La legge di conversione del cd. “Decreto dignità” ha introdotto molte novità.

Il Senato ha approvato il 7 agosto 2018 la conversione in legge del cd. Decreto
Dignità, già in vigore dal 14 luglio come decreto 87/2018 (primo
provvedimento del Governo Conte in materia economica) con importanti
modifiche.
Il testo è stato pubblicato nella Gazzetta n. 186 dell’11 agosto 2018 come
Legge n.96 del 9/8/2018 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto
legge 12 luglio 2018, n.87, recante disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese”. Gli argomenti principali affrontati nella Legge
riguardano:
 misure per il contrasto al precariato,
 misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli
occupazionali,
 misure di contrasto al gioco d’azzardo,
 Semplificazioni fiscali.

 

DECRETO DIGNITÀ

Il Decreto Legge “Misure urgenti per la dignità dei lavoratori e
delle imprese”, cd. decreto Dignità, primo provvedimento
economico del Governo Conte, è stato approvato dal Consiglio
del Ministri il 2 luglio 2018 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il
13.07.2018.
Il provvedimento si occupa in particolare di
 revisione della normativa su contratti a termine anche
nell’ambito della somministrazione di lavoro;
 aumento dell’indennizzo dei licenziamenti per giusta causa;
 revoca incentivi per imprese che delocalizzano o riducono
l’occupazione;
 semplificazione di adempimenti fiscali (spesometro,
redditometro ..);
 split payment;
 misure contro la ludopatia.
L’iter di conversione sarà probabilmente abbreviato per
l’imminenza della pausa estiva parlamentare, ma al contempo
si preannuncia denso di modifiche per varie richieste di
aggiustamenti e annunci in questo senso da parte dello stesso
Governo.

Catapano Giuseppe: L’abuso di denominazione bancaria da parte di soggetti diversi dalle banche

L’art. 133 del Testo Unico Bancario (Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385) disciplina il c.d. abuso di denominazione bancaria da parte di soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari, a protezione della riserva legale dell’attività bancaria e finanziaria e dell’affidamento del pubblico nell’attività medesima.

La norma prevede in concreto il divieto dell’uso da parte di soggetti diversi da quelli autorizzati di qualsiasi parola idonea ad ingannare l’utente sul legittimo svolgimento dell’attività bancaria e finanziaria.

In particolare, è vietato:

– a soggetti diversi dalle banche l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, delle parole “banca”, “banco”, “credito”, “risparmio” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria;

– ai soggetti diversi dagli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 T.U.B., l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, della parola “finanziaria” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività finanziaria loro riservata;

Oltre le banche e gli intermediari finanziari, la norma protegge altri soggetti operanti nell’attività riservata bancaria e finanziaria, nonchè attività del settore di recente formulazione (come ad esempio l’emissione di moneta elettronica ed il microcredito).

In particolare, è anche vietato:

– a soggetti diversi dagli istituti di moneta elettronica e dalle banche l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “moneta elettronica” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di emissione di moneta elettronica;

– a soggetti diversi dagli istituti di pagamento l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “istituto di pagamento” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di prestazione di servizi di pagamento.

Chiunque contravviene ai divieti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 5 milioni di €.

Se la violazione è commessa da una società o un ente, è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 30.000 fino al 10 per cento del fatturato.

Le stesse sanzioni si applicano a chi, attraverso informazioni e comunicazioni in qualsiasi forma, induce in altri il falso convincimento di essere sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia o di essere abilitato all’esercizio delle attività previste all’articolo 111 T.U.B. (Microcredito).

L’art. 133 del T.U.B. – come ben scritto in una risalente pronunzia della Pretura di Torino del 19 febbraio 1998 – descrive una fattispecie di pericolo astratto laddove indica tassativamente alcune parole il cui uso esclusivo è riservato alle banche (ed adesso, in specifici settori, anche ad altri intermediari abilitati).

In caso di uso di una di tali parole non è difatti necessario procedere alla verifica dell’idoneità concreta ad ingannare il destinatario circa lo svolgimento legittimo dell’attività bancaria, atteso che è lo stesso legislatore a ritenere astrattamente il pericolo di lesione sia dell’interesse della banca sia dell’affidamento dell’utente. La norma descrive quindi una fattispecie di pericolo concreto laddove esige la verifica dell’idoneità lesiva dell’abuso di termini che per la loro forza semantica possono indurre a pensare ad una attività bancaria, rinviando alla discrezionalità del giudice la verifica di tale possibilità.

È sufficiente comunque che l’uso sia idoneo a trarre in inganno perché il precetto sia violato, non essendo necessario che si ingeneri effettivamente la confusione che il legislatore vuole evitare.

La Banca d’Italia può determinare in via generale le ipotesi in cui, per l’esistenza di controlli amministrativi o in base a elementi di fatto, le parole o le locuzioni indicate possano essere utilizzate da soggetti diversi dalle banche, dagli istituti di moneta elettronica, dagli istituti di pagamento e dagli intermediari finanziari.

È il caso, ad esempio, delle società appartenenti ad un gruppo bancario che utilizzino il logotipo della capogruppo, oppure, ancora, delle c.d. casse peote, che da tempo remoto raccolgono somme di denaro senza fine di lucro, concedendo modesti prestiti al consumo ispirandosi alla mutualità.

Giuseppe Catapano scrive: Trasferire la residenza, Equitalia non pignora più la casa

Il decreto del Fare ha stabilito l’impignorabilità dell’unica casa di residenza del debitore; in particolare, Equitalia non può procedere all’espropriazione se l’immobile: – è l’unico di proprietà del contribuente; – se è adibito ad uso abitativo (esclusi, quindi, gli studi e gli usi aziendali); – costituisce la residenza anagrafica del debitore; – non si tratta di abitazione di lusso: non deve cioè rientrare nelle categorie catastali A/8 e A/9. Pertanto, il contribuente che, titolare di due immobili e vendendone uno, vada a vivere nell’altro (che resta, quindi, l’unico di proprietà) e vi fissi la residenza, non potrà subire il pignoramento di Equitalia (non si deve comunque trattare di immobile di lusso). Equitalia resta, però, libera di iscrivere ipoteca su tale casa (la soglia minima di debito per poter iscrivere ipoteca per crediti esattoriali è di 20mila euro). Inoltre, nulla toglie che eventuali altri creditori (per esempio, una banca) possano comunque mettere in vendita, con un’esecuzione forzata, la prima casa di proprietà. In tal caso, Equitalia concorrerà normalmente alla ripartizione del ricavato. In buona sostanza, la nuova norma ha posto ad Equitalia unicamente il divieto di iniziare procedure di esecuzione forzata sull’unica casa, ferma restando la possibilità di iscrivere ipoteca e di partecipare all’esecuzione forzata avviata da altri creditori. In ogni caso, non si ravvisa né la necessità, né l’opportunità di procedere a vendita della seconda casa. E questo per due ragioni. In ordine alla necessità: Equitalia può mettere all’asta gli immobili di proprietà del contribuente a condizione che il proprio credito sia di almeno 120mila euro. Sintetizzando, se per l’iscrizione di ipoteca il credito minimo fatto valere da Equitalia è pari a 20mila euro, per procedere poi alla materiale espropriazione ed esecuzione forzata (solo in presenza di più immobili) è necessario che l’ammontare delle cartelle esattoriali non pagate raggiunga la soglia delle fatidiche 120mila euro. Nel caso di specie, invece, il lettore parla di un debito di 100mila euro. Ragion per cui esso, seppur non al riparo dall’ipoteca (non lo sarebbe neanche se fosse l’unico immobile), è al riparto dalla vendita all’asta. In ordine alla opportunità: In caso di vendita della casa, Equitalia può sempre esercitare l’azione revocatoria (nei 5 anni successivi all’atto di vendita) quando dimostri (circostanza abbastanza agevole) che la cessione è avvenuta per frodare le ragioni del creditore. È sufficiente dimostrare che il contribuente non abbia altri beni “facilmente” aggredibili come quello alienato, per poter rendere inefficace l’atto di compravendita e consentire a Equitalia di aggredire detto immobile. Col risultato che il contribuente dovrà restituire i soldi ottenuti dall’acquirente del bene e perderà anche l’immobile. Le cose non cambiano in caso di donazione dell’immobile medesimo (anzi, in tal caso, l’onere della prova per Equitalia è anche più agevole). Senza contare il rischio che, da una manovra così congeniata, qualcuno possa intravedere l’ipotesi di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. In tal caso, scattando un procedimento penale, per il contribuente i problemi potrebbero essere più gravi della perdita di una casa.