

Romano Prodi critica quanto sta avvenendo in Europa all’indomani dell’esito referendario greco. Il vertice Merkel – Hollande a Parigi che precede sia l’Eurogruppo e l’Eurosummit con tutti i leader europei, manda un messaggio negativo.
L’ex presidente della Commissione dell’Unione Europea è convinto che il vero dramma dell’Europa sia “non capire che con questo atteggiamento ci suicidiamo”.
“Il futuro e l’innovazione viene disegnato in Stati Uniti e in Cina. Se non ci mettiamo insieme non disegneremo nulla”.
Sulla spinta anti austerity, Prodi chiede proposte che escano dallo schema e un impegno a “far capire alla gente che senza l’Europa siamo finiti”. “L’Italia avrebbe dovuto farsi ascoltare con un unico disegno (per la crescita) insieme alla Francia”, ma non è stato possibile.
Nei prossimi giorni ci sarà un negoziato per vedere come conservare l’euro. E secondo Prodi bsogna ridurre il passivo di Atene. È ormai chiaro a tutti come lo fu nel Dopoguerra nei confronti del debito tedesco. “La Grecia non arriverà mai a pagare il debito, così come nel 1954 si sapeva che la Germania non sarebbe stata in grado di pagarlo”.
Per l’ex premier Romano Prodi “ci sono le condizioni per cui il costo della rottura sia molto più elevato del costo di un compromesso”.
Tornando alla vittoria dei no all’austerity del popolo greco, con oltre il 61% al voto di domenica, per il professore bolognese Renzi ha sbagliato a sintetizzare il referendum greco come un derby tra Euro e Dracma. Per Prodi non si trattava infatti di “un derby Euro-Dracma e continuo ad insistere che un negoziato ed una accordo ci deve essere”.
Il “Libro bianco per la sicurezza internazionale e la Difesa”, di recente pubblicazione, costituisce la base per lo sviluppo delle soluzioni attuative, che dovranno essere affinate e realizzate in tempi rapidi, per rendere lo strumento militare adeguato ad affrontare le nuove realtà che lo scenario internazionale presenta.
Momento essenziale della revisione è l’individuazione del modello organizzativo, che consenta di affrontare con successo le sfide odierne e in una prospettiva di medio termine.
Ma che cos’è un ‘libro bianco’? Un saggio di sociologia dell’organizzazione, con annessi piani di ingegneria istituzionale? Un insieme ragionato di propositi di realizzazione? Uno strumento di programmazione?
Non ‘libro dei sogni’, ma direttiva ministeriale
È ragionevole ritenere, sinteticamente, che i profili suddetti concorrano a delineare la natura proteiforme di simili documenti. Se si guarda all’esperienza italiana, in generale, non in ambito Difesa, i libri bianchi sono stati qualche volta definiti i “libri dei sogni”.
I compilatori del documento pubblicato dal Ministero evidentemente sono consapevoli del pericolo e nella parte finale dell’elaborato, gli attribuiscono la natura di direttiva ministeriale per tutte le articolazioni dell’Amministrazione della Difesa, sicché gli obiettivi indicati, ove riconosciuti come raggiungibili a normativa vigente, “vanno immediatamente perseguiti”.
L’elaborazione di dettaglio per la revisione della governance, l’adeguamento del modello operativo, una nuova normativa in materia di personale, la politica scientifica, industriale e di innovazione tecnologica saranno oggetto specifico di attività di una apposita struttura e di commissioni di alto livello tecnico giuridico, secondo un cronoprogramma definito.
In tale quadro si inserisce la revisione complessiva delle disposizioni normative e regolamentari esistenti, al fine di rinnovarle, semplificarle e adeguarle alle nuove esigenze.
Giustizia militare, una sorte segnata
Le previsioni concernenti la giurisdizione penale militare sono affidate a poche righe nel capitolo “Cittadini e forze armate”, par. 252: “Il Governo intende proseguire lo sforzo di maggiore efficienza del sistema e di razionalizzazione studiando anche la possibilità di forme giuridicamente evolute basate sul principio di unicità della giurisdizione penale e che prevedano di dotarsi, in tempo di pace, di organi specializzati nella materia penale militare incardinati nel sistema della giustizia ordinaria”.
La sorte della Giustizia militare appare segnata. Nessuna sorpresa: è già accaduto, senza traumi istituzionali, in Francia e Belgio.
Sostenere che la Costituzione, a normativa invariata, non consenta la riforma è una mistificazione, perché l’esistenza di organi specializzati di giurisdizione sarà assicurata con modalità ordinative differenti.
Come sanno gli esperti di diritto pubblico, la funzione non si identifica con la sua “copertura amministrativa”, anche se qualcuno cercherà di fare credere il contrario.
Le resistenze delle derive corporative
È dal 1956 che la giurisdizione penale militare, a seguito della drastica riduzione dell’area di competenza, vivacchia. Falliti i molteplici tentativi di ridarle fiato, mediante il recupero di classi di reati comuni, “militarizzandole”, il dibattito tra innovatori e conservatori si è stancamente trascinato fino ai giorni nostri.
È facile prevedere derive corporative alla programmata riforma. Sono nel conto le resistenze e la vischiosità degli apparati, nella dialettica tra pulsioni di categoria e travestimenti verbali, nella quale buona parte della magistratura militare non si riconosce: chi vive come problema professionale l’ossimoro della insostenibile leggerezza della materia riservata alla giurisdizione militare e non condivide la concezione minimalista dei cultori dello status quo.
La realizzazione di nuovi moduli organizzativi consentirà, nell’indirizzo del Governo, non solo la soluzione dei problemi della speciale giurisdizione, ma anche il reimpiego di risorse umane e di professionalità nell’ambito della Giustizia ordinaria, in affanno per note cause.
Sostenere che il mantenimento della conformazione attuale giovi alla speditezza o comunque propizi la ragionevole durata dei processi costituisce strumentale artificio dialettico.
Potenziali effetti positivi della riforma
I dati relativi alla “produttività” nell’ambito della giurisdizione militare sono al limite dell’insignificanza statistica, non per inerzia degli addetti, ma per la pochezza numerica e qualitativa del contenzioso penale. La sospensione, o se si preferisce, la fine del sistema di reclutamento obbligatorio, la leva, ha determinato la caduta verticale delle infrazioni, dovuta, sul piano qualitativo, anche ad altro fenomeno.
Il volontariato comprende soggetti, psicologicamente motivati, che molto frequentemente aspirano al passaggio nei corpi di polizia ad ordinamento militare o civile e informano la loro condotta in servizio a standard di correttezza non paragonabili a quelli sperimentati in regime di leva obbligatoria.
Quanto alla particolare attitudine della giurisdizione speciale a interpretare valori e principi dell’ordinamento militare, si tratta di una considerazione di principio, corretta in via tendenziale ma inattuata, ove si consideri che i reati di maggior gravità ricadono dal 1956 nella giurisdizione ordinaria.
La riforma, con un paradosso solo apparente, potrebbe porre le premesse per una revisione complessiva anche della parte sostantiva della normativa penale militare, facendo cadere preclusioni e riserve di fatto registratesi in materia.
A differenza di altri Paesi, che sono in pari tempo mediterranei ed atlantici, l’Italia è sempre stata, malgrado le sue aspirazioni, un Paese mediterraneo.
Anche in queste poche decadi in cui il ranking nazionale in seno al Gotha dell’economia mondiale ha obbligato l’Italia a considerare quanto avviene nel mondo con una visione globale, il fuoco della nostra attenzione si è sempre concentrato sull’area corrispondente al cosiddetto “Mediterraneo allargato”.
Non che le due altre sfere naturali della nostra politica, quella atlantica e quella europea, venissero trascurate, anzi. L’approccio italiano a tali ambiti era però sempre un approccio caratterizzato dalla mediterraneità del Paese.
Nella Alleanza atlantica entrammo sin dall’inizio a titolo pieno, unico fra i paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, anche perché portavamo in dote una posizione geografica che ci rendeva indispensabili per il controllo dei due settori del Mediterraneo.
Considerazione che spiega anche perché l’Italia sia stata sino a poco fa l’unico membro storico della Nato in cui la presenza militare Usa è cresciuta, e non calata, dopo la caduta del muro di Berlino.
Oltre alla dimensione atlantica, anche quella europea della nostra politica è stata sempre condizionata dalla dislocazione mediterranea del nostro Paese.
Nei tempi andati, quando la Politica agricola comune fruiva del novanta per cento del bilancio del Mec, la nostra produzione agricola ci associava automaticamente a quella degli altri Stati che si affacciavano sul bacino.
In tempi più recenti, le nostre preoccupazioni politiche si sono concentrate più sul quadrante arabo e su quello balcanico dei confini europei piuttosto che su quello baltico o dell’Europa centrale.
Mediterraneo non più centrale
Da molti secoli però il Mediterraneo non ha più quella centralità di cui aveva goduto sino alla fine del 1400, allorché i viaggi di Colombo da un lato, quelli di Vasco da Gama dall’altro, hanno iniziato l’era della “centralità atlantica”.
Da ombelico del mondo europeo, strada maestra di tutti i suoi commerci, sede degli Stati più ricchi ed avanzati del continente, il mare nostrum è decaduto al ruolo di bacino secondario.
I Paesi rivieraschi che non avevano anche una sponda atlantica hanno dovuto subire, da quel momento in poi, una storia fatta da altri, senza più godere della possibilità di scolpire da soli il proprio destino. Una condizione che l’apertura del Canale di Suez ha un poco alleviato, senza però riuscire a mutarla radicalmente, alcuni secoli dopo.
Nulla dura in eterno ed anche la “centralità atlantica” ha imboccato da ormai un ventennio, in parallelo alla straordinaria crescita politica ed economica dell’Asia, la strada del declino. Ad essa sta subentrando la “centralità del Pacifico”, che gli Stati Uniti hanno immediatamente recepito spostando dalla costa Est alla costa Ovest del loro grande Paese larga parte della loro attenzione.
In Europa invece nulla è cambiato, nonostante che il commercio da e per l’Asia si faccia di giorno in giorno più intenso e che tutte le importazioni ed esportazioni europee siano inesorabilmente costrette a seguire, in assenza di agevoli percorsi stradali o ferroviari, la rotta di Suez.
Si trattava di una occasione straordinaria per ridare al Mediterraneo una nuova centralità, in ambito europeo e non soltanto in quello. Gli Stati rivieraschi non hanno pero saputo coglierla, forse perché adeguarsi alla nuova situazione avrebbe di necessità comportato un radicale cambio di passo e di mentalità.
Dal nazionale all’internazionale, dal tattico allo strategico, da una visione a breve a una a lunga scadenza. Il tutto integrato dall’avviamento di opere di dimensioni colossali che richiedevano l’impegno di capitali altrettanto colossali ed avrebbero dovuto essere realizzate in tempi molto ristretti.
Il risultato è stato che si è fatto poco o nulla e che le poche battaglie combattute – in Italia quella per trasformare Gioia Tauro nel terminale dei containers cinesi e giapponesi e quella per aprire il porto di Taranto ai cinesi – sono state regolarmente perse.
Anziché recuperare centralità il Mediterraneo rimane così al margine, mentre le merci asiatiche entrate da Suez escono da Gibilterra e continuano ad essere scaricate nei grandi porti atlantici europei. All’orizzonte oggi si stanno profilando due cambiamenti che richiedono grande attenzione e lungimiranza strategica.
Rotta del Nord contro via della seta
Il primo è il progressivo riscaldamento del pianeta che propizia lo scioglimento dei ghiacci rendendo a poco a poco praticabile la rotta intercontinentale che unisce l’Asia all’Europa passando a Nord della Russia.
Ancora dieci, quindici anni e se non si verificano poco probabili inversioni climatiche questa rotta a Nord, molto più corta e quindi più economica, finirà col prevalere sulla rotta a Sud.
Il secondo è invece rappresentato dal colossale progetto cinese, presentato pochi mesi fa dal presidente Xi Jin Ping e denominato “Silk road, silk belt”. L’idea cinese è quella di riuscire ad attivare, nel breve giro di una decina d’anni, un grande fascio di comunicazioni stradali e ferroviarie che colleghino l’Asia all’Europa passando per Asia centrale e Russia, ed approdando infine in Germania, con tempi di percorrenza quanto più possibile ridotti.
A questa “silk belt”, che per gran parte ricalcherebbe l’antica via della seta, si dovrebbe affiancare una grande rotta marittima, la “silk road”, che unirebbe la Cina all’Africa e all’Europa terminando, con uno straordinario richiamo storico culturale, nella Venezia da cui Marco Polo partì un tempo per il lontano Katai.
Quale siano la serietà e la portata dell’iniziativa cinese è dimostrato dalla velocità con cui si è mossa Pechino, riuscendo a concludere in brevissimo tempo accordi sul progetto tanto con la Russia quanto con il Pakistan.
Una ulteriore conferma è la dimensione degli impegni finanziari già assunti dai cinesi, che hanno posto quaranta miliardi di dollari a disposizione degli Stati asiatici desiderosi di associarsi ma bisognosi di consistente sostegno economico tanto per intervenire sui loro assi stradali e ferroviari che per incrementare le loro capacità portuali lungo l’asse marittimo.
Quest’ultimo treno…
C’é così in ballo una nuova e forse definitiva sfida per quello che riguarda la “centralità mediterranea”. In una decina d’anni, se non vogliamo che i piani cambino, dobbiamo infatti attrezzarci perché i nostri porti dell’Adriatico riescano – magari in sistema con quelli dell’altra sponda – ad assorbire ed a smistare il prevedibile colossale volume di traffico.
A corollario e completamento di questo andrebbero poi potenziati anche i nostri i collegamenti stradali e ferroviari con la Germania, in maniera tale da congiungere adeguatamente il terminale di arrivo marittimo della “silk road, silk belt” con quello terrestre.
Non si tratta di impresa da poco, ma la sfida ed il conseguente impegno sono talmente forti che potrebbero costituire il decisivo colpo di frusta per la ripresa della nostra economia.
E poi …. c’era una volta una vecchia canzone che parlava dell’ultimo treno, “the three ten to Yuma…”, il treno delle tre e dieci del mattino per Yuma. Se perdi quello è inutile che aspetti, perché non passeranno altri treni. È quanto succederà alla “centralità mediterranea” se il nostro ed altri Paesi dell’area non saranno capaci di raccogliere il guanto di una sfida che è in pari tempo una straordinaria opportunità.
“Il Lazio è sempre più europeo. La regione sta facendo dei passi in avanti incredibili, negli ultimi due anni abbiamo aumentato del 123% la capacità di spendere i fondi della nuova programmazione”. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha sottolineato la svolta operativa dovuta al lavoro della Giunta, come quella relativa ad una “serie di azioni concrete che partiranno entro quest’anno sulla programmazione unitaria dei Fondi europei 2014-2020”.
“Siamo a un punto di svolta ma dentro un percorso che parte da lontano – spiega Zingaretti – Questa sfida è iniziata ancora prima che ci insediassimo alla guida della Regione: un percorso che inizia con un programma di governo che individuava proprio nell’Europa la più grande occasione di rigenerazione del Lazio e l’orizzonte naturale per cambiare la nostra regione”.
Zingaretti ha così presentato la programmazione unitaria 2014-2020 dei fondi Sie (Strutturali e investimenti europei).
A marzo 2013 il Lazio – spiega Zingaretti – era “di gran lunga l’ultima regione italiana per certificazione della spesa dei fondi Ue. Ora siamo a un passo dall’obiettivo del 100%”.
“Per la prima volta c’è un’unica cabina di regia, apriremo gli sportelli Europa nei territori per dare a tutti l’accessibilità alle notizie dei bandi, dopo la fase di risanamento oggi entriamo nella fase del lancio dello sviluppo. E’ un momento difficile ma sappiamo che in questo caso il Lazio se avrà un rapporto intelligente con l’Europa, potrà risorgere e tornerà a essere una delle locomotive italiane”.
Inoltre una legge della regione Lazio interviene sulle concessioni delle spiagge, per quanto “riguarda la classificazione delle diverse tipologie di utilizzo del demanio marittimo e la ripartizione delle spiagge libere (o libere con servizi) per le quali prima non esisteva una equa distribuzione sul litorale e che invece oggi viene regolamentata nella misura di almeno il 50% dell’arenile per ogni Comune”.
“Punto fondamentale della riforma – spiega Zingaretti – l’obbligo della trasparenza che prima non era assolutamente prevista e che invece oggi obbliga i Comuni a pubblicare le informazioni sulle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. Altrettanto importante, poi, aver introdotto una norma, prima inesistente, che regolamenta la destagionalizzazione delle attività degli stabilimenti e che tende a incentivare un utilizzo del demanio marittimo per tutto l’anno e non solo nel periodo estivo”.
Infine Zingaretti presenta anche le nuove norme anticorruzione. Da settembre nel Lazio cambieranno infatti le regole per la composizione delle commissioni di gara, partiranno le gare telematiche e prenderà forma il ‘Patto d’integrità con i fornitori’.
Massima trepidazione sui mercati per la riunione dell’Eurogruppo, che si sta tenendo oggi in Lussemburgo. Il ministro delle Finanze elleniche Yanis Varoufakis si presenterà con delle idee del governo per trovare un accordo effettivo. Non è chiaro se le proposte sono nuove o sempre le stesse già rispedite al mittente dai creditori.
Non rimane molto tempo: 13 giorni per l’esattezza. Il numero uno del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde ha infatti annunciato che stavolta non ci saranno proroghe del rimborso. Il 30 giugno è la data ultima prefissata perché Atene restituisca all’istituto prestatario 1,6 miliardi di euro.
Il tutto mentre si diffondono rumor sull’ipotesi di svalutazione del debito pubblico greco. Basterebbe mettere in pratica un’intesa siglata nel novembre del 2012, che rimase sulla carta. Secondo il quotidiano Kathimerini quell’accordo potrebbe essere ribadito la prossima settimana, in occasione del summit dell’Unione europea.
Pare che il taglio del passivo statale sia il vero insormontabile scoglio dei negoziati. La Commissione Europea e la Bce dovrebbero pubblicare in giornata un comunicato congiunto sulla questione del debito greco e degli aiuti al paese.
Michael Hewson, analista di CMC Markets, conferma al Guardian che “il meeting di oggi è visto come l’ultima chance” per permettere alla Grecia di siglare un accordo in tempo per la fine di giugno, esattamente per il 30: è quello il giorno X, in cui scade il termine per rimborsare parte dei prestiti erogati dall’Fmi, per un valore di 1,6 miliardi di euro.
La stessa Commissione europea ha escluso che alla scadenza del termine per raggiungere un accordo, il 30 giugno, si possa continuare il negoziato ad oltranza, come è invece avvenuto in precedenza. Stavolta “non pensiamo di fermare gli orologi”, ha affermato il portavoce Margaritis Schinas. Christine Lagarde, numero uno del Fondo Monetario Internazionale, ha ribadito che non c’è alcuna possibilità” che la Grecia ottenga uno slittamento della data di rimborso del prestito da 1,6 miliardi di euro.
“Non sono sicuro che faremo progressi”. Ha messo subito le mani in avanti il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che ammette di non essere particolarmente ottimista. “Non ho molte speranze”, continua. E arriva anche l’avvertimento di Pierre Gramegna, ministro delle Finanze del Lussemburgo: “il tempo sta per finire”.
Non si prevede tuttavia nessuna intesa, dal momento che la Grecia, reduce dalle proteste durante la notte contro l’austerity, non presenterà più nessun’altra proposta. Intanto il premier greco Alexis Tsipras vola in Russia per incontrare il presidente Vladimir Putin. Lo stesso ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha affermato, in un’intervista rilasciata a ITN News, di non sperare in nessun compromesso che possa sbloccare l’impasse.
Pessimista anche il numero uno di Bundesbank. In un’intervista alla Stampa Jens Weidmann ha detto che c’è il “rischio di un contagio”, ma che allo stesso tempo ciò non significa che l’euro sia in pericolo. La moneta unica oggi scambia sopra 1,14 dollari, forte di un progresso dello 0,65% circa.
Un problema di un’eventuale uscita dall’area euro e dall’Unione Europea della Grecia riguarda anche l’aspetto legale. Il caso non è infatti previsto dai trattati. È una delle lezioni da trarre da questa crisi, secondo il presidente della Bundesbank: “bisogna introdurre nei Trattati la possibilità di far fallire gli Stati”.
Ieri il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha detto che l’aspetto legale potrebbe creare ulteriore incertezza sul futuro della Grecia. Non sarebbe infatti ben chiaro come avverebbe un eventuale distacco dal blocco a 29 di Atene, visto che non un evento del genere non è previsto dai trattati.
In due settimane sarebbe impossibile correre ai ripari e introdurre una simile norma, anche perché i singoli paesi dovrebbero approvare democraticamente il nuovo regolamento.
Nonostante tutto la Cancelliera tedesca Angela Merkel è ottimista: al Parlamento tedesco ha detto che finché c’è volontà c’è speranza di raggiungere un accordo. Allo stesso tempo è la Grecia che la palla in mano e che deve “rispettare gli impegni presi sul piano delle riforme”.
Ma come titola oggi il Guardian in prima pagina, la “Grecia non può pagare e non pagherà”.
Non solo: la stessa Commissione sul debito che è stata istituita in Grecia ha appena dichiarato che tutto il debito nei confronti della troika è “illegale, illegittimo e odioso”.
In un report molto dettagliato, si legge che: “Tutte le prove che presentiamo in questo report dimostrano che la Grecia non solo non ha la capacità di onorare questo debito ma, anche, che non dovrebbe prima di tutto pagarlo, perchè il debito che emerge dagli accordi della troika è una violazione diretta dei diritti fondamentali umani dei cittadini greci”.
La Commissione ha un nome preciso: si chiama “Commissione per la verità sul debito pubblico”, ed è stata creata nell’aprile di quest’anno dal Parlamento greco, al fine di indagare sulle origini relative alla crescita del debito e, anche, sull’impatto che le condizioni sottostanti i prestiti hanno avuto sull’economia e la popolazione”.
Il report è diviso in diversi capitoli.
Nel capitolo 1), che analizza il debito verso la troika, si analizza la crescita del debito pubblico greco, a partire dagli anni Ottanta. Se ne deduce che “l’aumento del debito non è stato provocato da una spesa pubblica eccessiva, che di fatto è rimasta inferiore alla spesa pubblica di altri paesi dell’Eurozona, ma piuttosto è stato innescato al pagamento di tassi di interesse estremamente elevati, da una spesa militare eccessiva e ingiustificata, dalla perdita di entrate fiscali dovuta a flussi di capitali in uscita illegali, dalla ricapitalizzazione statale di banche private, e da squilibri internazionali creati a causa delle imperfezioni della stessa Unione monetaria”.
Nel capitolo 2 si parla dell’evoluzione del debito negli anni tra il 2010 e il 2015. Si conclude che il primo accordo sul debito del 2010 ha avuto come obiettivo primario quello di salvare le banche private greche ed europee, permettendo loro di ridurre la loro esposizione verso i bond governativi ellenici.
Nel capitolo 5, si fa riferimento alle condizioni che sono state incluse negli accordi di bailout, e che hanno prodotto la crisi dell’economia e l’insostenibilità del debito. Tali condizioni, “sulle quali i creditori insistono ancora, non solo hanno contributo a zavorrare il Pil, così come ad alzare i prestiti, dunque non solo hanno portato il rapporto debito/Pil greco a un livello ancora più insostenibile, ma hanno anche provocato cambiamenti drammatici nella società, causando una crisi umanitaria. Al momento, il debito pubblico greco può essere considerato totalmente insostenibile”.
Ancora, esaminando l’impatto dei “programmi di bailout”, si evince che le “misure che sono state adottate in linea con questi piani hanno direttamente colpito le condizioni di vita del popolo, violando i diritti civili, che la Grecia e i suoi partner sono obbligati a rispettare, proteggere e promuovere in base alla legge nazionale, regionale e internazionale. I drastici aggiustamenti imposti sull’economia e la società greca nel complesso, si sono tradotti in un deterioramento rapido del tenore di vita e rimangono incompatibili con la giustizia sociale, la coesione sociale, la democrazia e i diritti umani”.
Il Capitolo 9 affronta la questione che mette in allarme l’Unione europea, dal momento che tutto cambierebbe se con la Grecia si creasse un precedente.
Nella sezione del report si parla delle “fondamenta giuridiche per ripudiare e sospendere il debito sovrano greco”. Come opzioni vengono presentate la cancellazione del debito, e si parla di quelle condizioni in base a cui uno stato sovrano può esercitare il diritto di agire unilateralmente per ripudiare o sospendere il pagamento del debito, in base alle leggi internazionali.
Diverse argomentazioni legali permettono a uno stato di ripudiare unilateralmente il suo debito illegale, odioso e illegittimo. Nel caso della Grecia, tale atto unilaterale potrebbe basarsi sulle seguenti argomentazioni: la cattiva fede dei creditori che hanno portato la Grecia a violare la legge nazionale e gli obblighi internazionali, riguardo ai diritti dell’uomo; la preminenza dei diritti dell’uomo nei confronti di accordi, come quelli che sono stati siglati tra i precedenti governi con i creditori o la troika; la coercizione; le condizioni ingiuste che violano in modo flagrante la sovranità greca e la Costituzione; e alla fine, il diritto riconosciuto dalla legge internazionale, che permette a uno Stato di adottare contromisure verso le azioni illegali dei creditori, che intenzionalmente danneggiano la sua sovranità fiscale, obbligandolo a contrarre debiti odiosi, illegali e illegittimi, che violano la autodeterminazione economica e i diritti fondamentali dell’uomo”.
Dal 18 gennaio 2016 i liberi professionisti europei potranno utilizzare la Tessera professionale europea per muoversi liberamente all’interno del mercato europeo. Ad annunciarlo è stato dato il vice capo dell’Unità Libera circolazione dei professionisti della DG Grow della Commissione europea, Tomaras, in occasione dell’Assemblea generale e del Comitato permanente del Consiglio europeo delle professioni liberali (Ceplis), svoltosi lo scorso 5 giugno a Venezia. La Tessera professionale europea (Epc) è una procedura elettronica che consentirà di semplificare l’iter burocratico per riconoscere la qualifica di un professionista ottenuta in un Paese Ue.
A meno che gli Stati Uniti non facciano “concessioni importanti” e consentano alla valuta cinese di entrare a far parte del basket di divise del Fondo Monetario Internazionale, c’è il pericolo reale che la Cina stringa un’alleanza politica e militare con la Russia.
“A quel punto la minaccia di una terza Guerra Mondiale diventerebbe reale”. A lanciare l’avvertimento è George Soros, illustre investitore che ha fatto fama e fortuna speculando al ribasso contro la sterlina e la lira a inizio Anni 90, in un intervento alla conferenza di Bretton Woods della Banca Mondiale.
Il futuro della geopolitica ed economia mondiale dipende molto da cosa succederà in Cina dal punto di vista politico ed economico.
Secondo Soros se i tentativi di Pechino di trasformare la propria economia da una macchina da esportazioni a un motore alimentato dalla domanda interna falliranno, c’è la possibilità che i leader cinesi optino per fomentare un conflitto esterno, che mantenga il popolo unito e garantisca una continuità di governo.
Il tutto mentre il presidente della Cina Hu parla del dollaro come una valuta che “appartiene al passato”, con il governo che prepara qualcosa di grosso per il prossimo ottobre nei mercati valutari.
Intanto la Finlandia ha messo in allerta 900 mila riservisti “in caso di guerra”. Il governo di Helsinki nega qualsiasi collegamento con la crisi ucraina e le tensioni con la Russia, ma per gli analisti, e gli stessi riservisti, il timing parla da sè.
“È chiaramente dovuto a un atteggiamento più aggressivo da parte dei russi – ha detto al Daily Telegraph uno dei militari richiamabili, che ha ricevuto la comunicazione – sono nelle riserve da 15 anni e non ho mai visto niente di simile. Molto raramente mandano lettere del genere”.
C’è un problema con i telefonini di ultima generazione, la quarta (4G): a volte attivano da soli la funzione “roaming“, quella che permette di collegarsi anche all’estero alle reti digitali, nonostante si sia stata disattivata. Grosso problema, perché si rischiano brutte sorprese sulla bolletta. Come è successo a numerosi lettori de La Stampa che hanno segnalato la disfunzione chiedendo lumi. Il giornalista Luigi Grassia ha sondato le compagnie: è venuto fuori che davvero qualcosa non va, colpa dei costruttori.
Cristallina la posizione di Tim. «Il problema è generato dal comportamento dei terminali Lte» – dicono dalla compagnia del gruppo Telecom – «che su rete 4G in roaming potrebbero non bloccare totalmente il traffico dati in fase di attestazione in rete». Aggiungono che «questa problematica è oggetto di condivisione anche in ambito Gsma», cioè nell’associazione mondiale degli operatori mobili. Si tratta, quindi, di una questione nota ai tecnici, in quanto «trasversale a molti operatori con reti 4G».
Tim (consulta il sito http://www.tim.it) offre un rimedio pratico per disattivare correttamente il roaming: se non vuoi andare su internet all’estero “dal menù impostazioni seleziona la rete 2G/3G e disattiva i dati roaming”. Se non dovesse funzionare e gli addebiti sono riconducibili al roaming, si può accedere al servizio Customer Care/Canali Social. In realtà il disservizio riguarda pochi casi sporadici. In ogni caso si tenga conto che, ad esempio, quando mandi un messaggio su Whatsapp ti stai collegando a una rete internet, non è un telefonino: all’estero, se non vuoi sorprese, disconnetti il telefono e usalo solo per telefonare.
Tra il salmastro lago di Paola, che richiama la storia sportiva dei canottieri italiani ed il mare trasparente orlato dalle dune costiere, trova spazio Sabaudia, normalmente meta di vacanze romane, che è stata scenario impeccabile di due giorni animati dai variopinti colori delle Associazioni Professionali aderenti al COLAP.
L’appuntamento primaverile di venerdì 10 e sabato 11 aprile u.s., è stata occasione per riflettere su temi importanti quali la previdenza e le tutele sociali, la formazione e le politiche attive, le Regioni e la legge 4/2013, le politiche fiscali e del lavoro, l’Europa e la direttiva qualifiche.
L’ambizioso progetto di contribuire concretamente perché l’Italia possa “ripartire” anche col contributo delle Associazioni professionali, ha permesso di redigere un piano d’azione COLAP, che saprà sicuramente dare nuovi stimoli alla politica italiana.
Il mercato ha ormai ampliato i confini operativi anche dei Professionisti non iscritti in Ordini e Collegi e l’attenzione allo scenario europeo cresce e preoccupa, per la mancanza di elementi certi che garantiscano la libera circolazione anche di queste professioni.
L’analisi attenta compiuta coi lavori di Sabaudia, ha messo in luce l’importanza di vigilare costantemente sull’operato del legislatore italiano in merito ai tempi ed alle modalità di recepimento della direttiva qualifiche approvata dall’Europa.
La Commissione Europea, con la direttiva 2005/36/CE, ha elaborato un regime uniforme, trasparente e flessibile del riconoscimento delle qualifiche professionali, che il parlamento europeo, in data 20 novembre 2013, ha provveduto a modificare con la direttiva 2013/55/UE.
Due le principali novità introdotte dalle modifiche: la Tessera Professionale Europea, associata alla procedura di riconoscimento ottimizzato nell’ambito del Sistema d’informazione del mercato interno (IMI) e la libera circolazione dei Professionisti europei, che si fonda sul riconoscimento della qualifica professionale nello Stato di appartenenza, con la reciprocità dell’ordinamento della professione, regolamentata sia nello Stato di appartenenza, sia nello Stato ospitante.
Inoltre, il senso d’iniziativa e l’imprenditorialità sono priorità a livello europeo ed il “Piano d’azione per l’imprenditorialità 2020” evidenzia la necessità di incorporare tale apprendimento ad ogni livello dell’istruzione, offrendo, soprattutto ai giovani, occasione anche per un’esperienza pratica.
Perché tale obiettivo possa essere meglio raggiunto ed accertato con trasparenza, i lavori non hanno trascurato l’aspetto della certificazione ed il sistema “EQF”.
Un sistema di riferimento per le qualifiche rilasciate nei diversi Paesi dell’Unione:
• neutrale – rispetto ai sistemi formativi e di certificazione dei diversi Paesi
• basato su unità costituite da obiettivi di apprendimento (learning outcomes)
• articolato in otto diversi livelli
• con obiettivi di apprendimento, a ciascun livello, caratterizzati da conoscenze
(knowledge), abilità (skill) e competenze più ampie (competence)
L’attuabilità e la validità dell’EQF sono possibili soltanto attraverso la cooperazione e l’adesione volontaria da parte di ciascun Stato membro e le decisioni finali sul riconoscimento rimangono di competenza nazionale.
Il sistema EQF, inoltre, è il sistema su cui si basa anche la certificazione di parte terza, secondo la norma UNI.
Il COLAP, preoccupato che il recepimento della direttiva qualifiche da parte del legislatore italiano, possa interpretare in maniera distorta la volontà del legislatore europeo, a discapito delle professioni non ordiniste, ritiene che le Associazioni Professionali debbano ricoprire un ruolo centrale per la qualificazione di stampo europeo delle singole figure professionali e le associazioni professionali appartenenti al CoLAP, si propongono come «ente titolato» di riferimento per le qualificazioni nazionali ed europee.
Inoltre s’impegna a far si che il recepimento della direttiva europea, da parte dello Stato Italiano, evidenzi e valorizzi il ruolo delle Associazioni, anche ai fini del rilascio della Tessera Professionale Europea.
Infine, si propone come l’interfaccia verso il Ministero del Lavoro per rappresentare le Associazioni professionali, che si rendono disponibili quali soggetti attivi ad intraprendere il percorso di sviluppo del repertorio nazionale tramite censimento.