Giuseppe Catapano informa: RENZI IN STILE CAMERON? PRO E CONTRO IN VISTA DI ELEZIONI CHE SARANNO UN ESAME SEVERO PER IL GOVERNO

Si è diffusa l’idea che quattro milioni di pensionati in ansia per le conseguenze della sentenza della Consulta sulla legge Fornero, che gli insegnanti e gli studenti scioperanti per la riforma della scuola, che i dipendenti pubblici sul piede di guerra, e che i disillusi di Renzi – fans della prima ora, via via andati perdendo fiducia – siano complessivamente un numero tale da poter tirare un brutto scherzo al presidente del Consiglio in occasione delle elezioni regionali che si terranno fra due settimane. Non sappiamo francamente se sia davvero così, e comunque ci sottraiamo come sempre alla lotteria dei sondaggi e delle previsioni. Notiamo però alcune cose. Alcune a favore di Renzi. Primo: è fisiologico perdere consenso in corso d’opera; anzi, più se ne perde più può essere il segnale che si stanno prendendo decisioni – giuste o sbagliate che siano – senza l’ansia di voler accontentare tutti e piacere a tutti. Secondo: Renzi ha scientemente spaccato il Pd, per trasformarlo in qualcosa che fosse libero dai condizionamenti vetero-comunisti di una parte della “vecchia ditta” e vetero-cattocomunisti di quella che una volta era la sinistra DC più ideologica. Se pagasse un prezzo elettorale a sinistra sarebbe normale – e, immaginiamo, calcolato – e comunque andrà verificato quanto questa operazione gli consente di recuperare al centro, nel corpaccione maggioritario dell’elettorato moderato. Se anche fosse che si becca il 30% anziché il quasi 41% delle europee, risulterebbe pur sempre il primo partito e sarebbe molto più libero politicamente. Dunque, nel caso, il gioco sarebbe valsa la candela. Terzo: i nemici di Renzi, pur essendoci molti motivi buoni per criticarlo, continuano invece a usare argomenti logori (“va troppo veloce”), esagerati (“l’Italicum cancella la democrazia”) e conservativo-corporativi (“no ai presidi sceriffo nelle scuole”), mostrando di non avere alcun progetto riformatore alternativo. Così, alla fine, anche chi non è del tutto convinto dell’azione del governo e trova urticanti certi modi e toni di Renzi, finisce per votarlo, aiutato dal sempre più gettonato concetto che “non c’è alternativa”.

È pur vero, però, che a sfavore del presidente del Consiglio militano altri argomenti. Primo: se ricevi una scomoda eredità come il “caso pensioni” non puoi rispondere, come ha fatto Renzi, “ci inventeremo qualcosa”. Secondo: se vuoi introdurre la meritocrazia nella scuola (sacrosanto intendimento) non puoi mettere sul piatto l’assunzione di 160 mila precari, orrenda toppa a un buco pluriennale, e per di più beccarti i sindacati che ti spernacchiano. Su questo tema condividiamo il giudizio, sereno ma tagliente, di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, secondo cui l’operazione precari “avrà effetti molto negativi, abbassando la qualità della scuola e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire, perché senza una preventiva analisi dei profili necessari si adotta la logica assumiamo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare”. Terzo: è inutile ostinarsi a declamare che l’economia ha svoltato, perché non è vero e chi lo constata quotidianamente si irrita a sentirselo dire. E noi, che non temiamo di passare per gufi (ci siamo abituati), azzardiamo persino di dire che i nostri fondamentali economici sono ancora con i piedi ben piantati nella recessione. Si pensi solo a questo: abbiamo fatto nel primo trimestre +0,3%, abbiamo messo in cascina su base annua due decimi di punto, tutte le stime (ultima quella di S&P) ci dicono che chiuderemo il 2015 a +0,4% e la massima ambizione è di smentire queste nefaste ipotesi confermando la previsione del governo di +0,7%. Risultati modesti in assoluto, ma che diventano negativi se si considera che sono stati e saranno conseguiti in un contesto favorevole senza precedenti (tassi, cambio, prezzo del petrolio, liquidità Bce), senza il quale saremmo ancora con il segno meno davanti. Quarto: il decisionismo di Renzi in materia di legge elettorale e riforme istituzionali non paga. Non perché gli italiani che nel merito ha smontato sia l’Italicum che il nuovo Senato, ma perché – a torto, sia chiaro – non considerano prioritario il tema.

Dunque, vedremo cosa uscirà dalle urne. Una cosa è certa: Renzi ha commesso l’errore – che gli deriva da quello di voler essere anche il segretario del Pd – di politicizzare l’appuntamento elettorale. Lo fece con le europee, gli ha detto bene e ci ha campato sopra per un anno, ma ora potrebbe anche doversene pentire. In tutti i casi sgombriamo preventivamente il campo da paralleli impropri: la vittoria di Cameron e l’Italicum di Renzi. Si è scritto che i Tory hanno vinto le elezioni con il 36% dei voti, e nessuno ha gridato allo scandalo. Ma lo storico maggioritario inglese non ha nulla da spartire con l’Italicum, e i candidati conservatori (tutti scelti dagli elettori) hanno conquistato 330 collegi uninominali, e se Cameron non disponesse della maggioranza assoluta, adesso sarebbe al lavoro per formare un governo di coalizione, senza dover ricorrere al ballottaggio tra le prime due liste. Detto questo, rimaniamo dell’idea che un sistema, il first-past-the-post, in cui un partito (Ukip) che prende quasi quattro milioni di voti pari al 12,6% e porta a casa un solo seggio mentre un altro (lo Snp) ne ottiene 56 con solo il 4,7%, sia a dir poco bizzarro, e comunque non rispondente al dna italiano. Una cosa, invece, è vera e non si è detta: il pragmatismo a-ideologico di Renzi – a volte usato bene, altre male, ma questo è un altro discorso – lo rende molto più somigliante a Cameron che ai laburisti. E non solo a quelli un po’ radicali di Miliband, ma anche a quelli riformisti di Blair. E questo elemento di genetica politica vedrete che, dopo le regionali, terrà banco. Ma ci torneremo a giugno, quando il quadro politico sarà costretto a fare i conti con il risultato elettorale.

Giuseppe Catapano: Posso rateizzare una sola cartella di Equitalia?

In presenza di un debito con Equitalia costituito da più cartelle esattoriali, il contribuente ha il diritto di ottenere la rateazione di una o più specifiche cartelle, lasciando fuori le altre. Insomma, la richiesta al concessionario può riguardare anche una sola cartella e non l’intero debito. Non vale più, quindi, il principio (applicato in passato) “o tutto o niente”. Lo si evince dal nuovo fac simile di richiesta di rateazione scaricabile dal sito internet di Equitalia. Tale possibilità vale per tutti i tipi di debito: sia per quelli di importo inferiore a 50 mila euro che per quelli superiori. Ovviamente, se è vero che l’istanza di rateazione sospende l’esecuzione forzata di Equitalia già incorso e impedisce quelle future, ciò vale solo per le cartelle incluse nel piano di dilazione, mentre per le altre per le quali sussiste ancora la morosità, l’Agente per la riscossione resta libero di attivare tutti gli strumenti a sua tutela (dal fermo all’ipoteca, dal pignoramento alla vendita forzata). Cosa cambia? In passato la condizione necessaria affinché il contribuente potesse essere ammesso alla rateazione, da parte di Equitalia, era quella di includere, nel programma di dilazione (e quindi di pagare), l’intero debito, ossia tutte le cartelle e/o gli atti di accertamento esecutivi e/o gli avvisi di addebito Inps. Oggi invece, il cittadino, al momento della richiesta di dilazione presso Equitalia, può autonomamente decidere quali cartelle, atti di accertamento esecutivo o avvisi di addebito Inps dilazionare, senza perciò voler pagare gli altri. Equitalia non potrà rifiutare più tale opzione. I vantaggi Il primo e più evidente vantaggio è quello di evitare l’ipoteca sulla casa (anche la prima). Quest’ultima, infatti, può essere iscritta solo per debiti superiori a 20.000 euro; pertanto se il contribuente che abbia maturato una morosità superiore a tale tetto accetta di rateizzare anche una sola cartella, potrà far scendere la soglia del debito e quindi impedire così la misura cautelare. Stesso discorso per il caso di pignoramento immobiliare e messa all’asta della casa che scatta superato un debito di 120mila euro: con la rateazione di solo alcune cartelle, il contribuente può mettere al riparto l’immobile di proprietà. Il secondo evidente vantaggio è che, così, si potrà ottenere più facilmente la rateazione. Infatti, ricordiamo che per debiti superiori a 50.000 euro la rateazione non spetta di diritto, ma è subordinata alla verifica della particolare difficoltà economica (l’Isee del nucleo familiare, se la richiesta è presentata da persona fisica o ditta individuale; altri indici di bilancio nel caso di società). Da oggi, però, con questa nuova possibilità, il contribuente con debito superiore a 50mila euro e che non abbia i requisiti per ottenere la dilazione (perché non riesce a dimostrare la particolare difficoltà economica), potrà comunque ottenerla in via automatica optando di pagare cartelle per un importo complessivo inferiore a 50mila euro. Come chiedere la rateazione Per importi da rateizzare fino a 50mila euro relativi anche a una o più cartelle è possibile collegarsi al sito di Equitalia e trasmettere la richiesta di dilazione. La stessa richiesta può essere presentata anche inviando una raccomandata a.r. all’Esattore. In tal caso, sarà possibile pagare l’importo dovuto fino a un massimo di 72 rate mensili (ossia fino a un massimo di sei anni). L’importo minimo di ogni rata è pari a 100 euro, salvo situazioni di particolare difficoltà. Si decade dalla dilazione in caso di mancato pagamento di otto rate anche non consecutive. Per le istanze di importi superiori a 50mila euro, invece, è necessario sempre recarsi allo sportello.

Giuseppe Catapano informa: Modifiche legislative e interventi giurisprudenziali in materia di transazione fiscale e crisi da sovraindebitamento

Pronti tutti i chiarimenti dell’Agenzia in tema di transazione fiscale. Con la circolare n. 19/E, del 6 maggio 2015, le Entrate forniscono istruzioni in seguito alle modifiche normative e agli ultimi indirizzi della giurisprudenza costituzionale e di Cassazione. In particolare, il documento di prassi chiarisce che il concordato preventivo con falcidia o dilazione dei debiti tributari è ammissibile anche se non è stata presentata la domanda di transazione fiscale e sottolinea l’intangibilità del credito Iva e del credito per le ritenute operate e non versate. Ampio focus anche sulla disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento, riferita ai soggetti esclusi dall’applicazione degli istituti disciplinati dalla legge fallimentare.

L’assenza della domanda di transazione non ferma il concordato

La presentazione della domanda di transazione fiscale non costituisce un obbligo per il debitore che, nell’ambito del concordato preventivo, chiede la falcidia o la dilazione dei debiti tributari. Il concordato preventivo con falcidia o dilazione è quindi ammissibile anche in assenza di domanda di transazione fiscale. In questo caso, tuttavia, l’omologazione del concordato non comporta l’effetto di consolidamento del debito tributario proprio della transazione. La circolare sottolinea inoltre che il debito tributario relativo all’Iva può essere solo oggetto di dilazione e non di falcidia: una precisazione che vale anche per le ritenute operate e non versate.

Crisi da sovraindebitamento a tre vie

Ampio spazio è dedicato alle procedure previste dalla Legge 3/2012, volte a gestire le situazioni di crisi che riguardano soggetti esclusi dall’applicazione degli istituti disciplinati dalla legge fallimentare:
· accordo di composizione della crisi;
· piano del consumatore;
· liquidazione dei beni.
Tra i debiti risanabili rientrano anche quelli di natura fiscale, fermo restando che per l’IVA e per le ritenute è possibile la sola dilazione del pagamento. Agli uffici, infine, viene richiesto di liquidare i tributi risultanti dalle dichiarazioni, di notificare gli avvisi di accertamento e di predisporre la certificazione attestante il debito tributario complessivo nel più breve tempo possibile.

Catapano Giuseppe informa: Pensioni rimborsi. Domande e risposte: ricalcoli, tasse, eredi, ricorsi

Per il recupero sugli assegni pensionistici tagliati dal blocco delle rivalutazioni non serve fare ricorso. La sentenza della Corte Costituzionale è subito efficace e cancella gli anni precedenti. Sono tante le domande cui i 5,5 milioni pensionati coinvolti (quelli intorno o sopra i 1500 euro lordi) vorrebbero dare una risposta: dal ricalcolo delle prestazioni alla tassazione da applicare.
L’effetto cascata impone il ricalcolo per il periodo 2012 2015
Gli arretrati che verranno riconosciuti ai pensionati titolari di assegni superiori a tre volte il minimo riguarderanno solo il 2012 e il 2013? L’Inps dovrà provvedere all’erogazione di importi differenziali di trattamento, in modo da ripristinare l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche. Tuttavia l’adeguamento o “riadeguamento” all’incremento del costo della vita dei trattamenti pensionistici illegittimamente compressi, e quindi la rideterminazione delle quote di pensione da corrispondere ai titolari delle pensioni interessate dal blocco poi dichiarato illegittimo riguarda non solo il 2012 e il 2013 ma anche gli anni successivi, stante l’effetto “a cascata” prodotto dallo stop biennale.
In passato gli importi sono stati restituiti in più anni
È vero che la restituzione potrebbe avvenire in tempi lunghi, anche nell’arco di più di un anno? Il riferimento più immediato a questo riguardo è costituito dal contributo di solidarietà introdotto dal decreto legge 98/2011 per il periodo agosto 2011-dicembre 2014 e poi bocciato dalla Corte costituzionale con la sentenza 116 di giugno 2013. A fronte di tale decisione, l’Inps comunicò a luglio, con il messaggio 11243/2013 che da tale mese o da agosto (in base alla gestione di riferimento) sarebbero stati adeguati gli importi della pensione e sarebbe stato restituito in un’unica soluzione quanto trattenuto nell’arco dello stesso 2013. Il rimborso del periodo agosto-dicembre 2011, invece, avvenne nel mese di febbraio 2014, dopo che la legge di stabilità 2014 aveva individuato le risorse necessarie. Infine, gli importi del prelievo di solidarietà relativi al 2012 sono stati restituiti nel mese di febbraio 2015. Dunque in quella occasione i pensionati hanno ricevuto il rimborso in tre tranche e con un posticipo fino a due anni.
Tassazione ordinaria o separata in base all’anno di riferimento.
Come saranno tassati gli arretrati derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale 70/2015? In base all’articolo 17, comma 1, lettera b della legge 917/1986 (Testo unico delle imposte sui redditi) gli emolumenti arretrati (anche se si tratta di pensioni) riferibili ad anni precedenti e percepiti per effetto di sentenze sono soggetti all’imposta separata. Quindi si ritiene che gli eventuali arretrati che saranno corrisposti ai pensionati, per effetto del riconoscimento dell’adeguamento all’inflazione ora per allora, saranno assoggettati a tassazione separata. Infatti non è dipeso dalla volontà delle parti bensì da una sentenza. Ciò porterà un vantaggio fiscale in capo ai pensionati che percepiscono importi più elevati, poiché pagheranno l’aliquota media (in luogo dell’aliquota marginale) e non subiranno il prelievo a titolo di addizionale regionale e comunale. Invece le somme di competenza dello stesso anno in cui sono rimborsate saranno assoggettate alla tassazione ordinaria. Quindi, per esempio, se tutti gli importi dovessero essere restituiti quest’anno, quelli relativi al 2015 saranno assoggettati alla tassazione ordinaria e quelli del 2012-2014 alla tassazione separata. La stessa situazione in effetti si è verificata in occasione della restituzione del contributo di solidarietà per gli anni 2011-2013. Alla tranche del 2013 restituita quell’anno è stata applicata la tassazione ordinaria. Alle tranche relative al 2011 e al 2012, rimborsate rispettivamente nel 2011 e nel 2015 si è applicata la tassazione separata.
Gli eredi legittimi potranno riscuotere i ratei maturati
Se il pensionato avente diritto all’arretrato è deceduto, chi riscuoterà l’assegno? Al pari di quanto accade per i ratei di tredicesima non riscossi dal pensionato defunto, gli eredi legittimi potranno riscuotere i ratei maturati per effetto dell’adeguamento all’inflazione con obbligo di presentazione della dichiarazione di successione (circolare dell’agenzia delle Entrate 53/E del 18 febbraio 2008).
L’adeguamento all’inflazione può essere intero o per fasce.
In seguito alla sentenza della Corte costituzionale ho letto due diverse modalità di riconoscimento della perequazione: la prima orizzontale e la seconda verticale. Quali sono le differenze? Il meccanismo di perequazione vigente fino al 31 dicembre 2011 e che è stato applicato l’ultima volta con i ratei pensionistici ricalcolati al 1° gennaio 2011, prevedeva un adeguamento all’inflazione sulla base delle disposizioni della legge 388/2000 (articolo 69). In particolare la norma stabiliva un riconoscimento dell’inflazione nella misura del 100% per le fasce di importo fino a tre volte il trattamento minimo, 90% per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo e del 75% per le fasce di importo superiori. A titolo esemplificativo, il titolare di una pensione pari a sei volte il trattamento minimo si vedeva riconoscere una adeguamento pieno per l’importo fino a tre volte il trattamento minimo e via via a diminuire per le fasce di importo superiori.
La perequazione quindi avveniva con un sistema a scaglioni, in modo analogo a quanto viene praticato in ambito fiscale con l’Irpef. Tale meccanismo risultava più generoso rispetto a quello introdotto successivamente dalla riforma Monti-Fornero. Infatti nel biennio 2012-2013, l’adeguamento pieno è stato riconosciuto solo per gli importi fino a tre volte il trattamento minimo mentre quelli di importo superiore hanno subito una cristallizzazione dell’importo. Nel 2014 e 2015, le leggi di stabilità hanno previsto un riconoscimento cosiddetto “verticale” cioè in funzione dell’importo pensionistico. La perequazione pertanto è stata praticata sull’intero valore nella misura prevista per il trattamento pensionistico complessivo. Sempre a titolo di esempio, a fronte di un’assegno superiore a sei volte il trattamento minimo, nel 2015 l’adeguamento all’inflazione è stato pari al 45%, per tutto il valore della pensione. Se l’assegno fosse stato compreso tra 4 e 5 volte il minimo, l’adeguamento sarebbe stato del 75%, sempre su tutto il valore.

Catapano Giuseppe osserva: Sergio Mattarella chiede svolta all’Europa “Meno austerità, no egoismo su immigrazione”

Cambiare passo sui temi caldi dell’agenda europea: la crisi economica e il suo superamento e l’emergenza dei migranti che, partendo dalle coste africane, cercano di lasciarsi alle spalle povertà e sofferenza per raggiungere in massa il Vecchio continente. Questo il messaggio che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha lanciato verso Bruxelles in occasione della Festa dell’Europa nel 65esimo della dichiarazione Schuman, che nel 1950 poneva le basi per la Comunità europea.
“Noi – dice il Presidente della Repubblica – che siamo europeisti, non ci stanchiamo di sostenere una maggiore integrazione politica dell’Europa. Serve a questo scopo un cambiamento di rotta per ridurre gli squilibri interni e rivitalizzare le energie penalizzate da eccessi di austerità”.
L’appello di Mattarella è anche a uno sforzo culturale, a limitare l’egoismo in Europa. “L’egoismo è al di fuori dai valori dell’Unione”, sostiene il Capo dello Stato. “Ci vuole meno egoismo per dare ai nostri giovani europei una prospettiva di lavoro, di vita, di relazioni sempre più intense. Meno egoismo per affrontare in modo positivo il dramma delle migrazioni. Meno egoismo per svolgere un ruolo efficace di pace in Africa e nel Medio Oriente”. Di nuovo sui temi economici: “La caduta degli investimenti nel nostro continente è stata pesante negli ultimi anni: occorre utilizzare tutte le risorse disponibili – a partire dall’attuazione e dal rafforzamento del piano Juncker – affinché l’Europa torni a essere vettore di sviluppo: uno sviluppo nuovo e sostenibile”.

Catapano Giuseppe informa: LA SENTENZA DELLA CONSULTA SULLE PENSIONI FOTOGRAFA UN QUADRO DESOLANTE DEL SISTEMA ISTITUZIONALE

Archiviamo per il momento l’Italicum. Ormai è legge, anche se alla Camera è passato con meno voti della maggioranza di governo, con tutte le opposizioni sull’aventino e con il Pd lacerato per una cinquantina di voti contrari alla fiducia. Ma ci torneremo più in là, perché quella legge è come se fosse un tavolo senza una gamba: manca la riforma costituzionale del Senato. Che ha tempi lunghi e una difficoltà non banale: deve essere votata dal Senato stesso. Ed è proprio a Palazzo Madama che la gamba mancante dell’Italicum rischia di frantumarsi, e di far cadere il tavolo. Non va dimenticato, infatti, che al Senato l’Italicum fu votato coi voti decisivi di Forza Italia, ora persi dopo l’affondamento del patto del Nazareno. Non è un caso che Renzi alla Camera abbia messo la fiducia – scelta legittima sul piano formale ma politicamente scivolosa – per evitare un qualsiasi emendamento: se l’Italicum fosse tornato in Senato, sarebbe morto.

Ma c’è tempo, ora bisogna vedere che indicazione politica uscirà dalle elezioni regionali e comunali di fine maggio. Il timore è, come ha scritto bene Davide Giacalone, che prevalga il trasformismo di aggregazioni spurie – di cui quella della lista capeggiata da De Luca in Campania è un perfetto prototipo – buone per vincere nelle urne ma perniciose per l’effettiva governabilità. Che è stato il tratto distintivo di tutta la Seconda Repubblica a tutti i livelli amministrativi e di governo, a conferma che quella che stiamo vivendo non è affatto una transizione verso l’agognata Terza Repubblica.

Nel frattempo, in attesa che accada – purtroppo – quel che è perfettamente prevedibile, non rimane che prendere atto del grado di disfacimento subito dal nostro sistema istituzionale. Ci riferiamo alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco delle indicizzazioni delle pensioni del 2011. Quando il governo Monti si assunse la responsabilità di intervenire sulla incandescente materia previdenziale, dicemmo con chiarezza che era necessario, sia per ragioni di finanza pubblica (allora particolarmente stringenti) e sia per ragioni di salvaguardia delle pensioni future e di adeguamento del sistema previdenziale alla mutate condizioni di vita. E non mancammo di sottolineare il coraggio di quella scelta (peccato che fu sostanzialmente l’unica di quel governo…). Ma specificammo che mentre eravamo totalmente favorevoli all’aumento dell’età pensionabile, non altrettanto ci convinceva il blocco delle rivalutazioni, sia come strumento per far cassa, sia perché introduceva l’idea che pensioni da 3 mila euro fossero roba da ricchi, sia infine intervenire sul terreno dei diritti già acquisiti e in corso di fruizione apriva la porta a contenziosi. Tuttavia, giudichiamo la sentenza della Corte tardiva e fuori luogo. Quella fu, pur criticabile, una scelta politica, un atto di politica economica e di bilancio, cioè sfere che sono, e devono rimanere, prerogativa del governo e del parlamento. I diritti sociali sono per definizione condizionati dalle risorse pubbliche disponibile in un determinato momento storico, e il punto d’equilibrio tra diritti e risorse è una scelta politica che è mobile e muta nel tempo. Se poi le conseguenze di una sentenza come quella formulata dalla suprema Corte, quasi quattro anni dopo, sono una voragine di oltre 13 miliardi nel bilancio dello Stato, beh maggiore prudenza sarebbe stata opportuna. Tanto più che la decisione è avvenuta con il voto decisivo del presidente (l’obbligo di una maggioranza dei due terzi per decisioni del genere, no?).

Sarebbe bastato, come molte altre volte è successo, che la Consulta invitasse il legislatore a correggere la norma, precisando che, in mancanza e ove nuovamente investita della questione, avrebbe dichiarato l’illegittimità. Oppure la Consulta avrebbe potuto agire come quando ha dichiarato, con ragione, l’incostituzionalità della cosiddetta Robin Tax (Tremonti 2008), ma non ha imposto allo Stato la restituzione alle società energetiche del “maltolto” proprio in nome dell’articolo 81 della Costituzione, che fa riferimento alla salvaguardia degli equilibri di bilancio e al rispetto del patto di stabilità europeo.

Inoltre, è paradossale – per non dire di peggio – che tra organi istituzionali non viga la civile prassi di comunicazioni dirette, seppure informali. Perché delle due l’una: o il governo quando ha scritto il Def e mandato a Bruxelles i numeri del 2015 non sapeva nulla – strano, però, perché l’udienza in cui si è decisa l’incostituzionalità del blocco alla perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo è del 10 marzo, mentre il Def è di un mese dopo – e allora la Consulta si è presa una bella responsabilità, oppure era a conoscenza del fatto che di lì a poco sarebbe arrivata quella mazzata, e allora avrebbe dovuto prudenzialmente accantonare in bilancio le risorse necessarie (altro che tesoretto!). Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante, anche perché è sempre più affollata la lista dei provvedimenti che finiscono sotto la mannaia della Corte. Da un lato, i governi continuano a fare norme attaccabili sotto il profilo costituzionale, o nella più beata ignoranza o nella consapevolezza che tanto passeranno anni e toccherà a qualcun altro beccarsi le conseguenze di provvedimenti volutamente sbagliati ma grazie ai quali si lucrano vantaggi politici immediati; dall’altro, la Consulta agisce con ritardo e in modo molto contradditorio. Questo, ahinoi, è lo stato del nostro Stato di diritto. E poi ci si stupisce se nella società italiana, sempre più sfiduciata, la parola d’ordine maggiormente gettonata è l’invocazione di una brutale semplificazione delle procedure istituzionali e democratiche identificata nel decisionismo dell’uomo solo al comando!

Catapano Giuseppe osserva: Fotocopia pass invalidi, non è reato

Non costituisce reato di contraffazione l’esporre, sul lunotto della propria auto, la fotocopia a colori del pass per invalidi. Lo ha messo nero su bianco la Cassazione con una sentenza pubblicata qualche ora fa. Così, per esempio, chi esibisce sulla propria vettura la fotocopia a colori di un permesso per invalidi, in modo da consentire all’anziano genitore l’accesso alla zona a traffico limitato (ZTL), non può subire il procedimento penale perché – scrive la Corte – “il fatto non costituisce reato”.

In verità la questione è stata da sempre molto dibattuta e non tutti i giudici sono d’accordo. Anche la stessa Cassazione si è pronunciata in modi diversi in più occasioni. Solo lo scorso anno i giudici supremi avevano detto che è contraffazione l’uso della fotocopia del permesso per invalidi anche nel caso in cui l’auto corrispondente non sia poi utilizzata. In quell’occasione, era stato detto che integra l’illecito la condotta di falsificazione di copie che sostituiscono gli originali qualora il relativo documento abbia l’apparenza dell’originale e sia utilizzato come tale.

La Corte oggi, più che ripensarci, ha precisato un importante aspetto, utile per comprendere meglio i termini della questione: non è tanto la fotocopia del pass a costituire reato ma la falsificazione dell’attestazione di autenticità. Dunque, la fotocopia di un documento originale, se priva di qualsiasi attestazione che ne confermi la sua originalità, non integra alcun falso documentale. Potrebbe, al massimo, ricorrere la truffa, ma solo qualora venisse riscontrata l’attitudine della fotocopia a trarre in inganno terzi. Invece, se l’utilizzatore della copia è, a tutti gli effetti, anche titolare del pass originale non può parlarsi di alcuna truffa.

Come detto, dunque, non è punito l’utilizzo della fotocopia del contrassegno, ma la falsificazione dell’attestazione di autenticità. Se, invece, quest’ultima non viene riprodotta sulla fotocopia, sicché è chiaro che il “clone” è destinato ad apparire tale e non a far credere che si tratti dell’originale, non scatta il delitto di falsità materiale. In tali casi, infatti, la copia, pur avendo la funzione di assumere l’apparenza dell’originale, mantiene tuttavia la sua natura di semplice riproduzione meccanica e non può acquisire una valenza probatoria equiparabile a quella del documento originale, se non attraverso l’attestazione di conformità legalmente appostavi.

Catapano Giuseppe: Pensione per chi ha la legge 104

La pensione anticipata per chi assiste parenti con disabilità grave è uno degli argomenti più dibattuti, in questi ultimi anni, poiché chi sopporta un simile onere ha, ovviamente, seri problemi nella prosecuzione del rapporto lavorativo: purtroppo lo Stato, sinora, non ha provveduto a creare una normativa previdenziale ad hoc, ed in linea generale non è prevista alcuna agevolazione. Bisogna osservare, però, nel dettaglio, che la possibilità di collocarsi a riposo con uno “sconto”, ovvero con i requisiti precedenti alla Riforma Pensioni del 2011, era stata inizialmente contemplata da un decreto emanato nel 2013. La disposizione, meglio conosciuta come Salvaguardia, in effetti, prevedeva una quiescenza anticipata, modificando il Decreto Salva-Italia, ma solo nei confronti dei soggetti che avessero fruito, nel corso dell’anno 2011, o di permessi in base alla Legge 104, o di congedi per assistere familiari gravemente ammalati; per ottenere il beneficio, perciò, non bastava soltanto l’assistenza, ma era indispensabile aver richiesto riposi , per tale motivazione, durante il 2011, indipendentemente dal protrarsi dell’assenza. Grazie alla norma del 2013, questi lavoratori si sono potuti pensionare nel 2014: non tutti, però, sono riusciti a raggiungere la quiescenza, ma solamente coloro che avevano raggiunto la quota 96 entro il primo gennaio 2014 (ad esempio, con un’età di 61 anni e 35 di contribuzione). Sono stati emanati, in seguito, altri decreti di Salvaguardia, sino ad arrivare alla Sesta: la normativa, di fatto, ha rinnovato quanto contemplato dalle precedenti normative in merito, ossia, oltre ad altre tipologie di eccezioni, la possibilità di andare in pensione, per gli aventi diritto a riposi per l’assistenza di familiari con Legge 104 nell’anno 2011, al raggiungimento dei parametri anteriori al Salva Italia (almeno 61 anni e 3 mesi compiuti, più 35 anni di contribuzione, con quota 97,3, oppure 40 anni di contributi a prescindere dell’età), entro il 6 gennaio 2016 (poiché, per chi beneficia della deroga alla Riforma Previdenziale, è applicata una finestra di 12 mesi). La disposizione, purtroppo, risulta scaduta dal 5 gennaio 2015, poiché tale data costituiva il termine ultimo per presentare richiesta al Ministero del Lavoro. Non bisogna dimenticare, peraltro, che la norma limitava la platea dei beneficiari a soli 1.800 soggetti in tutt’Italia. Fortunatamente, il nostro Parlamento è già al lavoro per la Settima Salvaguardia: lunedì 4 maggio, infatti, è stato depositato un nuovo disegno di legge in merito, che, tra le diverse categorie d’interessati, comprende sempre i fruitori di congedi e permessi per l’assistenza a parenti invalidi o gravemente malati. Data anche la caducità della Legge Monti Fornero, dichiarata illegittima, in alcune parti, dalla Corte Costituzionale, con una sentenza depositata lo scorso 30 aprile, non sarebbe una scelta sciocca ampliare il numero dei beneficiari, anche per evitare futuri contenziosi in merito alla disciplina previdenziale.

Catapano Giuseppe scrive: Anatocismo, come recuperare gli interessi dalla banca

La sentenza di ieri della Cassazione apre un nuovo spiraglio nell’infinito contenzioso tra clienti e banche e, in particolare, in tutte quelle cause rivolte a ottenere la restituzione degli interessi “maggiorati” per via dell’applicazione del cosiddetto “anatocismo”. In pratica, la “capitalizzazione degli interessi” (ossia l’applicazione degli interessi non solo sulla sorte capitale, ma anche sugli interessi già maturati in precedenza) sarebbe – secondo il nuovo indirizzo della Suprema Corte – sempre illecita: non solo, quindi, quando applicata trimestralmente (orientamento ormai pacifico in giurisprudenza), ma anche annualmente. La sentenza, peraltro, si somma all’ulteriore attacco all’anatocismo proveniente dalla disposizione della legge di Stabilità 2014 che ne ha vietato l’applicazione e che è stata, ancor più di recente, interpretata dal Tribunale di Milano, il quale ha chiarito che il divieto è già operativo e non necessita di decreti attuativi del CICR (come invece la norma lascia intravedere). Ora, quindi, non ci sono più scappatoie e, con la precisazione della Cassazione intervenuta ieri (leggi “Stop anatocismo anche annuale”), i clienti potranno pretendere la restituzione delle somme illegittimamente prelevate sino ad oggi. Val la pena evidenziare il passaggio “chiave” della sentenza della Suprema Corte. Nel provvedimento in questione si legge che l’illegittimità dell’anatocismo era stata, in effetti, già affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione. Il fatto però che la giurisprudenza abbia dichiarato illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi (per l’assenza di un uso normativo atto a legittimarla), non significa che va ritenuta invece lecita la capitalizzazione annuale. Insomma, così come non esistono usi dai quali si possa ritenere valido l’anatocismo applicato una volta ogni tre mesi, non ne esistono neanche con riferimento a quello applicato una volta all’anno. Una deduzione certo strumentale, su cui hanno fatto leva, per tutti questi anni, le banche. “Usi siffatti – prosegue la sentenza – non si rivengono nella realtà storica, o almeno non nella realtà storica dell’ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato: periodo caratterizzato da una diffusa consuetudine (…) di capitalizzazione trimestrale, ma che non risulta affatto aver conosciuto anche una consuetudine di capitalizzazione annuale degli interessi debitori, né di necessario bilanciamento con quelli creditori”. Difatti, le banche hanno ritenuto di poter applicare la capitalizzazione annuale degli interessi passivi a condizione di applicarla anche su quelli attivi: in pratica, sino a ieri si è erroneamente creduto che l’anatocismo fosse legittimo a patto di garantire la stessa periodicità nel conteggio degli interessi attivi e passivi. Ma, evidentemente, la Cassazione ha sconfessato anche questa falsa credenza. Deve pertanto ritenersi – e qui il passaggio chiave della sentenza – che la capitalizzazione annuale degli interessi sia un uso illegittimamente applicato: non rileva, infatti, l’arco temporale in relazione al quale viene effettuata la capitalizzazione. Che fare? Prima di imbarcarsi in una causa costosa, è opportuno affidarsi a un professionista serio che effettui i conteggi sugli estratti conto e, valutata anche l’eventuale prescrizione, verifichi le somme a cui, eventualmente, il cliente abbia diritto alla restituzione. Per piccoli importi potrebbe essere non conveniente intraprendere una causa: e questo perché, oltre all’avvocato e al contributo unificato, potrebbero scattare i costi della perizia tecnica d’ufficio, salvo che il giudice ritenga di addebitarne l’acconto alla banca. In ogni caso, c’è sempre la possibilità di affidarsi all’Arbitro Bancario Finanziario, che certo non è organo terzo come il giudice, ma il ricorso presentato dal cittadino garantisce celerità, economicità e facilità di accesso: ricorso che, ricordiamolo, è possibile solo dopo aver fatto reclamo alla banca o alla finanziaria e aver ricevuto una risposta non soddisfacente oppure non aver ricevuto risposta dopo 30 giorni dal reclamo (l’Arbitro, però, deve essere interpellato entro 12 mesi dalla presentazione del reclamo, altrimenti bisogna ricominciare la procedura da capo). Cosa chiedere al giudice? Chi intende intraprendere la causa contro l’anatocismo, dovrà: – chiedere al tribunale che venga ricalcolata la misura degli interessi dal momento dell’apertura del conto corrente o della stipula del contratto di finanziamento anche attraverso una CTU (consulenza tecnica d’ufficio). In tal caso il magistrato riconosce, di norma, al consulente da questi incaricato, il diritto a ottenere un anticipo sull’onorario, che viene posto a carico di chi ne propone istanza (ossia su colui che solleva l’eccezione che, in questo caso, è il cliente); – chiedere che venga dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione degli interessi; – proporre l’azione di ripetizione dell’indebito attraverso cui può domandare la restituzione delle somme che gli sono state illegittimamente addebitate a titolo di interessi anatocistici. Quali documenti procurarsi? Chi intende procedere con la causa contro la banca dovrà recuperare: – il contratto di conto corrente o di apertura credito da cui sia possibile individuare il tasso di interesse concordato tra le parti e applicato dalla banca; o, in alternativa, il contratto di finanziamento da cui possa evincersi il calcolo di interessi passivi (per es.: un mutuo o un leasing magari con addebito di interessi in conto corrente); – il foglio informativo, cioè il documento disponibile presso ogni filiale della banca che espone le caratteristiche e le informazioni di un determinato prodotto bancario; – il documento di sintesi, cioè il documento che contiene le condizioni economiche pubblicizzate nel foglio informativo relativo all’operazione bancaria; – le scritture contabili collegate al contratto cioè gli estratti conto e la documentazione contabile attestante i versamenti effettuati. Con questi documenti, il cliente può fornire la prova di possibili anomalie nell’addebito degli interessi sospetti di anatocismo. Entro quali termini? Ricordiamo che il termine di prescrizione per intraprendere l’azione di restituzione delle somme prelevate a titolo di anatocismo è di dieci anni. Se però i versamenti sono stati effettuati su un conto corrente con apertura di credito con l’obiettivo di ripristinare la provvista, la prescrizione parte dalla data di chiusura del conto corrente. Qualora invece i versamenti siano stati effettuati su un conto con apertura di credito con lo scopo di estinguere il debito, la prescrizione parte dalla data di ciascuno pagamento effettuata a titolo di rimessa.

Catapanao Giuseppe informa: Equitalia, quale difesa contro il pignoramento del conto corrente

Il pignoramento è l’atto con il quale ha inizio l’espropriazione forzata. Esso consiste nel provvedimento con cui l’ufficiale giudiziario ingiunge al debitore di astenersi dal porre in atto qualsiasi azione il cui scopo sia quello di sottrarre alla garanzia del credito i beni ad esso assoggettati ed i loro frutti, con la dichiarazione che qualsiasi azione compiuta su di esso non sarà valida. In sostanza con il pignoramento il bene oggetto dell’atto viene sottratto alla disponibilità del suo proprietario. La disciplina dell’espropriazione forzata ordinaria è contenuta nel Codice di procedura civile. Le regole invece dell’espropriazione esattoriale sono speciali e prevedono l’incasso diretto delle somme a ristoro del debito da parte degli agenti della riscossione, in seguito all’esito positivo della procedura di verifica. Il procedimento è notevolmente più veloce rispetto a quello ordinario, in quanto: – non richiede che venga designato un difensore; – non necessita l’autorizzazione dal Giudice dell’esecuzione; – non prevede che venga fissata un’udienza; – non prevede la citazione del terzo pignorato, né il conseguente passaggio dal giudice dell’esecuzione; – il terzo è tenuto a effettuare il versamento in base all’atto ricevuto dall’agente della riscossione, senza che vi sia un’ordinanza di assegnazione da parte dell’autorità giudiziaria. Il procedimento esecutivo presenta, quindi, un carattere derogatorio rispetto alla disciplina prevista dal codice di procedura civile. L’Agente della riscossione, nel caso in cui il contribuente non abbia versato la somma iscritta a ruolo entro i sessanta giorni successivi alla notifica della cartella di pagamento, ovvero i novanta giorni successivi alla notifica dell’accertamento esecutivo, ha la possibilità di avviare l’espropriazione forzata potendo inoltre scegliere se procedere al pignoramento di un bene immobile o di un bene mobile o di un credito del contribuente debitore. La procedura del pignoramento dei crediti presso terzi L’Agente della riscossione ha titolo a pignorare un credito vantato dal contribuente nei confronti di un terzo (ed un deposito bancario è, in sostanza, un credito che il correntista vanta nei confronti dell’Istituto di credito) sia con le modalità ordinarie (dettate dalla disciplina processualcivilistica) sia con quelle specifiche. L’atto con cui vengono pignorati i crediti del debitore verso soggetti terzi può contenere l’ordine impartito al terzo di pagare direttamente il credito all’Agente della riscossione fino a concorrenza del credito per il quale si procede (la banca può quindi essere obbligata a versare all’erario la giacenza esistente sul conto corrente nonché gli eventuali accrediti che su di esso vengano a confluire). In questo caso l’intervento del Giudice dell’esecuzione è eventuale in quanto relegato al solo caso di inottemperanza da parte del terzo, all’ordine di effettuare il pagamento (il giudice interviene solo se la banca non esegue il trasferimento a favore del’Erario delle giacenze sul conto corrente pignorato). Allo scopo di evitare l’inottemperanza e quindi la necessità di adire l’Autorità Giudiziaria, l’Agente della riscossione può adottare la procedura cosiddetta preventiva, richiedendo ai soggetti terzi che sono debitori del contribuente iscritto a ruolo di comunicargli per iscritto le cose o le somme che sono da loro dovute al contribuente debitore. L’atto di pignoramento dei crediti del debitore presso terzi può contenere, in luogo della citazione prevista dal Codice di procedura civile l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede: – nel termine di sessanta giorni a partire dalla data della notifica dell’atto di pignoramento, per le somme per le quali il diritto alla percezione sia maturato anteriormente alla data di tale notifica; – alle rispettive scadenze, per le restanti somme. In sostanza il termine entro cui il debitore del pignorato deve adempiere al versamento diretto nei confronti del concessionario della riscossione è di 60 giorni, termine che decorre dalla data in cui è stato notificato l’atto di pignoramento. L’atto di espropriazione forzata esattoriale di crediti può essere redatto anche da parte di dipendenti dell’Agente della riscossione procedente non abilitati all’esercizio delle funzioni di ufficiale della riscossione e, in tal caso, reca l’indicazione a stampa dello stesso agente della riscossione. La disposizione non trova applicazione relativamente ai crediti pensionistici e con i limiti stabiliti per le ipotesi contemplate dal codice di procedura civile secondo cui le somme che sono dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate non oltre la misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito. Il pignoramento per il simultaneo concorso delle cause indicate precedentemente non può estendersi oltre alla metà dell’ammontare delle somme predette. Restano in ogni caso ferme le altre limitazioni contenute in speciali disposizioni di legge. Limiti di pignorabilità Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione in misura pari ad: – 1/10 per importi fino a 2.500 euro – 1/7 per importi superiori a 2.500 euro e non superiori a 5.000 euro – 1/5 per importi superiori a 5.000 euro. Resta in ogni caso ferma la misura della pignorabilità pari ad un quinto, nel caso in cui le somme dovute al debitore a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro. Inoltre, nel caso di accredito delle somme (quali stipendi, salari o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento) oggetto di pignoramento sul conto corrente intestato al debitore, l’obbligo del terzo pignorato (la banca) di trattenere tale importo per poi girarlo all’Agente della riscossione non si estende all’ultimo emolumento accreditato a favore del debitore. In sostanza, l’Istituto di Credito, nel caso in cui venga accreditato sul conto corrente, già pignorato dall’Agente della riscossione, l’ultimo stipendio deve comunque rendere disponibile tale somma al debitore senza poterla acquisire a scomputo delle iscrizioni a ruolo. Rimane esclusa la pignorabilità delle cd. rimesse, vale a dire i versamenti che nel contratto bancario di apertura di credito vengono effettuati dal titolare del conto corrente per ridurre o estinguere il saldo debitore del conto medesimo. L’Agente della riscossione ha poi la possibilità di utilizzare tutti i dati che affluiscono nell’anagrafe tributaria da parte di tutti gli intermediari e, in generale, gli operatori finanziari, compresa Poste Italiane s.p.a. Ciò mette il Concessionario nelle condizioni di conoscere dove i contribuenti hanno depositate le loro somme o dove sono impiegati i loro risparmi. Quali sono le tutele giurisdizionali per il contribuente esecutato Ci si chiede, a questo punto, quali siano gli strumenti giuridici che possono essere utilizzati da parte del contribuente/debitore esecutato al fine di ottenere una tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto esecutivo. Secondo la tesi interpretativa prevalente resterebbero escluse dalla giurisdizione tributaria le controversie relative agli atti dell’esecuzione successivi alla notifica della cartella di pagamento. In campo tributario permane infatti l’esclusione delle ordinarie opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi. Di conseguenza il debitore contribuente potrebbe esercitare il proprio diritto alla difesa, in sede di opposizione agli atti esecutivi, impugnando l’atto di pignoramento. innanzi la giurisdizione ordinaria, davanti al giudice dell’esecuzione. Per i crediti tributari, tuttavia, le opposizioni sono ammesse solo nei seguenti casi: – facendo riferimento all’opposizione all’esecuzione, solo per contestare la pignorabilità dei beni; – relativamente all’opposizione agli atti esecutivi, per tutti i casi che non riguardino la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo. Non è quindi possibile un’azione di opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto la mancata notifica della cartella di pagamento (titolo esecutivo), o l’irregolarità formale della stessa. Altra corrente interpretativa sostiene invece che il contribuente esecutato abbia legittimamente possibilità di impugnare di fronte alla giurisdizione tributaria quello che rappresenta un vero e proprio atto di “esecuzione forzata”, che non contiene la citazione del terzo dinanzi al giudice dell’esecuzione. D’altra parte, nel caso in cui il contribuente eccepisse il difetto di notifica la norma prevede espressamente che la mancata notifica di un atto autonomamente impugnabile (quale ad esempio la cartella esattoriale) ne consente l’impugnazione unitamente all’ultimo atto notificato (ovvero l’atto di pignoramento presso terzi). Mancato rispetto dei doveri di diligenza: è possibile ipotizzare una azione di responsabilità verso l’Istituto di Credito? È già stato osservato che la procedura di pignoramento esattoriale presso terzi si concretizza in un rapporto diretto tra Agente della riscossione e terzo (banca), senza che la normativa imponga un obbligo specifico per il terzo di informare tempestivamente il cliente. È possibile, quindi, che l’atto di pignoramento non venga ritualmente notificato al contribuente/debitore, ovvero che sia notificato contestualmente a quello che viene indirizzato all’Istituto di credito che, solitamente, si affretta ad eseguire l’ordine imposto dall’Agente della riscossione. Ci si chiede quindi se si possa ipotizzare nei confronti dell’Istituto di Credito che, ricevuto l’ordine di versare direttamente nelle casse erariali il credito vantato dall’Agente della riscossione, si affretta ad adempiere a quanto intimato senza notificare alcunché all’intestatario del conto, una responsabilità in merito al dovere dare diligente esecuzione del mandato, tenuto conto che secondo quanto viene previsto dal Codice civile la banca risponde secondo le regole del mandato, per l’esecuzione d’incarichi ricevuti dal correntista o da altro cliente. A tale riguardo appaiono certamente interessanti le conclusioni cui è pervenuto l’Arbitro Bancario e Finanziario – Collegio di Roma che ha chiarito che il formale rispetto delle disposizioni in tema di pignoramento presso terzi non esaurisce il panorama degli obblighi gravanti sulla banca, atteso che il rapporto negoziale in essere con il cliente impone alla medesima doveri di trasparenza ed informazione e, pertanto, non può escludersi, a priori una responsabilità dell’Istituto di credito discendente dal dovere generale di diligente e corretta esecuzione del mandato.