Separazione e Divorzio

Cassazione civile, sez. III, 15 Maggio 2018, n. 11766. Est. Guizzi.

Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art.2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza.

Incombe sull’autore della dichiarazione ex art. 1988 c.c. l’onere di provare l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale; di conseguenza, non è sufficiente che lo stesso affermi e dimostri che altro rapporto fondamentale è stato estinto, essendo, invece, indispensabile che esista coincidenza – concreta – tra tale rapporto (di cui è data prova) e quello “presunto” per effetto della ricognizione di debito e non una mera compatibilità astratta tra i due titoli. [Nella fattispecie, in assenza di prova di tale coincidenza, la Corte ha confermato la condanna della ricorrente a restituire all’ex convivente somme di denaro che la stessa asseriva costituire contributi alla vita di coppia, come tali non ripetibii.

Giuseppe Catapano scrive: Divorzio all’italiana

Da qualche settimana è entrata in vigore la nuova normativa sul c.d. divorzio breve. Il Governo, dando seguito ad istanze provenienti da più parti della società civile, ha promosso la solita soluzione di compromesso, riducendo drasticamente i termini intercorrenti fra le procedure di separazione e divorzio, ma senza comprendere le reali conseguenze della propria scelta.

Come sono solito sostenere nei miei interventi, si è dimostrato, ove fosse ancora necessario, che il Legislatore non abbia la minima idea di quelli che siano i problemi concreti del nostro sistema giuridico. Da divorzista, parto dal presupposto che una coppia sul punto di separarsi o divorziare sia, dal punto vista emotivo, una bomba pronta ad esplodere. Presumo, sebbene abbia molte prove in senso contrario, che sia preciso dovere del Legislatore, in primis, e di un avvocato divorzista, in seconda istanza, evitare ogni forma di tensione sociale e, quindi, l’esplosione della bomba in questione.

Nel caso di una separazione consensuale sarebbe utile, quindi, sfruttare la calma emotiva del momento per porre fine, con una singola procedura, al rapporto matrimoniale. Nel caso di separazione giudiziale, abbreviare il termine intercorrente con il divorzio, invece, non permette all’emotività in eccesso, spesso causa della proliferazione di futili ragioni di scontro, di svanire.

Ora, le conseguenze della nuova legge rischiano di essere opposte rispetto allo scopo che si prefiggeva, con aumento esponenziale dei divorzi contenzioni. Mi spiego meglio. Due coniugi costretti a separarsi giudizialmente non ritroveranno, nei nove mesi successivi alla separazione, l’armonia necessaria per affrontare bonariamente una procedura di divorzio. Ergo, posto che non ho mai visto un divorzio contenzioso giungere a conclusione in così poco tempo, è probabile che, in pendenza di procedura di separazione giudiziale, gli stessi incardinino un procedimento per divorzio che, ovviamente, se non altro per ragioni di principio, seguirà la stessa forma della separazione. Quella litigiosa.

Due coniugi che, d’altra parte, siano d’accordo sulle condizioni di separazione, o trovino detto accordo in corso di causa, potrebbero, per una svariata tipologia di ragioni, entrare in contrasto fra loro e, di conseguenza, andare ad ingrossare le file di coloro che litigano per le modalità di visita dei figli o l’entità dell’assegno di mantenimento.

La norma, peraltro, trasuda ipocrisia. Il termine di sei mesi dalla separazione consensuale per accedere al divorzio è talmente breve da essere privo di senso. Mi chiedo, quindi, per quale motivo non sia stato azzerato. L’unica risposta che posso darvi è che la lobby degli avvocati, preponderante per numero in Parlamento, abbia fatto valere il suo peso. Sdoppiamento di procedure vuol dire sdoppiamento di parcelle.

Senza contare che i crociati di Santa Madre Chiesa, con rispetto parlandone, parimenti in gran numero fra le file di onorevoli e senatori, non avrebbero mai votato a favore di una legge che abolisse, totalmente e definitivamente, l’istituto della separazione, nato nell’alveo cattolico, quale periodo necessario a ripensare alle conseguenze della frattura familiare e favorire una riconciliazione. Si è dovuto, quindi, risolvere all’italiana. Se non altro per una questione di numeri e maggioranze. Per non scontentare nessuno, la montagna ha partorito il solito topolino.

Catapano Giuseppe: Divorzio, niente mantenimento se la donna può lavorare

Obbligo di mantenimento: continua a far discutere i tribunali la misura dell’assegno che l’uomo deve versare all’ex moglie allo scioglimento del matrimonio, specie se entrambi guadagnano poco o, addirittura, non hanno di che vivere. L’ipotesi analizzata dalla Cassazione, in una recente sentenza, è purtroppo tipica di questi tempi: lei e lui sono disoccupati, solo che l’uomo ha perso il lavoro a seguito di licenziamento, mentre lei, che è stata casalinga durante il matrimonio, non ne vuol sapere di andare a lavorare e vorrebbe continuare a essere mantenuta. Chi la spunta?

La casalinga non ottiene l’assegno di mantenimento (o, in caso di divorzio, il cosiddetto assegno divorzile). E questo solo quando ha ancora la capacità lavorativa e magari svolge pure qualche attività saltuaria. Insomma, ciascuno dei due deve badare a sé stesso e non c’è modo di obbligare l’uomo a mantenere la donna se quest’ultima è ancora giovane e ha le risorse fisiche e mentali per guadagnare qualcosa.

Finisce l’era della donna sempre a carico?

In verità, in questi casi, a prevalere è sempre l’analisi del confronto tra i due tenori di vita condotti dai coniugi prima e dopo lo scioglimento del matrimonio. Perché, se a seguito della separazione o del divorzio, le condizioni si equivalgono e non c’è modo di stabilire se l’uno “stia meglio” dell’altro, allora si annullano anche gli obblighi di versamento dell’assegno di mantenimento. Insomma la partita finisce in “pareggio”.

Se prima della separazione la donna si occupava del ménage familiare, badando alla casa e alle faccende domestiche, mentre il marito lavorava, non può dopo lamentarsi di non poter procurarsi i mezzi per tenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio se ha ancora una capacità produttiva legata all’età o alla preparazione/specializzazione. E non può di certo gravare sulle spalle dell’uomo che è senza lavoro.

E allora sul piatto della bilancia le due posizioni si equivalgono: due disoccupati, ma lui involontariamente e lei per scelta, nonostante sia ancora in età di produrre reddito. Questo fatto non passa inosservato alla Cassazione che rigetta ogni richiesta di mantenimento avanzata dalla donna.

Catapano Giuseppe comunica: Un divorzio in sei mesi

Un divorzio «consensuale» potrà essere ottenuto in 6 mesi: tanto durerà, infatti, la separazione per le coppie che decidono (concordemente) di sciogliere il proprio vincolo matrimoniale. Termine che sale, invece, a 12 qualora per dirimere le questioni connesse alla fine di una relazione coniugale vi sia bisogno dell’intervento del giudice. Con 228 voti a favore, 11 contrari ed 11 astenuti, il senato ha approvato ieri il disegno di legge 1504 che modifica la disciplina sulla cessazione degli effetti civili delle nozze: il cuore della normativa, che passa al vaglio dei deputati in terza lettura, è sicuramente il taglio della fase di separazione, attualmente di 3 anni, propedeutica alla possibilità di presentazione della domanda di divorzio che, invece, viene accorciata e ricondotta in un arco temporale (a seconda che marito e moglie optino per la via giudiziale, oppure procedano di comune accordo verso l’addio) che va da un semestre ad un anno. Il termine, si legge nel primo articolo del provvedimento, «decorre dalla comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale». L’articolo 2 del ddl, poi, anticipa lo scioglimento della comunione dei beni, al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i membri della coppia a vivere sotto un tetto diverso, mentre l’articolo 3 prevede che le nuove disposizioni si applichino ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge.
Nella seduta pomeridiana di due giorni fa, in cui erano stati votati gli emendamenti, al culmine di una contrapposizione all’interno della stessa maggioranza di governo (fra parte del centrosinistra e Ap), era stata stralciata, su proposta della stessa relatrice Rosanna Filippin (Pd), una norma, al comma 2 dell’articolo 1, introdotta dai senatori della commissione giustizia, che introduceva il cosiddetto divorzio «diretto» (si veda anche ItaliaOggi di ieri); il testo, che essendo stato espunto dall’articolato è finito come da regolamento subito in un’autonoma proposta legislativa assegnata agli organismi parlamentari competenti, stabiliva si potesse accedere alla procedura per lo scioglimento del matrimonio saltando il periodo di separazione legale, e prevedendo che, anche in assenza di tale fase di allontanamento, i coniugi potessero chiedere al giudice la cessazione del vincolo (quando non vi fossero, però, figli minori, figli maggiorenni portatori di handicap, ovvero figli di età inferiore a ventisei anni economicamente non autosufficienti).