Catapano Giuseppe osserva: HA VINTO IL PARTITO DELLA SFIDUCIA HANNO PERSO BERLUSCONI E RENZI ORA CI ASPETTANO GRANDE INSTABILITÀ E (FORSE) ELEZIONI ANTICIPATE

Dopo aver scritto sabato scorso, prima del voto, quali sarebbero state le corrette chiavi di lettura da usare per esaminare il risultato delle elezioni regionali e le sue ripercussioni politiche, eccoci ora pronti ad applicarle. Partendo dalle conclusioni: le elezioni le ha vinte il “partito della sfiducia” e le hanno perse Renzi e Berlusconi, a causa del frettoloso abbandono del “patto del Nazareno”; la conseguenza sarà un loro progressivo indebolimento che porterà, presumibilmente, alla frantumazione delle attuali forze politiche e alla nascita (o riaggregazione) di nuove. Con una alta probabilità che il tutto sfoci in elezioni anticipate nella prossima primavera. Vediamo in dettaglio.

1) se fate la somma tra l’astensione e il voto dato ai due partiti “anti-sistema”, il movimento 5stelle e la Lega, si arriva a circa il 65% degli aventi diritto, di gran lunga il partito che esprime la maggioranza assoluta degli italiani. Certo, una quota di astensionismo è fisiologica, e il non voto “consapevole” non può essere mischiato con il voto di protesta dato ai grillini o a Salvini – della serie non tutti gli sfiduciati sono incazzati allo stesso modo – e dunque la somma che abbiamo fatto è per molti versi arbitraria. Tuttavia, la dice lunga sul fatto che, pur prendendo forme diverse, il clima di pessimismo che si respira nel Paese dall’inizio della grande crisi (2008) non solo non è cambiato, ma si è addirittura aggravato. E non crediamo, caro Renzi, che siano tutti “gufi” menagramo.

2) il Pd, l’anno scorso alle europee, aveva ottenuto il 40,8%, un risultato strepitoso, conseguito soprattutto a scapito del centro e del centro-destra e soprattutto al Nord, voto su cui Renzi aveva costruito la sua legittimità politica (dopo il blitz anti-Letta) e basato il suo futuro. Ora – secondo l’analisi, sempre accurata, dell’Istituto Cattaneo di Bologna – il Pd è sceso al 25,2% perdendo in assoluto circa due milioni di voti, nonostante che tre delle sette regioni in cui si è votato siano storicamente “rosse” (Toscana, Umbria e Marche). Quindici punti percentuali in meno, un livello persino inferiore, seppur di poco, a quel 25,9% che la Ditta di Bersani prese alle regionali del 2010 e che Renzi ha sempre indicato come il risultato inevitabilmente modesto di un partito perdente per indole. Non che quel giudizio fosse sbagliato, anzi, ma proprio per questo ora è inevitabile dire la stessa cosa del Pd di Renzi. Il quale perde a sinistra (prevalentemente a favore dell’astensione) e conferma solo marginalmente il voto moderato che aveva conquistato dando l’impressione di essere un riformista deciso a chiudere per sempre con la storia comunista e pansindacalista del suo partito. Ora, è vero che governare a lungo andare logora e che nel Pd c’è chi ha marciato contro – occhio, però, perché chi semina vento raccoglie tempesta, da che mondo è mondo – ma una botta simile non può essere sottovalutata né tantomeno nascosta (come invece si è cercato puerilmente di fare).

3) Forza Italia scende al 10% ma soprattutto cede il passo alla Lega, sia a quella in versione lepenista di Salvini sia a quella moderata di Zaia e Tosi pur concorrenti tra loro (ma se quei voti si sommano, il centro destra a trazione leghista moderata vale quasi tre volte il Pd di Renzi, che solo un anno fa aveva “conquistato il Veneto”). Questo significa che Berlusconi ha ulteriormente perso centralità sulla scena politica e non potrà recitare altro ruolo che quello del comprimario o, al massimo, del padre nobile (si fa per dire) di un aggregazione di centro-destra di cui non si vedono i contorni, anche perché è tutto da verificare se a Salvini convenga attenuare le sue tinte forti per tentare un improbabile scalata a palazzo Chigi o non piuttosto accentuarle per intercettare quanta più rabbia degli italiani possibile (e in giro ce n’è davvero tanta) ritagliandosi il ruolo a lui più confacente di capo di un’opposizione urlante e irriducibile.

4) le sconfitte di Renzi e Berlusconi hanno ragioni differenti, ma è evidente che ne abbiano una comune: l’abbandono del “patto” che li legava e che rendeva la loro alleanza, pur costruita solo su basi di potere, rassicurante per molti, probabilmente per la maggioranza degli italiani. Infatti, agli occhi degli elettori centristi il “patto del Nazareno” dava la certezza che il Pd fosse votabile nonostante le ascendenze, mentre a quelli più a destra restii a farlo ma convinti che a Renzi non ci fossero alternative, il governo ombra dava la certezza che quello al Cavaliere non fosse un voto sprecato. Dopo la rottura avvenuta sul Quirinale – per ingenuità di Berlusconi e per arroganza di Renzi – questo meccanismo di reciproca legittimazione è andato a farsi benedire, ed entrambi hanno pagato un prezzo elettorale altissimo. E non facilmente riassorbibile. Anche perché entrambi appaiono sempre meno quegli argini ai diversi populismi che si erano proposti di essere.

5) il governo ne esce indebolito nella misura in cui le tensioni dentro i partiti, a cominciare da quelle addirittura clamorose (vedi Bindi-De Luca) che dilaniano il Pd, saranno distraenti e condizionanti. In parlamento, e in particolare al Senato, ci potrebbero essere sorprese su alcune riforme, da quella della scuola a quella costituzionale. Mentre il processo di sfaldamento di Forza Italia da un lato e, dall’altro, la sempre più difficile possibilità di normalizzare il Pd – con i veleni campani destinati ad aumentare più che ad essere riassorbiti – rappresentano altrettante spinte centrifughe che renderanno progressivamente sempre più instabile la politica, peraltro sottoposta a nuovi logoramenti di natura giudiziaria. Il risultato sarà un crescente bisogno di elezioni anticipate, che lo stesso Renzi avrebbe dovuto perseguire già da tempo (ci ha pensato molto, ma gli è mancata, strano a dirsi per uno come lui, la necessaria determinazione) e che ora potrebbero tornargli utili

Giuseppe Catapano informa: RENZI IN STILE CAMERON? PRO E CONTRO IN VISTA DI ELEZIONI CHE SARANNO UN ESAME SEVERO PER IL GOVERNO

Si è diffusa l’idea che quattro milioni di pensionati in ansia per le conseguenze della sentenza della Consulta sulla legge Fornero, che gli insegnanti e gli studenti scioperanti per la riforma della scuola, che i dipendenti pubblici sul piede di guerra, e che i disillusi di Renzi – fans della prima ora, via via andati perdendo fiducia – siano complessivamente un numero tale da poter tirare un brutto scherzo al presidente del Consiglio in occasione delle elezioni regionali che si terranno fra due settimane. Non sappiamo francamente se sia davvero così, e comunque ci sottraiamo come sempre alla lotteria dei sondaggi e delle previsioni. Notiamo però alcune cose. Alcune a favore di Renzi. Primo: è fisiologico perdere consenso in corso d’opera; anzi, più se ne perde più può essere il segnale che si stanno prendendo decisioni – giuste o sbagliate che siano – senza l’ansia di voler accontentare tutti e piacere a tutti. Secondo: Renzi ha scientemente spaccato il Pd, per trasformarlo in qualcosa che fosse libero dai condizionamenti vetero-comunisti di una parte della “vecchia ditta” e vetero-cattocomunisti di quella che una volta era la sinistra DC più ideologica. Se pagasse un prezzo elettorale a sinistra sarebbe normale – e, immaginiamo, calcolato – e comunque andrà verificato quanto questa operazione gli consente di recuperare al centro, nel corpaccione maggioritario dell’elettorato moderato. Se anche fosse che si becca il 30% anziché il quasi 41% delle europee, risulterebbe pur sempre il primo partito e sarebbe molto più libero politicamente. Dunque, nel caso, il gioco sarebbe valsa la candela. Terzo: i nemici di Renzi, pur essendoci molti motivi buoni per criticarlo, continuano invece a usare argomenti logori (“va troppo veloce”), esagerati (“l’Italicum cancella la democrazia”) e conservativo-corporativi (“no ai presidi sceriffo nelle scuole”), mostrando di non avere alcun progetto riformatore alternativo. Così, alla fine, anche chi non è del tutto convinto dell’azione del governo e trova urticanti certi modi e toni di Renzi, finisce per votarlo, aiutato dal sempre più gettonato concetto che “non c’è alternativa”.

È pur vero, però, che a sfavore del presidente del Consiglio militano altri argomenti. Primo: se ricevi una scomoda eredità come il “caso pensioni” non puoi rispondere, come ha fatto Renzi, “ci inventeremo qualcosa”. Secondo: se vuoi introdurre la meritocrazia nella scuola (sacrosanto intendimento) non puoi mettere sul piatto l’assunzione di 160 mila precari, orrenda toppa a un buco pluriennale, e per di più beccarti i sindacati che ti spernacchiano. Su questo tema condividiamo il giudizio, sereno ma tagliente, di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, secondo cui l’operazione precari “avrà effetti molto negativi, abbassando la qualità della scuola e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire, perché senza una preventiva analisi dei profili necessari si adotta la logica assumiamo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare”. Terzo: è inutile ostinarsi a declamare che l’economia ha svoltato, perché non è vero e chi lo constata quotidianamente si irrita a sentirselo dire. E noi, che non temiamo di passare per gufi (ci siamo abituati), azzardiamo persino di dire che i nostri fondamentali economici sono ancora con i piedi ben piantati nella recessione. Si pensi solo a questo: abbiamo fatto nel primo trimestre +0,3%, abbiamo messo in cascina su base annua due decimi di punto, tutte le stime (ultima quella di S&P) ci dicono che chiuderemo il 2015 a +0,4% e la massima ambizione è di smentire queste nefaste ipotesi confermando la previsione del governo di +0,7%. Risultati modesti in assoluto, ma che diventano negativi se si considera che sono stati e saranno conseguiti in un contesto favorevole senza precedenti (tassi, cambio, prezzo del petrolio, liquidità Bce), senza il quale saremmo ancora con il segno meno davanti. Quarto: il decisionismo di Renzi in materia di legge elettorale e riforme istituzionali non paga. Non perché gli italiani che nel merito ha smontato sia l’Italicum che il nuovo Senato, ma perché – a torto, sia chiaro – non considerano prioritario il tema.

Dunque, vedremo cosa uscirà dalle urne. Una cosa è certa: Renzi ha commesso l’errore – che gli deriva da quello di voler essere anche il segretario del Pd – di politicizzare l’appuntamento elettorale. Lo fece con le europee, gli ha detto bene e ci ha campato sopra per un anno, ma ora potrebbe anche doversene pentire. In tutti i casi sgombriamo preventivamente il campo da paralleli impropri: la vittoria di Cameron e l’Italicum di Renzi. Si è scritto che i Tory hanno vinto le elezioni con il 36% dei voti, e nessuno ha gridato allo scandalo. Ma lo storico maggioritario inglese non ha nulla da spartire con l’Italicum, e i candidati conservatori (tutti scelti dagli elettori) hanno conquistato 330 collegi uninominali, e se Cameron non disponesse della maggioranza assoluta, adesso sarebbe al lavoro per formare un governo di coalizione, senza dover ricorrere al ballottaggio tra le prime due liste. Detto questo, rimaniamo dell’idea che un sistema, il first-past-the-post, in cui un partito (Ukip) che prende quasi quattro milioni di voti pari al 12,6% e porta a casa un solo seggio mentre un altro (lo Snp) ne ottiene 56 con solo il 4,7%, sia a dir poco bizzarro, e comunque non rispondente al dna italiano. Una cosa, invece, è vera e non si è detta: il pragmatismo a-ideologico di Renzi – a volte usato bene, altre male, ma questo è un altro discorso – lo rende molto più somigliante a Cameron che ai laburisti. E non solo a quelli un po’ radicali di Miliband, ma anche a quelli riformisti di Blair. E questo elemento di genetica politica vedrete che, dopo le regionali, terrà banco. Ma ci torneremo a giugno, quando il quadro politico sarà costretto a fare i conti con il risultato elettorale.