Giuseppe Catapano informa: Anatocismo sugli interessi della banca, il punto della situazione

La questione dell’anatocismo che le banche hanno applicato per anni, e continuano illegittimamente ad applicare, sui conti correnti, prosciugandoli, ha conosciuto, negli ultimi due anni, un importante inversione di tendenza. È necessario, quindi, fare il punto della situazione perché mai come ora si può dire che la pratica di calcolare la percentuale degli interessi, non solo sul capitale finanziato, ma anche sugli interessi già maturati in precedenza (moltiplicandone quindi gli importi a tutto vantaggio della banca) è definitivamente illegittima e fuorilegge.

Cos’è l’anatocismo?
Per effetto dell’anatocismo, gli interessi scaduti si aggiungono al capitale, originando, così, ulteriori interessi. Per questo si parla anche di “capitalizzazione degli interessi”, in quanto gli interessi producono altri interessi.
In mancanza di usi normativi contrari, però, l’anatocismo è illegittimo perché così stabilito dal codice civile. In ambito bancario la Cassazione ha ritenuto che tali usi non sussistano, ma ne aveva salvato, in passato, la legittimità tutte le volte in cui la capitalizzazione degli interessi avesse riguardato non solo gli interessi passivi (quelli debitori), ma anche quelli attivi (cioè a favore del correntista).

Cosa è successo il 1° gennaio 2014? Il Governo contro l’anatocismo
La legge di Stabilità per il 2014 aveva dichiarato definitivamente abolito l’anatocismo bancario. Tuttavia aveva subordinato l’attuazione di questa norma all’emanazione di una delibera attuativa del CICR (il Comitato interministeriale di credito e risparmio). Neanche a dirlo, questa delibera non è mai intervenuta.

Cosa è successo il 25 marzo 2015? Il tribunale di Milano contro l’anatocismo
Il Tribunale di Milano ha ritenuto l’anatocismo fuorilegge già a partire dal 1° gennaio 2014, nonostante la delibera del CICR non sia stata emanata. E questo perché, secondo i giudici del capoluogo lombardo, la norma è già sufficientemente chiara e specifica da non necessitare di ulteriori dettagli per poter essere applicata ai correntisti.

La decisione è suonata come uno scossone per il mondo bancario: inevitabili le prime richieste di rimborso da parte dei correntisti.

Cosa è successo il 6 maggio 2015? La Cassazione contro l’anatocismo
A rincarare la dose è stata anche la Cassazione che ha stabilito, neanche un mese dopo, che l’anatocismo sarebbe illegittimo non solo quando applicato trimestralmente, ma anche annualmente: una decisione storica, perché in controtendenza rispetto a quanto essa stessa aveva in precedenza affermato.

Abbiamo quindi spiegato, in una precedente guida, cosa deve fare il correntista e cosa deve richiedere al giudice, con quali documenti.

Cosa è successo il 7 maggio 2015? Di nuovo la Cassazione contro l’anatocismo
Non paga di quanto aveva fatto solo un giorno prima, la Cassazione ha poi chiarito che la nullità dell’anatocismo – ivi compreso quello calcolato su base annuale – può essere rilevata d’ufficio, ossia direttamente dal giudice, a prescindere da eventuali eccezioni di parte. Il che ha riaperto le porte a una serie di giudizi già consumati in primo grado per i quali, quindi, in appello (salvo decorrenza dei termini) i calcoli potrebbero essere ulteriormente rivisti in favore del clienti.

Com’è oggi?
Dunque, oggi, dalla miscela di norme e sentenze che si sono susseguite dopo il 2014, è legittimo affermare che l’anatocismo è definitivamente fuorilegge: a prescindere dall’emanazione dei regolamenti di attuazione del CICR, a prescindere che si tratti di capitalizzazione trimestrale o annuale.

Tale convincimento era apparso già chiaro all’indomani della legge di stabilità per il 2014.
Infatti, si preannunciava che le Banche avrebbero dovuto modificare, una volta per tutte, le loro procedure di calcolo degli interessi in modo tale da evitare qualsiasi forma di anatocismo.

Nella vigente norma del testo unico bancario si prevede che “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.
Ma, secondo i giudici di Milano, al di là della mancata adozione della relativa delibera da parte del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, il sistema bancario dovrà restituire, a tutti i correntisti, gli interessi addebitati in modo illegittimo a fare data dal 1° gennaio 2014.

Insomma, da oggi le banche saranno chiamate a una contabilità molto più attenta del conto corrente e della restituzione del finanziamento, in modo da non confondere la restituzione degli interessi con quella del capitale, evitando che i primi si cumulino ancora al secondo.

Catapano Giuseppe osserva: ANCHE UN SOLO DEBITO PUO’ SANCIRE IL FALLIMENTO DELLA SOCIETA’

Non è questione di quantità ma di qualità; un unico debito non dovrebbe fare primavera ma in questo caso si, soprattutto se i giudici di merito abbiano valutato la complessità della situazione in generale. E’ la soluzione che la suprema corte di Cassazione affibbia al nostro caso in tema di presupposto oggettivo del fallimento. La società ricorrente poneva in dubbio l’operato dei giudici di merito in quanto esso si basava, a dire del ricorrente, addirittura su un solo debito non definitivo e su di una prospettiva economico patrimoniale ben diversa da quella che poteva essere addossata ad un’impresa insolvente. Di diverso avviso i giudici supremi che analizzando la questione fanno salvo l’operato dei giudizi precedenti condannando alle spese i ricorrenti.

Catapano Giuseppe osserva: Fotocopia pass invalidi, non è reato

Non costituisce reato di contraffazione l’esporre, sul lunotto della propria auto, la fotocopia a colori del pass per invalidi. Lo ha messo nero su bianco la Cassazione con una sentenza pubblicata qualche ora fa. Così, per esempio, chi esibisce sulla propria vettura la fotocopia a colori di un permesso per invalidi, in modo da consentire all’anziano genitore l’accesso alla zona a traffico limitato (ZTL), non può subire il procedimento penale perché – scrive la Corte – “il fatto non costituisce reato”.

In verità la questione è stata da sempre molto dibattuta e non tutti i giudici sono d’accordo. Anche la stessa Cassazione si è pronunciata in modi diversi in più occasioni. Solo lo scorso anno i giudici supremi avevano detto che è contraffazione l’uso della fotocopia del permesso per invalidi anche nel caso in cui l’auto corrispondente non sia poi utilizzata. In quell’occasione, era stato detto che integra l’illecito la condotta di falsificazione di copie che sostituiscono gli originali qualora il relativo documento abbia l’apparenza dell’originale e sia utilizzato come tale.

La Corte oggi, più che ripensarci, ha precisato un importante aspetto, utile per comprendere meglio i termini della questione: non è tanto la fotocopia del pass a costituire reato ma la falsificazione dell’attestazione di autenticità. Dunque, la fotocopia di un documento originale, se priva di qualsiasi attestazione che ne confermi la sua originalità, non integra alcun falso documentale. Potrebbe, al massimo, ricorrere la truffa, ma solo qualora venisse riscontrata l’attitudine della fotocopia a trarre in inganno terzi. Invece, se l’utilizzatore della copia è, a tutti gli effetti, anche titolare del pass originale non può parlarsi di alcuna truffa.

Come detto, dunque, non è punito l’utilizzo della fotocopia del contrassegno, ma la falsificazione dell’attestazione di autenticità. Se, invece, quest’ultima non viene riprodotta sulla fotocopia, sicché è chiaro che il “clone” è destinato ad apparire tale e non a far credere che si tratti dell’originale, non scatta il delitto di falsità materiale. In tali casi, infatti, la copia, pur avendo la funzione di assumere l’apparenza dell’originale, mantiene tuttavia la sua natura di semplice riproduzione meccanica e non può acquisire una valenza probatoria equiparabile a quella del documento originale, se non attraverso l’attestazione di conformità legalmente appostavi.

Giuseppe Catapano scrive: OMESSO VERSAMENTO DI IMPOSTE: SOTTO ACCUSA LA SOCIETÀ. CARTELLA LEGITTIMA ANCHE PER LA SOCIA CHE, AD ANNO IN CORSO, HA CEDUTO LE PROPRIE QUOTE

“Omesso versamento di imposte”: questa la contestazione nei confronti della società. A essere chiamati in causa, però, sono anche i soci, con relative “cartelle”.
Per una socia, però, i giudici tributari regionali ritengono corretto annullare una singola “cartella”, relativa all’anno 1999, perché essa concerneva “un periodo temporale” in cui la donna “non ricopriva più” il ruolo di componente della compagine societaria.
Tale visione, però, è ritenuta eccessiva dai giudici della Cassazione, i quali, di conseguenza, considerazioni illegittimo l’azzeramento della “cartella”. Ciò innanzitutto perché, alla luce della “disciplina in tema di responsabilità dei soci per debiti della società”, deve “escludersi che la donna fosse esonerata dalla responsabilità per il periodo durante il quale, nell’anno 1999” ella “ricopriva ancora la qualità di socia”.
Allo stesso tempo, va evidenziato che “la Commissione tributaria regionale è partita dal presupposto che le somme portate dalla cartella per l’anno 1999 si riferissero all’intera annualità e non al periodo durante il quale la donna era stata socia”, mentre l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto “di avere indicato nel corso del giudizio i documenti dai quali risultava che la cartella impugnata aveva riguardato unicamente il periodo” dell’anno in cui la donna “era stata socia”.
Peraltro, aggiungono i giudici in conclusione, una volta acclarata “la circostanza che la cartella” è stata “ridotta nell’importo rispetto alla maggiore pretesa relativa all’anno 1999, correlata alla partecipazione societaria della contribuente”, il giudice di merito avrebbe comunque dovuto “rideterminare la pretesa fiscale nella parte ritenuta dovuta”, senza poter optare per “l’annullamento dell’intera cartella”, dovendo il giudice “dichiarare l’inefficacia della cartella soltanto in relazione alle somme non dovute”.
Tutto ciò conduce i giudici della Cassazione a tenere aperta la vicenda giudiziaria, affidandola nuovamente alle valutazioni dei componenti della Commissione tributaria regionale.