Anche se nato da una relazione di fatto, ossia senza matrimonio, il figlio va sempre mantenuto da parte di entrambi i genitori: così, se il padre si fa vivo dopo diverso tempo, e riconosce il minore, la ex compagna gli può chiedere gli arretrati non corrisposti dalla nascita; è questa la sintesi di una recente sentenza della Cassazione. Assicurato il rimborso delle spese di mantenimento Secondo la Corte la madre ha sempre diritto al rimborso pro quota delle spese da lei sostenute anteriormente al riconoscimento da parte del padre. Come è noto, infatti, l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio sorge automaticamente con la nascita per il solo fatto di averli generati e rimane fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica: indipendenza che, certo, non significa un lavoro a tempo indeterminato e sicuro, ma comunque una collocazione lavorativa tale da consentirgli – anche senza certezze per il futuro – la possibilità di mantenersi da soli in modo dignitoso. Come si quantifica tale importo? Difficile, anche per il giudice, determinare a quanto ammonti il rimborso delle spese spettante al genitore che ha provveduto fin dalla nascita all’integrale mantenimento del figlio. Di certo, si tratta di un risarcimento vero e proprio per gli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento. Proprio perché per tali spese risulterebbe complessa una quantificazione nel loro preciso ammontare, per determinare le somme dovute a titolo di rimborso il giudice può ricorrere al cosiddetto “criterio equitativo”: in pratica, il magistrato determina l’importo in base a quanto gli appaia più giusto, benché svincolato da qualsiasi documento o criterio certo e prefissato.
figli
Catapano Giuseppe: Pensioni, figli e figliastri
In Italia ci sono oggi 22 milioni di lavoratori che versano contributi previdenziali all’Inps e venti milioni e ottocentomila trattamenti previdenziali (17 milioni di pensioni e oltre 3 milioni di prestazioni assistenziali). Nella drammatica vicinanza di questi due numeri c’è l’esplosività di una materia in grado come nessun’altra di dissestare i conti pubblici. Non è un caso se dal 1992 al 2011 si sono succedute ben sei riforme previdenziali.
Adesso si sente spesso ripetere che i conti sono in ordine, il sistema è in equilibrio, non c’è bisogno di alcun’altra riforma previdenziale. Non credeteci.
Difficile che un sistema possa rimanere in equilibrio quando si avvicina sempre più al rapporto 1/1, cioè un pensionato per ogni lavoratore dipendente. Tanto più se pretende di rispettare il principio dei diritti quesiti, cioè in pratica l’intangibilità di trattamenti ai quali non è corrisposto un adeguato versamento di contributi. Difficile che le giovani generazioni possono sostenere ancora a lungo il peso di assegni previdenziali molto più generosi di quelli che loro riceveranno quando andranno a loro volta in pensione.
Le ultime riforme hanno operato gradualmente il passaggio da un sistema retributivo a uno contributivo, ma in modo molto graduale. E senza cancellare una serie molto numerosa di privilegi che ancora sono presenti e che costano quasi tre miliardi ogni anno all’Inps. Il tema è dettagliato nella tabella pubblicata sul numero di ItaliaOggi sette in edicola da oggi. Al primo posto dei “duri a morire” ci sono, naturalmente, i benefit che intascano i politici, che spesso riescono a sommare un’aspettativa non retribuita che consente però un versamento figurativo di contributi previdenziali e un vitalizio, in pratica una doppia pensione. Si tratta di oltre duemila soggetti, che costano alle casse dell’Inps circa dieci milioni di euro l’anno.
Altra categoria coccolata da mamma Inps è quella dei dipendenti di comuni, province e regioni. I benefit pensionistici dei dipendenti di enti locali, sanitari, ufficiali giudiziari, costano ogni anno 427 milioni. Poi ci sono i dipendenti dello Stato (ministeri, scuola, università, magistrati) che intascano un bonus annuale di 410 milioni. Infine i militari e le forze dell’ordine, vezzeggiati con privilegi previdenziali pari a 330 milioni l’anno. L’omaggio al gentil sesso costa invece all’Inps un miliardo l’anno: è questa infatti la somma che risparmierebbe se fossero allineati tra maschi e femmine i requisiti per andare in pensione.
Altre categorie alle quali l’Istituto di previdenza concede ancora qualche regalino sono artigiani e commercianti (costo 115 milioni l’anno) e i lavoratori dello sport e dello spettacolo (100 milioni l’anno). Ci sono poi una miriade di micro rendite di posizione: 20 milioni per i dipendenti del settore marittimo, altrettanto per quelli dell’Enav, 17 milioni per i dipendenti delle ferrovie dello stato, e così via elencando per una decina almeno di categorie.
Non è quindi del tutto vero che, dopo le ultime riforme, il sistema è in equilibrio e non ha bisogno di altre riforme. Restano molti colli da spianare e valli da colmare. Ma soprattutto, fino a quando non si metterà mano seriamente almeno ai più scandalosi diritti quesiti e non si invertirà la tendenza che vede aumentare il numero dei pensionati e diminuire quello dei lavoratori, non c’è nessun possibilità che il sistema possa trovare un equilibrio stabile. Inutile illudersi. La prossima riforma previdenziale potrebbe essere dietro l’angolo.
Catapano Giuseppe scrive: Bonus figli
Oltre agli assegni per il nucleo familiare e al nuovo bonus bebè, una legge del 2014 ha introdotto – nel limite di risorse pari a 45 milioni di euro per l’anno 2015 – un beneficio a favore delle famiglie numerose. In particolare, la norma ha lo scopo di contribuire alle spese per il mantenimento dei figli, buoni per l’acquisto di beni e servizi a favore del nucleo familiare. Limiti di reddito e condomini Possono accedere al beneficio in commento i nuclei familiari con un numero di figli minori che sia pari o superiore a quattro. Quindi, una famiglia con tre figli non può avere i benefici, così come non potrà averli una famiglia con quattro figli di cui uno abbia superato i 18 anni. Inoltre, la famiglia deve essere in possesso di una situazione economica corrispondente a un valore dell’Isee non superiore a 8.500 euro annui. La norma, però, ad oggi non è ancora operativa. Un apposito decreto ministeriale dovrà regolamentare l’erogazione del bonus. Le modifiche all’ISEE Ricordiamo che, dal 1˚gennaio 2015 tutte le prestazioni sociali, scolastiche e sanitarie agevolate devono essere richieste presentando il nuovo Isee. L’indicatore della situazione economica equivalente delle famiglie, che fotografa la capacità di spesa in base a reddito, patrimonio e numerosità del nucleo familiare, è stata modificata, dopo 17 anni, dal Decreto “Salva Italia” ed è calcolato ora con un sistema completamente rinnovato. La modalità di calcolo varia, peraltro, a seconda della prestazione richiesta.