ai nuovi produttori. Nei settori ad elevata tecnologia permangono forti barriere all’ingresso, ma riescono solo a rallentare e selezionare l’arrivo di nuovi concorrenti, non ad impedirlo.

L’arrivo di nuovi concorrenti
Su quest’ultimo fronte giocano molteplici fattori:

1) La globalizzazione comporta un maggiore e più facile trasferimento delle conoscenze (comprese le tecnologie) e delle persone (comprese quelle ad elevata istruzione), anche grazie alla maggiore facilità di comunicazione e movimento.

2) L’innovazione tecnologica di prodotto e di processo lascia ampio spazio all’intervento umano sia direttamente sia attraverso il supporto informatico e, quindi, non sempre è richiesta la presenza di massicci investimenti fissi.

3) L’acquisto di prodotti ad elevata tecnologia è condizionato al trasferimento di capacità tecnologiche e industriali. Che questo avvenga per ragioni politiche o anche economiche è, da questo punto di vista, irrilevante. E che si tratti di centrali atomiche o di impianti per l’energia o di velivoli, elicotteri, navi militari o aerei passeggeri (solo per citare i casi più conosciuti), lo è altrettanto.

4) Le nuove potenze regionali spingono per entrare in questi settori perché importanti per la loro crescita (in ragione dell’effetto trainante), perché prestigiosi (il caso più eclatante è quello spaziale), perché fondamentali ai fini della loro sicurezza e difesa.

5) I Paesi più industrializzati limitano solo parzialmente i trasferimenti tecnologici (prodotti militari altamente sofisticati) soprattutto per la necessità di trovare nuovi mercati di sbocco per prodotti sempre più avanzati e costosi che i loro mercati interni non sono in grado di mantenere.
Solo gli Stati Uniti fanno eccezione a questa regola e, anche per questo, riescono a controllare meglio i trasferimenti tecnologici. La Russia è molto più disinvolta, come gli stessi Paesi europei, soprattutto in questo periodo di crisi o basso sviluppo economico e di taglio delle spese militari.

Nella competizione globale l’innovazione tecnologica è uno dei fattori vincenti ed è riconosciuta da tutti come il motore dello sviluppo.

Innovazione di prodotto e di processo, una valanga
L’opinione pubblica vede quasi esclusivamente e inevitabilmente l’innovazione di prodotto che permea la vita quotidiana. E questo vale ormai in tutto il mondo, escluse le sole aree ad altissima povertà.

Ma, in realtà, è ancora più importante l’innovazione di processo perché ne rappresenta la premessa, coinvolge tutti i settori (compresi quelli dove i prodotti apparentemente restano gli stessi e non sono considerati sofisticati) ed è completamente trasversale.

Anche per queste ragioni in tutti i paesi l’innovazione tecnologica è sostenuta direttamente o indirettamente dai governi, poco importa se attraverso politiche fiscali, della ricerca, della formazione, disponibilità di finanziamenti, realizzazione di infrastrutture, centri e istituti di ricerca.

Fra tutti gli altri, il settore forse più supportato è quello dell’aerospazio, sicurezza e difesa perché aggiunge alla componente tecnologica e industriale una caratteristica unica ed essenziale, quella della tutela e della difesa del proprio sistema-paese.

L’innovazione tecnologica assomiglia, in positivo, ad una valanga: aumenta continuamente la sua velocità e trova nuova energia nella sua corsa (e, simbolicamente, travolge ogni ostacolo): bisogna, quindi, starci davanti e anticiparne l’evoluzione, correndo come e, se possibile, più degli altri, se si vuole rimanere nel gruppo di testa o, per lo meno, non restare troppo distaccati: alle spalle si ingrossa e si avvicina il gruppo degli inseguitori.

Il caso Italia: ritardi e limiti
L’Italia costituisce un caso originale. È entrata in ritardo, rispetto ai Paesi concorrenti, nei settori ad elevata tecnologia. Ma le ridotte dimensioni del mercato nazionale e la dispersione dei finanziamenti pubblici su troppi fronti, hanno finito con il limitare il “tasso di sopravvivenza” delle nostre capacità di innovazione. Il risultato è che oggi, fra i pochi settori sopravvissuti, il principale è rappresentato dall’aerospazio, sicurezza e difesa.

Qui lo Stato italiano ha, oltre tutto, una doppia responsabilità: è, come tutti gli altri, “regolatore” del mercato, principale acquirente, sostenitore dell’export, finanziatore della ricerca tecnologica, ma è fra i pochi ad essere anche l’azionista di riferimento dei principali gruppi industriali nazionali, Finmeccanica e Fincantieri.

Il problema è che questa seconda funzione si estrinseca quasi esclusivamente con la nomina dei suoi vertici e non con la definizione e coerente attuazione di una politica di settore, anche a causa della mancanza di una cabina di regia che raccolga e superi le diverse competenze e gelosie ministeriali.

Questa azione di guida risulta ancora più importante di fronte all’integrazione del mercato europeo e all’inevitabile ripresa del processo di razionalizzazione e ristrutturazione dell’industria europea. Decidere dove vogliamo restare, dove possiamo accettare di essere interdipendenti coi partner europei, dove dobbiamo abbandonare il campo, è una responsabilità del Governo che non può essere elusa o delegata.

Coerenza con il Libro Bianco
Non a caso il recente Libro Bianco della Difesa prevede una collaborazione interministeriale volta a rafforzare le nostre capacità tecnologiche e industriali attraverso l’elaborazione di un Piano, mantenuto periodicamente aggiornato, che individui le attività strategiche nel campo della difesa e della sicurezza, anche tenendo conto delle potenziali applicazioni duali delle relative tecnologie.

Primo obiettivo da perseguire è, quindi, scegliere dove vogliano restare. Là dobbiamo, però, crescere perché non abbiamo alternative. Non possiamo stare fermi: o andiamo avanti o andiamo indietro.

Dobbiamo, però, essere coerenti. Se si definisce un’attività strategica per il Paese, bisogna conseguentemente concentrarvi le energie e le risorse disponibili e non disperderle a pioggia su troppi fronti. Ma bisogna anche assicurare un livello minimo di finanziamenti, stabili nel tempo, senza i quali è inutile cercare di attuare una politica di settore.

Anche di questo si parlerà nel Convegno che lo IAI in collaborazione con Avio Aero organizza il primo luglio su “Sviluppo e innovazione nei settori a elevata tecnologia”.

Giuseppe Catapano informa: Il Mediterraneo e la via della seta

A differenza di altri Paesi, che sono in pari tempo mediterranei ed atlantici, l’Italia è sempre stata, malgrado le sue aspirazioni, un Paese mediterraneo.

Anche in queste poche decadi in cui il ranking nazionale in seno al Gotha dell’economia mondiale ha obbligato l’Italia a considerare quanto avviene nel mondo con una visione globale, il fuoco della nostra attenzione si è sempre concentrato sull’area corrispondente al cosiddetto “Mediterraneo allargato”.

Non che le due altre sfere naturali della nostra politica, quella atlantica e quella europea, venissero trascurate, anzi. L’approccio italiano a tali ambiti era però sempre un approccio caratterizzato dalla mediterraneità del Paese.

Nella Alleanza atlantica entrammo sin dall’inizio a titolo pieno, unico fra i paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, anche perché portavamo in dote una posizione geografica che ci rendeva indispensabili per il controllo dei due settori del Mediterraneo.

Considerazione che spiega anche perché l’Italia sia stata sino a poco fa l’unico membro storico della Nato in cui la presenza militare Usa è cresciuta, e non calata, dopo la caduta del muro di Berlino.

Oltre alla dimensione atlantica, anche quella europea della nostra politica è stata sempre condizionata dalla dislocazione mediterranea del nostro Paese.

Nei tempi andati, quando la Politica agricola comune fruiva del novanta per cento del bilancio del Mec, la nostra produzione agricola ci associava automaticamente a quella degli altri Stati che si affacciavano sul bacino.

In tempi più recenti, le nostre preoccupazioni politiche si sono concentrate più sul quadrante arabo e su quello balcanico dei confini europei piuttosto che su quello baltico o dell’Europa centrale.

Mediterraneo non più centrale
Da molti secoli però il Mediterraneo non ha più quella centralità di cui aveva goduto sino alla fine del 1400, allorché i viaggi di Colombo da un lato, quelli di Vasco da Gama dall’altro, hanno iniziato l’era della “centralità atlantica”.

Da ombelico del mondo europeo, strada maestra di tutti i suoi commerci, sede degli Stati più ricchi ed avanzati del continente, il mare nostrum è decaduto al ruolo di bacino secondario.

I Paesi rivieraschi che non avevano anche una sponda atlantica hanno dovuto subire, da quel momento in poi, una storia fatta da altri, senza più godere della possibilità di scolpire da soli il proprio destino. Una condizione che l’apertura del Canale di Suez ha un poco alleviato, senza però riuscire a mutarla radicalmente, alcuni secoli dopo.

Nulla dura in eterno ed anche la “centralità atlantica” ha imboccato da ormai un ventennio, in parallelo alla straordinaria crescita politica ed economica dell’Asia, la strada del declino. Ad essa sta subentrando la “centralità del Pacifico”, che gli Stati Uniti hanno immediatamente recepito spostando dalla costa Est alla costa Ovest del loro grande Paese larga parte della loro attenzione.

In Europa invece nulla è cambiato, nonostante che il commercio da e per l’Asia si faccia di giorno in giorno più intenso e che tutte le importazioni ed esportazioni europee siano inesorabilmente costrette a seguire, in assenza di agevoli percorsi stradali o ferroviari, la rotta di Suez.

Si trattava di una occasione straordinaria per ridare al Mediterraneo una nuova centralità, in ambito europeo e non soltanto in quello. Gli Stati rivieraschi non hanno pero saputo coglierla, forse perché adeguarsi alla nuova situazione avrebbe di necessità comportato un radicale cambio di passo e di mentalità.

Dal nazionale all’internazionale, dal tattico allo strategico, da una visione a breve a una a lunga scadenza. Il tutto integrato dall’avviamento di opere di dimensioni colossali che richiedevano l’impegno di capitali altrettanto colossali ed avrebbero dovuto essere realizzate in tempi molto ristretti.

Il risultato è stato che si è fatto poco o nulla e che le poche battaglie combattute – in Italia quella per trasformare Gioia Tauro nel terminale dei containers cinesi e giapponesi e quella per aprire il porto di Taranto ai cinesi – sono state regolarmente perse.

Anziché recuperare centralità il Mediterraneo rimane così al margine, mentre le merci asiatiche entrate da Suez escono da Gibilterra e continuano ad essere scaricate nei grandi porti atlantici europei. All’orizzonte oggi si stanno profilando due cambiamenti che richiedono grande attenzione e lungimiranza strategica.

Rotta del Nord contro via della seta
Il primo è il progressivo riscaldamento del pianeta che propizia lo scioglimento dei ghiacci rendendo a poco a poco praticabile la rotta intercontinentale che unisce l’Asia all’Europa passando a Nord della Russia.

Ancora dieci, quindici anni e se non si verificano poco probabili inversioni climatiche questa rotta a Nord, molto più corta e quindi più economica, finirà col prevalere sulla rotta a Sud.

Il secondo è invece rappresentato dal colossale progetto cinese, presentato pochi mesi fa dal presidente Xi Jin Ping e denominato “Silk road, silk belt”. L’idea cinese è quella di riuscire ad attivare, nel breve giro di una decina d’anni, un grande fascio di comunicazioni stradali e ferroviarie che colleghino l’Asia all’Europa passando per Asia centrale e Russia, ed approdando infine in Germania, con tempi di percorrenza quanto più possibile ridotti.

A questa “silk belt”, che per gran parte ricalcherebbe l’antica via della seta, si dovrebbe affiancare una grande rotta marittima, la “silk road”, che unirebbe la Cina all’Africa e all’Europa terminando, con uno straordinario richiamo storico culturale, nella Venezia da cui Marco Polo partì un tempo per il lontano Katai.

Quale siano la serietà e la portata dell’iniziativa cinese è dimostrato dalla velocità con cui si è mossa Pechino, riuscendo a concludere in brevissimo tempo accordi sul progetto tanto con la Russia quanto con il Pakistan.

Una ulteriore conferma è la dimensione degli impegni finanziari già assunti dai cinesi, che hanno posto quaranta miliardi di dollari a disposizione degli Stati asiatici desiderosi di associarsi ma bisognosi di consistente sostegno economico tanto per intervenire sui loro assi stradali e ferroviari che per incrementare le loro capacità portuali lungo l’asse marittimo.

Quest’ultimo treno…
C’é così in ballo una nuova e forse definitiva sfida per quello che riguarda la “centralità mediterranea”. In una decina d’anni, se non vogliamo che i piani cambino, dobbiamo infatti attrezzarci perché i nostri porti dell’Adriatico riescano – magari in sistema con quelli dell’altra sponda – ad assorbire ed a smistare il prevedibile colossale volume di traffico.

A corollario e completamento di questo andrebbero poi potenziati anche i nostri i collegamenti stradali e ferroviari con la Germania, in maniera tale da congiungere adeguatamente il terminale di arrivo marittimo della “silk road, silk belt” con quello terrestre.

Non si tratta di impresa da poco, ma la sfida ed il conseguente impegno sono talmente forti che potrebbero costituire il decisivo colpo di frusta per la ripresa della nostra economia.

E poi …. c’era una volta una vecchia canzone che parlava dell’ultimo treno, “the three ten to Yuma…”, il treno delle tre e dieci del mattino per Yuma. Se perdi quello è inutile che aspetti, perché non passeranno altri treni. È quanto succederà alla “centralità mediterranea” se il nostro ed altri Paesi dell’area non saranno capaci di raccogliere il guanto di una sfida che è in pari tempo una straordinaria opportunità.

Catapano Giuseppe informa: Mattarella, l’Italia torna a crescere. Dare sostegno alle pmi

“Nello scenario di cambiamento, nel quale emergono progressivamente i primi segnali positivi, l’Italia sta tornando a crescere”. E’ quanto ha affermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato all’assemblea annuale di Confesercenti in corso in queste ore a Genova. “Anche dal commercio e dal turismo, pur in un clima ancora prudente per la spesa delle famiglie, si affacciano le prime tendenze incoraggianti”, ha sottolineato il capo dello Stato. Secondo Mattarella, “il sistema delle imprese italiane, se opportunamente sostenuto in questo delicato momento di ripresa, potrà valorizzare la sua vocazione creativa e innovativa e la sua preziosa tradizione di alta qualità”. Il presidente ha poi sottolineato che “le piccole e medie imprese italiane hanno subito più di altri gli effetti di lunghi e difficili anni di crisi, con ripercussioni gravi e con sacrifici davvero straordinari”. Nel suo messaggio all’assemblea nazionale di Confesercenti, Mattarella ha poi espresso “vivo apprezzamento per il livello di attenzione e di impegno che la confederazione riserva alla lotta contro il racket e l’usura al fianco e a difesa delle imprese vittime dei soprusi e delle intimidazioni delle realtà criminali”, ha concluso.

Giuseppe Catapano informa: SI È APERTA UNA FASE DI TRIBOLATA FIBRILLAZIONE CHE SOLO RENZI PUÒ CHIUDERE. CAMBIANDO MUSICA E ROTTA

Detto, fatto. Avevamo pronosticato – maledetti gufi, penserà Renzi – che con quei risultati le elezioni regionali avrebbero prodotto frutti avvelenati per la politica, ed ecco che appena due settimane dopo il voto siamo qui a dover constatare i nostri timori erano fondati. Da un lato le fibrillazioni dentro le istituzioni, come la lite governo-regioni (Lombardia, ma non solo) sulla questione dell’accoglienza dei migranti, e dentro i partiti, con lo scontro De Luca-Bindi che arriva in tribunale e rende insanabile la spaccatura dentro il Pd, e con Verdini che trasloca insieme al suo manipolo di “volonterosi” lasciando Berlusconi ancor più in mutande di quanto già non fosse. Dall’altro, le vicende giudiziarie, da “Mafia capitale” al “caso Azzolini”, che rappresentano altrettanti ordigni pronti ad esplodere, rischiando di far traballare anche il governo. Tanto più se, come si vocifera, ci aspettano nuovi capitoli della vicenda romana, per cui la scelta di difendere Marino e la sua giunta potrebbe rivelarsi un boomerang e la contromossa di “commissariare” preventivamente il Giubileo insufficiente. E come sempre avviene nell’intossicato sistema Italia quando un potere forte perde qualche colpo, ecco puntuali alcune vicende “pelose” che rappresentano altrettanti segnali inequivocabili: dalla notizia che Buzzi aveva finanziato la Fondazione di Renzi – in modo regolare, ma che importa – a quella che l’indagine ligure sul padre del presidente del Consiglio, pur essendo stata chiusa, non viene archiviata, giusto per tenere un fucile puntato alla testa del figlio. Se poi lo stesso Renzi ci mette del suo, commettendo errori di metodo e merito come ha fatto con la dilettantesca gestione delle nomine in Cassa Depositi e Prestiti, allora è sicuro che il vaso trabocchi.

Insomma, ahinoi, tutto congiura perché l’estate sia molto calda non solo dal punto di vista meteorologico. La sensazione è che si sia aperta una fase di tribolato passaggio verso non si sa bene cosa, e per di più priva di quella valvola di sfogo (quanto era utile!) che nella Prima Repubblica erano le crisi pilotate (salvo che sia lo stesso Renzi a volerla rispolverare, ma ne dubitiamo). Assisteremo a imboscate parlamentari – una l’abbiamo già vista nella commissione affari costituzionali sulla riforma della scuola – che metteranno a rischio le riforme renziane, e più in generale la tenuta del governo al Senato. Con corollario di mercato delle vacche, che vedrà il passaggio da un partito all’altro e da un fronte all’altro, di parlamentari transumanti. Il che indebolirà Renzi e il governo – comunque, al di là del saldo finale – e darà al Paese, già abbondantemente sfiduciato, ulteriori motivi di preoccupazione e rabbia. Brutta roba.

Dunque, che si può fare per abbreviare la fase delle fibrillazioni e invertire la china? Tutto dipende da Renzi. Deve sparigliare le carte, cambiando musica – basta con la litania delle elezioni vinte e del Paese che sta decollando – e rotta, anche a costo di contraddirsi. Ritiri le (brutte) riforme istituzionali che ha messo in moto e – d’intesa con il Presidente della Repubblica – le incanali verso un’Assemblea Costituente da convocare al più presto e a cui delegare una ridefinizione dello Stato, a cominciare dalle autonomie. Poi, sempre in asse con Mattarella, provi a negoziare con la magistratura una diversa strategia di lotta alla corruzione e al malaffare, prendendo atto del clamoroso fallimento della “via giudiziaria” al risanamento morale del Paese, ormai più che ventennale. Infine, ma in realtà è la cosa da mettere al primo posto, cambi radicalmente politica economica. Prenda atto che le riforme sono servite a fermare l’emorragia del pil e dell’occupazione, ma non hanno invertito in modo significativo e stabile la tendenza. Siamo usciti dalla recessione – grazie ai fattori esterni, come il cambio, la liquidità immessa dalla Bce e il crollo del prezzo del petrolio – ma la ripresa non c’è ancora. Sono tornate le assunzioni, ma in misura marginale e solo grazie agli incentivi. Insomma, la svolta non c’è stata. Per questo, ora, occorre crearla. Con un taglio delle tasse che non si preoccupi di aumentare il deficit corrente, e con investimenti pubblici significativi, compensati da un intervento straordinario sul debito – attraverso l’uso finanziario del patrimonio pubblico – che consenta di dire all’Europa di non romperci le scatole.

Se poi tutto questo si facesse rafforzando la qualità del governo e più complessivamente della classe dirigente e dei consiglieri del principe di cui Renzi si circonda, tanto di guadagnato. Renzi ha nel fatto di essere indispensabile per assenza di alternative, che non siano i populisti di ogni risma, il suo punto di forza e di debolezza insieme. Le elezioni europee gli avevano detto che per gli italiani era un punto a favore, e su quello ha costruito la sua legittimazione e la sua forza politica. Ora quelle regionali, un anno dopo, gli hanno detto che non è più così, che usare con arroganza la percezione che gli italiani hanno che non sia avvicendabile diventa un boomerang. Per questo deve avere il coraggio di cambiare. D’altra parte, se una cosa ha dimostrato, è proprio che il coraggio non gli manca. Ora lo usi al meglio.

Catapano Giuseppe: Immigrati, Napolitano alla Ue – aberrante che lasci sola l’Italia. Ripartizione, si tratta ancora

I toni sono lontani da quelli usati durante la presidenza della Repubblica, le parole rivolte da Giorgio Napolitano alla Ue sull’emergenza immigrazione non fanno tanti giri per arrivare al nocciolo della questione. “Come si può pensare che solo perché trovano più vicina la sponda siciliana debbano essere trovate soluzioni per tutti in Italia e non nel resto d’Europa o solo in alcune parti d’Italia? E’ aberrante dal punto di vista morale e etico e come membri della comunità internazionale”, ha detto l’ex presidente della Repubblica in un’intervista ad Agorà parlando del problema dei migranti. “Io non parlo da meridionale ma da persona legata a principi etici e a codici internazionali – spiega Napolitano – perché esiste una normativa internazionale e cogente per garantire asilo alle persone che fuggono da guerra e persecuzioni, il problema dei rifugiati non si discute, bisogna dargli rifugio e come si può dire lì si, da noi no? E’ un’aberrazione”. Secondo il presidente emerito “si sono logorati i valori di solidarietà, i valori di unità nazionale: non può un qualsiasi presidente di regione dare direttive a prefetti e sindaci, c’è disordine istituzionale, si è logorata la solidarietà, abbiamo avuto una regressione di valori in buona parte dell’opinione pubblica, serve un ritorno forte di solidarietà che deve velere in italia e in Europa. Oggi tutti i paesi europei devono confrontarsi con le politiche di accoglimento e riconoscimento in casa propria dell’asilo a chi ne ha diritto”.
Ma per il ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, “bisogna lavorare per regolare la situazione. Stiamo lavorando e mi pare che la situazione si stia normalizzando”. Lo ha affermato il entrando alla settima conferenza Italia-America Latina e Caraibi riferendosi al fenomeno dell’immigrazione. Secondo il ministro “bisogna battersi in Europa per ottenere dei risultati. Ci auguriamo che i primi passi raggiunti a Berlino e in Marocco possano sfociare in un accordo. La strada è aperta ma non è semplice. Credo che ci si possa puntare”.
Anche da Gentiloni, poi, un appello alla Ue: “Il fenomeno migratorio, se regolato in modo serio – e in questo l’Italia e l’Europa devono lavorare insieme – è un fenomeno che ci può arricchire e non va presentato solo come fonte di minaccia e paura”.
intanto, i paesi dell’Unione europea che si oppongono al principio della redistribuzione obbligatoria degli immigrati dovranno scontrarsi con la determinazione della Commissione nel ribadire la sua proposta “fino all’ultima parola”, come ha ribadito anche oggi il portavoce della Commissione, e con una maggioranza di paesi, fra cui Francia e Germania, che invece sono a favore di una decisione al più presto. La discussione dei ministri degli Interni prevista per martedì prossima a Lussemburgo non sarà l’ultima occasione di confronto; i paesi baltici, quelli dell’Est, Spagna e Portogallo, secondo quanto riferisce una fonte diplomatica, martedì chiederanno che l’agenda della Commissione europea sull’immigrazione preveda che la condivisione della responsabilità sull’accoglienza sia su base volontaria. In realtà, non è previsto che una decisione formale sia presa già martedì. In quella sede, secondo quanto deciso dai capi di Stato e di governo nel vertice straordinario del 23 aprile, dopo l’ultima strage di migranti al largo delle coste libiche, i ministri degli Interni dovranno piuttosto stabilire una linea sulla proposta della Commissione, “risposta concreta e operativa” all’emergenza, che la presidenza lettone si incarica di riferire ai leader al consiglio europeo del 25 e 26 giugno. Inoltre, a meno che non si ritorni alle vecchie regole di voto che prevedono la possibilita’ di una “minoranza di blocco”, la maggioranza qualificata è comunque sicura.
Dunque, la Commissione europea continua a pensare che la sua proposta legislativa per affrontare l’emergenza immigrazione debba essere attuata “al piu’ presto” e la difenderà “fino all’ultima parola”. Lo ha detto il portavoce Margaritis Schinas, di fatto escludendo che Bruxelles abbia deciso di fare marcia indietro sull’obbligatorietà della redistribuzione di 40 mila migranti arrivati in Italia e Grecia dopo il 15 aprile. “C’è un’emergenza nel Mediterraneo che è sotto gli occhi di tutti – ha aggiunto Schinas – non dobbiamo spiegare una situazione evidente.
Aspettiamo di vedere come vanno le discussioni fra gli Stati della prossima settimana, i tempi dell’approvazione dipendono dal Consiglio”.

Catapano Giuseppe: Contenzioso tributario, Italia spaccata

Alla Commissione tributaria provinciale di Catanzaro servono 188 giorni per depositare una sentenza, che diventano addirittura oltre 213 nella commissione tributaria regionale molisana. Alla Ctp di Pavia, invece, bastano meno di 15 giorni, mentre alla Ctr valdostana poco più di 16. Circa il 10% delle sentenze totali per contenzioso tributario 2014 è stato poi depositato entro 30 giorni dall’ultima udienza; la maggioranza delle sentenze è stata invece depositata entro un mese. Questo quanto emerge dalla relazione annuale pubblicata ieri dal ministero delle finanze. Dall’analisi dei tempi e delle fasi delle controversie tributarie a livello di Ctr e Ctp, la media dei giorni intercorsi nel 2014 dalla data di celebrazione dell’ultima udienza alla data di deposito della sentenza è stata pari a 54 giorni per le province e a 61,1 giorni per le Ctr. Il 95,7% delle sentenze depositate è avvenuto nel termine dei sei mesi, mentre solo lo 0,4% ha ecceduto l’anno dopo l’ultima udienza. In ordine al tempo di processo, il periodo intercorrente tra la data di deposito della controversia presso la Commissione adita e la data di spedizione del dispositivo alle parti processuali per le Ctp è stato pari in media a 961,3 giorni (2 anni e 8 mesi) e a 729,4 giorni (2 anni) per le Ctr. Rispetto al 2013 si è riscontrato un miglioramento di 2 mesi del tempo medio del processo nel primo grado di giudizio (nel 2013 è stato di 1.043,1 giorni), mentre nel secondo grado di giudizio è rimasto pressoché invariato (a circa 730 giorni). Relativamente al secondo grado di giudizio, le più celeri in ordine al tempo di processo sono risultate la città di Pordenone (215,2 giorni) e nuovamente la Valle d’Aosta (181,6 giorni); meno rapide, Nuoro (4.802,8 giorni) e la regione Calabria (2.603,7 giorni).

Giuseppe Catapano osserva: Italia terza per spesa fondi UE

Italia terza per spesa fondi Bruxelles. Lo sostiene Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno.
“Nel corso del 2014 – spiega Bubbico – il ritmo di spesa della programmazione comunitaria 2007-2013 è aumentato, come dimostra l’avanzamento della spesa certificata al 31 dicembre 2014, con un incremento di circa 20 punti percentuali dall’inizio dell’anno, che ha consentito all’Italia di raggiungere il terzo migliore risultato dell’Unione europea”.
Bubbico quindi aggiunge che “alla scadenza del 31 dicembre 2014 il totale delle spese certificate alla Commissione europea in attuazione dei programmi cofinanziati dai Fondi strutturali ha raggiunto un importo pari a 33 miliardi di euro, corrispondente al 70,7 per cento del complesso delle risorse programmate (di cui 77,9 per cento nelle regioni dell’Obiettivo competitività e occupazione e 67,3 per cento nelle regioni della Convergenza).
Tale valore – sottolinea Bubbico – è superiore sia al target comunitario, per 1,9 miliardi di euro, sia al target nazionale fissato per monitorare l’avanzamento della spesa nel corso dell’anno (67,7 per cento). Circa un terzo dei 7,9 miliardi di euro certificati fra gennaio e dicembre 2014 era a rischio disimpegno. Per fronteggiare tale rischio, si è rafforzato l’affiancamento sul campo attraverso task force dedicate per le regioni con maggiori criticità (segnatamente Calabria, Campania e Sicilia) e da ultimo attraverso l’istituzione di una task force dedicata al rafforzamento dell’attuazione del programma operativo nazionale reti 2007-2013. Sono state, inoltre, deliberate ulteriori riduzioni del cofinanziamento nazionale in favore di azioni coerenti con quelle previste nell’ambito del Piano di azione e coesione”.
“Dei 52 programmi operativi degli Obiettivi convergenza e competitività, 49 hanno raggiunto e superato il target di spesa comunitario. Soltanto 2 programmi (il POIN attrattori culturali, naturali e turismo e il programma operativo FSE Bolzano) non hanno evitato il disimpegno automatico delle risorse, perdendo complessivamente 27,7 milioni di euro (pari allo 0,05 per cento del totale delle risorse programmate). Nell’area della Convergenza – dice ancora il rappresentante del Viminale – i programmi operativi FESR Campania e Sicilia hanno superato il target assegnato rispettivamente del 32,4 per cento e dell’11,7 per cento, con certificazioni di spesa pari a circa 2,5 miliardi di euro ciascuno; nell’area della Competitività, i programmi operativi Emilia Romagna, sia FESR sia FSE, e il programma operativo FSE Trento hanno superato il target rispettivamente del 15,7, del 13,7 e del 26,3 per cento. I risultati raggiunti in termini di spesa certificata sono confermati dalla verifica del raggiungimento dei target nazionali di certificazione, fissati a un livello progressivamente maggiore di quello comunitario. La misurazione del target nazionale conferma l’aumento del ritmo della spesa, ad esclusione, come già detto, del solo programma operativo regionale finanziato con il Fondo sociale europeo della provincia di Bolzano. Dei circa 46,7 miliardi disponibili per il ciclo di programmazione 2007-2013, rimangono da spendere, entro il 31 dicembre di quest’anno, 13,6 miliardi di euro (di cui 7,9 di risorse comunitarie, la parte residua di risorse nazionali di sponda)”.

Catapano Giuseppe informa: Immigrazione, il dibattito nelle Regioni

Riduzione dei trasferimenti regionali ai sindaci lombardi che dovessero accogliere nuovi migranti: è la promessa che il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, interpellato sui nuovi sbarchi, a margine di un evento alla Scala di Milano, ha fatto il 7 giugno. “È un fatto gravissimo – ha detto Maroni ai cronisti – io scrivo una lettera ai prefetti lombardi diffidandoli dal portare in Lombardia nuovi clandestini”. Poi l’8 giugno precisa meglio. “Farò quello che ho detto – ha spiegato Maroni – io non faccio proclami o annunci, faccio quello che ho detto”. Del tema, ha spiegato il Presidente lombardo, è stato incaricato di occuparsi l’assessore Massimo Garavaglia: “Stiamo facendo una serie di proposte. Si può fare? Certamente sì, si può fare e lo farò. Parlo dei fondi della Regione non di quelli del governo”. Alle obiezioni dei costituzionalisti sulla legittimità dell’iniziativa, Maroni si è limitato a rispondere: “Non si preoccupino”. E “se il problema è che l’Europa non prende parte alla ripartizione dei clandestini e degli immigrati, Renzi vada in Europa, picchi i pugni sul tavolo, prenda per il bavero i ministri dell’Interno dei vari paesi ottenga quello che non è riuscito a ottenere”, ha ribadito a margine dell’assemblea 2015 di Confcommercio.
L’approccio del Presidente della Lombardia è stato sostanzialmente condiviso dal presidente del veneto, Luca Zaia, secondo il quale ormai “siamo alla follia, con un governo inadeguato che sui documenti ufficiali ci invita a gestire ‘la fase acuta’ dell’immigrazione. Quando invece sappiamo tutti che non è acuta, è cronica”. Nell’intervista al “Corriere della Sera” Zaia afferma poi che per prima cosa occorre smettere “con l’illusione di poter sopportare e gestire un esodo biblico. In Veneto abbiamo 514mila immigrati regolari, pari a quasi l’undici per cento della popolazione. Di questi, 42 mila non hanno un lavoro. Insieme a Emilia Romagna e Lombardia siamo i più accoglienti. Basta”. E poi sottolinea: “il Veneto è una bomba che sta per scoppiare. Non si fidano del governatore, che è un bieco leghista? Ascoltino i prefetti convinti che non ci siano spazi per l’accoglienza, ascoltino i sindaci di sinistra che si sono dimessi per protesta. C’è una tensione sociale pazzesca. Lasciamo stare il dato economico, nella regione più turistica d’Italia che da quel settore tira fuori 17 miliardi di fatturato. Ma la gente sta capendo cosa c’è dietro alla mancanza di chiarezza del governo”.
Anche la Liguria, con il neoletto Presidente Giovanni Toti, appoggia la tesi del presidente lombardo: “l’intervento di Maroni è legittimo. La Liguria non accoglierà altri migranti come faranno Lombardia e Veneto”, ha detto Toti nel corso dell’intervista di Maria Latella su Sky. Per Toti “si tratta di un problema da risolvere a monte e invece viene scaricato a valle”.Pol il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha aggiunto che sta pensando ad “azioni disincentivanti per i Comuni liguri che non saranno coerenti con le linee regionali sull’immigrazione. Noi – precisa – siamo dell’idea che una regione come la nostra, in cui ci sono conflitti sociali molto forti e che è alle porte di una stagione estiva molto importante, non possa accogliere altri migranti. So che oggi (8 giugno) ne è arrivato un altro gruppo alla Fiera, ma noi ci dobbiamo ancora insediare e quindi non possiamo fare nulla, al momento. Anche avessimo pieni poteri, comunque, non potremmo impedire ai prefetti e ai Comuni di accogliere queste persone, se intendono farlo. In quel caso però faremo sentire la nostra voce”. Che concretamente significa, da una parte, “scrivere una lettere ufficiale al prefetto di Genova per dire che la situazione in città è troppo difficile per accogliere altri profughi”, dall’altra, mettere in atto interventi disincentivanti. Chi sposerà le linee guida della Regione in materia di immigrazione (e cioè dirà stop all’accoglienza), sottolinea Toti, “avra’ supporti e aiuti finanziari” altrimenti, continua il neo governatore, “si assumerà le proprie responsabilità”. E la città di Genova in questo frangente non viene citata certo a caso, visto che, proprio questa mattina, il presidente della Regione ha incontrato il sindaco Marco Doria. “Sui migranti- chiarisce Toti- abbiamo visioni diverse. Doria ha la legittimità di fare le sue politiche, ma io non le condivido”.
Di diverso avviso il presidente della Regione Piemonte e della Conferenza delle Regioni, SergioChiamparino, che – a margine della riunione della giunta piemontese del 9 giugno– è piuttosto categorico: “credo che il governo debba ignorare la posizione di Maroni e dare disposizione ai prefetti perché tutte le Regioni diano accoglienza ai migranti”. Già in precedenza il presidente Chiamparino aveva definito strumentali le cposizioni di Maroni ed aveva spiegato che “è sbagliato dare segnali di divisione tra le regioni proprio mentre Renzi fa battaglia in Europa perché il problema immigrazione sia affrontato in modo coordinato e unitario. La mossa di Maroni – ha ribadito Chiamparino – è strumentale per mettere insieme vecchi e nuovi presidenti di Regione di centrodestra. Maroni sa benissimo che la sua posizione è illegittima ed è attaccabile dal punto di vista politico”. Questo “perché – ha spiegato ancora Chiamparino – se il governo facesse come vuole fare lui, taglierebbe i fondi alla Regione Lombardia perché disattende ad un accordo tra le regioni e il governo dell’agosto 2014, quando decidemmo di farci carico tutti, in modo equilibrato, di chi arriva in Italia fuggendo da fame e guerra”. In generale secondo Chiamparino a regime “bisognerebbe puntare a organizzare centri di primissima accoglienza nei paesi da cui queste persone partono, poi corridoi umanitari che consentano loro di scappare da fame e guerra, sottraendo i loro viaggi al traffico illecito degli scafisti”. E ha concluso “mi colpisce che ci sia chi fa politica sulla pelle di migliaia di persone che scappano dalla fame e dalla paura”.
Una linea sposata dal Presidente dell’Emilia-Romagna: è chiaro che “le regioni non possono farsi carico dell’accoglienza di tutti gli immigrati che scappano dal proprio paese attraversando il Mediterraneo, per questo serve una discussione con il governo” chiede il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che però giudica “populista” la reazione del collega della Lombardia, Roberto Maroni, deciso a tagliare i fondi ai sindaci che non respingono gli stranieri. “Sono stupito. Il presidente della più grande regione  italiana. Uno che è stato ministro degli Interni. Sono colpito che su un problema così serio anzi drammatico si riduca tutto a un tweet estemporaneo. Come se temi di questa portata si potessero risolvere in maniera così populista”, ha detto Bonaccini in un’intervista al Resto del Carlino. ”Sono il primo a dire che non possiamo  accogliere tutti. E nemmeno possono essere solo alcune regioni, compresa la mia, a doversi prendere il carico principale – ha aggiunto -. Proprio per questo serve una discussione seria tra le Regioni e il Governo. Renzi ha fatto bene a porre direttamente la questione alla Ue. L’Italia non può farsi carico da sola del problema”. Ma “se ogni paese europeo rispondesse che tocca a qualcun altro, allora saremmo nella condizione di non avere alcun aiuto”. Quindi “evitiamo demagogia e populismo. Affrontiamo il problema, sosteniamo tutti insieme il Governo pretendendo che i carichi vengano distribuiti in Europa. In contemporanea, aiutiamo quei disperati a trovare un futuro anche nel loro Paese”.
Il presidente della Regione Toscana ,Enrico Rossi, ha detto che è necessario “riconoscere alle Regioni, in modo chiaro e formale, un ruolo nella gestione dell’accoglienza dei migranti, a supporto di enti locali e prefetture, ma soprattutto in una logica di condivisione nazionale del problema”. “L’ultimo colpo che si può assestare alle Regioni è quello di pensarle come staterelli che possono fare come credono, ognuno per suo conto – sottolinea Rossi, richiamando proprio le affermazioni del presidente della Regione Lombardia – In questo modo si possono dividere solo le coscienze, senza risolvere i problemi, anzi, se possibile riuscendo persino ad aggravarli. Ed è questo che si ottiene alzano le barricate, magare per raccogliere qualche voto. A tutto questo bisogna rispondere con i valori dell’unità nazionale e di una reale solidarietà nei confronti di chi arriva ma anche d chi deve ricevere”. “Per questo, in un quadro di condivisione nazionale, la Toscana è disposta a fare la sua parte – aggiunge il presidente – per questo, anzi, chiediamo che il governo chiarisca il ruolo che i governi regionali possono svolgere, per sostenere e coordinare l’azione degli enti locali e delle prefetture. Quanto al modello toscano, ha funzionato e sta funzionando, a fronte dei poco più di 3 mila migranti che stiamo accogliendo, perché questi, non altri, sono i numeri che ci si trova di fronte. E se ci si chiede fino a che punto, e per quali cifre, potrà ancora funzionare: la risposta è semplice: i margini sono ancora ampi e prima di scegliere altre strade, da individuare certamente a livello nazionale, dovremo essere in grado di sfruttarne tutte le potenzialità”. E proprio il ruolo delle Regioni nella gestione dell’accoglienza è al centro anche di una lettera che il presidente della Regione invierà in giornata al ministro dell’interno.
Le posizioni di Maroni e di alcuni amministratori del nord Italia sono “irresponsabili e inaccettabili”. Lo ha dichiarato il presidente della regione Calabria Mario Oliverio in una intervista al Tg3. “Un paese civile -ha aggiunto- non può non avere rispetto per i tanti diseredati, bambini e disperati che arrivano sulle nostre coste”. Il Presidente ha richiamato l’esigenza di una politica europea adeguata. “L’Europa deve fare un passo in avanti, ancora non ci siamo. Occorre intervenire per bloccare le partenze all’origine”. L’idea di Oliverio è una politica europea “che spalmi l’accoglienza su tutto il continente”. Tornando alle esternazioni di Maroni, il presidente della regione Calabria ha attaccato: “Con il populismo e la demagogia non solo non si risolvono problemi ma si rende anche un pessimo servizio ai cittadini che si rappresentano”. Infine, Oliverio ha auspicato che gli amministratori locali siano sempre messi in condizione di fare accoglienza.
Il presidente della Valle d’Aosta, Augusto Rollandin, ricorda di aver “appena fatto un bando per le società di gestione per l’accoglienza di immigrati”. Riguardo alle dichiarazioni di Maroni, Rollandin non ha voluto fare commenti: “sono posizioni sue”, si limita a dire. “Noi abbiamo appena fatto un bando per far sì che le società interessate all’accoglienza di immigrati lo facciano”, sottolinea Rollandin facendo riferimento a un’ospitalità dai “50 ai 72 posti”.
Anche il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, è nettamente in disaccordo con le posizioni delle tre regioni del nord. “Mi pare troppo semplice, oltre che politicamente cinica, la posizione assunta in queste ore dai presidenti di Lombardia, Veneto e Liguria che dicono ‘no’ all’accoglienza dei migranti che fuggono dai paesi in guerra del Nord Africa”. “Annunciare ritorsioni contro i Comuni che accolgono migranti, come ha fatto il Presidente della Lombardia – ha aggiunto Pittella, attraverso il suo portavoce – non solo è illegittimo, ma è moralmente riprovevole. Tanto più se questi annunci rispondono, come è palesemente evidente, ad un richiamo politico del segretario nazionale della Lega Nord, a sua volta ossessionato da un rigurgito razzista senza precedenti nella storia recente dell’Italia repubblicana. Reputo poi gravissimo che queste dichiarazioni siano state rilasciate nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, sta portando avanti in sede europea una battaglia non semplice, e tutta ancora da vincere, per evitare che l’Italia sia lasciata sola ad affrontare l’emergenza migranti”. Nel dirsi “certo che nessun presidente di Regione del Mezzogiorno avrebbe utilizzato i toni cui ha fatto ricorso Maroni”, Pittella ha detto che “vi sono momenti nei quali l’interesse nazionale dovrebbe prevalere su tutto. E credo che, come correttamente evidenziato dal presidente Chiamparino, la Conferenza delle Regioni saprà dare in questa direzione un segnale politicamente forte ed ineludibile, di cui tutti i presidenti dovranno tener conto”.
“I numeri parlano chiaro, e la Lombardia ha oggi il 40 per cento di richiedenti asilo in meno rispetto alla quota che Maroni ha concordato in sede di Conferenza delle Regioni”. La replica alle dichiarazioni rilasciate dal presidente della Lombardia Roberto Maroni arriva dalla presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani. “La Regione Lombardia da lui presieduta – ricorda Serracchiani – ha firmato nel luglio del 2014 l’accordo in Conferenza delle Regioni sui criteri di distribuzione dei richiedenti asilo sul territorio nazionale. Quell’accordo prevede che la distribuzione non avvenga sulla base del numero degli abitanti (la Lombardia ha il 16,5 per cento degli abitanti della Repubblica, 10 milioni su 60,7) ma sulla base di parametri corretti proprio su richiesta della Lombardia, che hanno permesso di abbassare la sua quota al 14,15 per cento del totale”. “Maroni dice oggi – osserva la presidente del Friuli Venezia Giulia – che ne hanno quasi il 9 per cento. Bene, hanno cioè quasi il 40 per cento in meno rispetto a quelli che hanno concordato di accogliere (14,15 meno il 40 per cento fa appunto 8,49). Sui numeri, insomma, mi pare che lui sia d’accordo con me”. “Da Ministro dell’Interno – osserva infine Serracchiani – Maroni ha evitato a lungo di accodarsi alla propaganda salviniana sui richiedenti asilo, ma ora si sente all’angolo nel suo partito, insidiato dalla crescente leadership di Salvini. Di qui la sua uscita, con cui dimostra semplicemente che da tempo non si occupa del problema”.
Secondo l’assessore al bilancio della Lombardia e coordinatore della commissione affari finanziari della Conferenza delle Regioni, Massimo Garavaglia, siamo di fronte ad “una polemica surreale, perché l’intesa del 2014 sull’allocazione dei migranti non vale più. Quell’accordo prevedeva una revisione nel 2015 basata sulle risorse stanziate nella legge di stabilità e sulla quantità dei nuovi arrivi, tant’é che su questo punto specifico io e il presidente Anci Piero Fassino abbiamo sollecitato il governo, in sede di Conferenza Stato-Regioni, e nulla ci è stato detto”
Il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, a proposito della questione immigrazione, a margine di una conferenza stampa a Pescara, e riferendosi sempre alle polemiche di questi giorni, ha affermato “Siamo una Regione che fa parte dell’Italia ordinamento, dell’Italia Paese, dell’Italia società. Noi faremo la nostra parte, naturalmente vogliamo che anche l’Europa cominci a far percepire la sua esistenza, la sua forza e anche la sua funzione”.
“La Lega di Maroni e Salvini continua a scaricare su altri i problemi legati all’immigrazione. La ventilata minaccia del governatore della Lombardia di ridurre i trasferimenti ai comuni che accolgono i migranti è totalmente anti-costituzionale e quindi inefficace”. A sostenerlo è il Presidente della Sicilia, Rosario Crocetta. “Maroni sa benissimo che i migranti non possono essere rigettati in mare e sa benissimo che le coste interessate agli approdi sono quelle della Sicilia e delle regioni del Sud che non possono rifiutarsi di accoglierli – aggiunge – In ogni caso, dietro il pensiero di Maroni e della Lega c’è ancora una volta l’idea di penalizzare il Mezzogiorno che dovrebbe gestire l’accoglienza con i propri centri che sono pieni. Altro che visione nazionale, la Lega continua a dimostrare di poggiarsi su logiche antimeridionaliste”. Per Crocetta “il problema dell’immigrazione va risolto a monte con quote di profughi programmate”. “Tutte le regioni d’Italia e tutti i Paesi dell’Ue hanno il dovere di condividere l’accoglienza dividendosi le quote – conclude Crocetta – Questa è l’unica linea possibile, il resto è antimeridionalismo e xenofobia”.