Intervento del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS: è necessaria l’espressa imputazione a TFR del credito ammesso al passivo

Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 02 Febbraio 2022, n. 3165. Pres. Berrino. Est. Cavallaro.

In caso di fallimento del datore di lavoro, ove manchi una espressa imputazione del credito ammesso al passivo a t.f.r., va escluso l’intervento del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS, che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della l. n. 297 del 1982, è vincolato alle risultanze dello stato passivo reso esecutivo ovvero della sentenza che abbia deciso eventuali opposizioni ad esso, atteso che il predetto Fondo non assume in via solidale e sussidiaria la medesima obbligazione retributiva del datore di lavoro rimasta inadempiuta, bensì una distinta ed autonoma obbligazione di natura previdenziale. (massima ufficiale)

Catapano Giuseppe osserva: Lavoro, Rossi su decreti delega

Si sono tenute il 7 luglio le audizioni sui decreti delega lavoro di rappresentati della Conferenza delle Regioni presso le commissioni lavoro della Camera e del Senato.
Ai due appuntamenti hanno partecipato Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, regione che coordina la Commissione lavoro per la Conferenza delle Regioni, Valentina Aprea, assessore all’istruzione formazione e lavoro della Regione Lombardia, Lucia Valente, assessore al lavoro della Regione Lazio, Sebastiano Bruno Caruso, assessore alla famiglia, politiche sociali e lavoro della Regione Siciliana.
“Le Regioni, da tempo, hanno delineato una loro proposta di riorganizzazione dei servizi per il lavoro che superi la frammentazione oggi esistente”, ha ricordato il presidente della Toscana che ha preannunciato l’invio di un documento in sede di Conferenza Stato-Regioni che sarà definito nei prossimi giorni.
“Personalmente – ha spiegato Rossi – sono convinto che la previsione di una rete nazionale dei servizi per il lavoro, articolata su un’Agenzia nazionale e su strutture regionali, recepisca, in linea generale, l’organizzazione proposta dalle Regioni, perché potrebbero comunque essere salvaguardate la programmazione e la gestione dei servizi e delle politiche attive”.
Esistono però alcuni problemi che il presidente della Toscana ha rappresentato ai deputati e ai senatori delle due commissioni. Primo fra tutti “l’indeterminatezza del percorso che sembra essere transitorio e non a regime”.
Rossi ha poi sottolineato l’inadeguatezza delle risorse che vengono messe a disposizione del riordino dei servizi: “non si può scaricare sulle Regioni l’onere del finanziamento dei servizi, onere che fino ad oggi era nella disponibilità dei bilanci delle Province, senza alcun trasferimento di tali risorse alle Regioni”.
Infine la questione del personale. “il decreto, pur sottolineando che le Regioni costituiscono i nuovi Centri per l’Impiego, e caricando su di loro i principali oneri finanziari, non trasferisce il personale dalle Province alle Regioni, determinando tra l’altro anche un problema di incertezza nella stessa gestione del personale. Motivi che testimoniano – ha concluso Rossi – la chiara esigenze di modifica del testo del Decreto Legislativo garantendo adeguate risorse ed il trasferimento del personale”.

Catapano Giuseppe comunica: Licenziamento per scarso impegno, se sei pigro e non produci

Il licenziamento per scarso rendimento, quello cioè rivolto nei confronti dei lavoratori più lenti, pigri e che rendono poco sul lavoro, non è previsto da nessuna norma di legge. Nulla è cambiato anche dopo l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act che non ha colmato la lacuna. Non resta che far riferimento alle sentenze dei tribunali per comprendere come si orientano i giudici in merito a questa fattispecie.

Secondo un’interpretazione minoritaria, il licenziamento per scarso rendimento rientrerebbe in quello per giustificato motivo oggettivo (ossia per ragioni collegate all’azienda e all’organizzazione del lavoro): il lavoratore che opera con scarso rendimento, infatti, fornisce una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, andando a incidere negativamente sulla produzione.

L’interpretazione invece più seguita dai Tribunali riconosce la possibilità di licenziamento per scarso rendimento e lo riconduce al tipo di licenziamento disciplinare (cosiddetto “giustificato motivo soggettivo”) caratterizzato, cioè, dal notevole inadempimento del lavoratore al proprio dovere di diligenza. Questo perché il lavoratore subordinato non è tenuto a garantire al datore di lavoro un determinato risultato dalla propria attività, ma è obbligato a svolgere la prestazione osservando gli “ordini” da quest’ultimo impartitegli. Nel fare ciò, tuttavia, il lavoratore deve agire con la diligenza tipica di quella determinata prestazione. Proprio in applicazione di tali principi, la giurisprudenza ha detto che “il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale o d’uso non fa scattare automaticamente l’inesatto adempimento”. In altre parole, non c’è inadempimento solo per il fatto che non sia stato raggiunto il risultato atteso dall’azienda se il lavoratore non è responsabile di alcun comportamento negligente nello svolgimento della prestazione lavorativa. L’inadeguatezza del risultato della prestazione resa, infatti, ben potrebbe essere ascrivibile alla stessa organizzazione dell’impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore.

Dunque, non è così facile disporre un licenziamento per scarso rendimento: è infatti necessario che il datore di lavoro dimostri una condotta particolarmente grave del dipendente. Non basta provare, quindi, il solo mancato raggiungimento del risultato atteso, ma anche che ciò deriva solo dalla negligenza del lavoratore nell’esercizio della sua attività lavorativa.

Due sono quindi gli elementi che legittimano il licenziamento per scarso rendimento:
– la significativa inadeguatezza della prestazione resa dal lavoratore e dei relativi risultati
– il notevole (nella gravità) e persistente (nel tempo) inadempimento da parte del lavoratore degli obblighi scaturenti dal proprio contratto di lavoro che sia stata causa dei primi.
Di tutto ciò, dovrà dare prova il datore di lavoro.

Il lavoratore, invece, se vuol evitare il licenziamento, deve dimostrare che lo scarso rendimento è dovuto a causa a lui non imputabile, ma ad altri fattori come, per esempio, l’organizzazione dell’azienda, l’obsolescenza dei macchinari aziendali (per es. un computer lento) o anche un particolare e incolpevole stato soggettivo al momento dell’inadempimento.

Come si intima un licenziamento per scarso rendimento?
Trattandosi di licenziamento per motivo soggettivo, il datore di lavoro dovrà intimare lo stesso nel rispetto della procedura prevista dallo Statuto dei lavoratori:
– forma scritta della lettera di contestazione al dipendente;
– indicazione analitica, nella suddetta lettera, dei motivi dell’addebito;
– invio tempestivo di tale lettera al dipendente, in concomitanza della condotta contestata o degli eventi specifici;
– attesa di almeno cinque giorni (o il diverso e maggior termine previsto dall’eventuale contratto collettivo applicato) per valutare le eventuali giustificazioni del lavoratore e solo all’esito di ciò comunicare per iscritto il licenziamento (nel rispetto dell’eventuale termine previsto dal contratto collettivo applicato).

Quali sono le motivazioni del datore di lavoro?
Alla base di un licenziamento disciplinare per scarso rendimento, il datore di lavoro non può addurre giudizi soggettivi e/o valutazioni generiche di scarsa dedizione o impegno del lavoratore nello svolgimento della propria prestazione lavorativa. Dovrà invece indicare motivi oggettivi, valutati in modo sereno.

Inoltre, come detto l’inadempimento deve essere “notevole”, e cioè in grado di far venire meno l’interesse dell’azienda alla prestazione.

Infine la negligenza non deve limitarsi a un solo episodio ma deve essere stata continuativa. Il datore di lavoro potrà, per esempio, provare in giudizio che l’insofferenza del lavoratore nei confronti delle disposizioni del datore di lavoro sia rimasta inalterata anche dopo specifiche direttive impartite o addirittura dopo l’irrogazione di sanzioni disciplinari conservative di modo che il provvedimento espulsivo del licenziamento risulti l’unica soluzione possibile.

Si può licenziare il lavoratore che non raggiunge i minimi di produzione stabiliti in programmi di produttività individuale?
L’azienda è libera di stabilire dei cosiddetti “programmi di produttività individuale” (o “performance improvement plan”) con cui fissare parametri e specifici obiettivi per accertare che la prestazione sia eseguita con quella diligenza e quella professionalità proprie delle mansioni affidate al lavoratore. In questo caso, il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituirà di per sé inadempimento, ma integrerà, purtuttavia, un indice di non esatta esecuzione della prestazione. Non solo, ove il programma preveda lo svolgimento di una serie di attività ben identificate e ragionevoli, un sostanziale scostamento potrà essere prova dell’inadempimento.
Per esempio si può licenziare un lavoratore che rispetto a un programma di produttività, pur formulato con la finalità di erogare dei premi, risulti, nell’arco di quattro anni, raggiungere delle percentuali pari a rispettivamente pari al 31,6%, 37,8%, 5,5% e 5,8% rispetto agli obiettivi fissati dal programma, a fronte dei risultati tra il 42% e il 161%, raggiunti dai colleghi.

Cosa cambia con il Job Act
Il Jobs Act ha modificato solo le conseguenze in caso di illegittimità del licenziamento disciplinare, aspetto che potrebbe, comunque, avere un impatto su questo tipo di licenziamenti. Se prima era possibile, in forza del famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la reintegra sul posto di lavoro, oggi questa possibilità viene confinata solo ai casi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
In tutti gli altri casi il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità (…) per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

Giuseppe Catapano scrive: Un assegno per trovare lavoro

Arriva l’assegno di ricollocazione per i disoccupati. Graduato in funzione del profilo personale di occupabilità, potrà essere utilizzato per ottenere un servizio di assistenza intensivo nella ricerca di un posto di lavoro presso i centro per l’impiego o in un’agenzia privata accreditata. Il «pacchetto» proposto al disoccupato andrà dall’affiancamento di un tutor all’eventuale riqualificazione in funzione degli sbocchi professionali offerti dal mercato. È quanto prevede lo schema di decreto legislativo, approvato ieri dal consiglio dei ministri, che in attuazione del Jobs Act provvede al «riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive». A cominciare dall’istituzione dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, vertice della nuova rete nazionale che vedrà coinvolti anche le regioni, l’Inps, l’Inail, le agenzie per il lavoro, i fondi interprofessionali per la formazione continua, i fondi bilaterali e l’Isfol, e che darà vita a un sistema informativo unico e soprattutto al portale unico per la registrazione delle persone in cerca di lavoro. Sarà infatti al portale che occorrerà comunicare, in via telematica, la propria immediata disponibilità allo svolgere un’attività lavorativa e a partecipare alle misure di politica attiva concordate con il servizio per l’impiego, acquisendo così lo status di disoccupato. Debutta anche il disoccupato «parziale», ovvero lavoratori dipendenti o autonomi con reddito annuo prevedibile inferiore al minimo esente da imposizione fiscale (rispettivamente, 8 mila e 4.800 euro) lavoratori part-time con orario inferiore al 70% di quello normale o ancora lavoratori che usufruiscono di ammortizzatori sociali con riduzione dell’orario superiore al 50%. Per accelerare la presa in carico da parte dei servizi per l’impiego, sarà possibile registrarsi anche in pendenza del periodo di preavviso, nel qual caso i lavoratori saranno considerati «a rischio di disoccupazione».

Catapano Giuseppe: Divorzio, niente mantenimento se la donna può lavorare

Obbligo di mantenimento: continua a far discutere i tribunali la misura dell’assegno che l’uomo deve versare all’ex moglie allo scioglimento del matrimonio, specie se entrambi guadagnano poco o, addirittura, non hanno di che vivere. L’ipotesi analizzata dalla Cassazione, in una recente sentenza, è purtroppo tipica di questi tempi: lei e lui sono disoccupati, solo che l’uomo ha perso il lavoro a seguito di licenziamento, mentre lei, che è stata casalinga durante il matrimonio, non ne vuol sapere di andare a lavorare e vorrebbe continuare a essere mantenuta. Chi la spunta?

La casalinga non ottiene l’assegno di mantenimento (o, in caso di divorzio, il cosiddetto assegno divorzile). E questo solo quando ha ancora la capacità lavorativa e magari svolge pure qualche attività saltuaria. Insomma, ciascuno dei due deve badare a sé stesso e non c’è modo di obbligare l’uomo a mantenere la donna se quest’ultima è ancora giovane e ha le risorse fisiche e mentali per guadagnare qualcosa.

Finisce l’era della donna sempre a carico?

In verità, in questi casi, a prevalere è sempre l’analisi del confronto tra i due tenori di vita condotti dai coniugi prima e dopo lo scioglimento del matrimonio. Perché, se a seguito della separazione o del divorzio, le condizioni si equivalgono e non c’è modo di stabilire se l’uno “stia meglio” dell’altro, allora si annullano anche gli obblighi di versamento dell’assegno di mantenimento. Insomma la partita finisce in “pareggio”.

Se prima della separazione la donna si occupava del ménage familiare, badando alla casa e alle faccende domestiche, mentre il marito lavorava, non può dopo lamentarsi di non poter procurarsi i mezzi per tenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio se ha ancora una capacità produttiva legata all’età o alla preparazione/specializzazione. E non può di certo gravare sulle spalle dell’uomo che è senza lavoro.

E allora sul piatto della bilancia le due posizioni si equivalgono: due disoccupati, ma lui involontariamente e lei per scelta, nonostante sia ancora in età di produrre reddito. Questo fatto non passa inosservato alla Cassazione che rigetta ogni richiesta di mantenimento avanzata dalla donna.

Catapano Giuseppe: Collaborazione occasionale: limiti e adempimenti fiscali

Le collaborazioni occasionali sono rapporti di lavoro autonomo aventi ad oggetto prestazioni svolte occasionalmente e non abitualmente da lavoratori autonomi o studenti a favore di un datore di lavoro (o più precisamente di un committente).

Esse si differenziano dai contratti di lavoro tipici e in particolare da quelli di lavoro subordinato poiché il collaboratore occasionale mantiene la propria autonomia e da quelli a progetto perché manca il carattere continuativo della collaborazione.

La collaborazione occasionale può rappresentare uno strumento utile tanto al collaboratore che può affiancare una fonte di guadagno extra rispetto alla propria attività lavorativa o agli studi, quanto al datore di lavoro che può usufruire dell’attività lavorativa altrui senza sottostare agli obblighi contributivi e fiscali tipici del contratto di lavoro subordinato o a progetto.

Proprio per la convenienza ed elasticità di tale tipo di collaborazioni, che potrebbero celare nella sostanza veri e propri rapporti di lavoro subordinato, il legislatore ha stabilito determinati limiti economici e di durata affinché il rapporto di lavoro possa essere qualificato come occasionale.

In particolare:

– la collaborazione non deve durare più di trenta giorni nell’arco dell’anno solare;

– la retribuzione annuale complessiva del collaboratore non deve superare i cinquemila euro lordi.

Se i suddetti limiti vengono superati il contratto viene qualificato come contratto di collaborazione a progetto.

Il contratto di collaborazione occasionale non deve necessariamente avere forma scritta; il datore di lavoro e il collaboratore possono anche accordarsi oralmente sull’attività da svolgere. Tuttavia, la forma scritta è consigliabile per tutelare entrambe le parti in caso di contrasti.

“Collaborazione” significa che le parti si trovano sullo stesso piano e non vi è vincolo di subordinazione e dipendenza; ne deriva che il datore non può vincolare il collaboratore a schemi e orari o esercitare poteri di direzione tipici del datore di lavoro nei contratti di lavoro subordinato.

Dal punto di vista fiscale
I compensi del collaboratore sono soggetti a ritenuta d’acconto (pari al 20%).

A tal fine il collaboratore (che non ha bisogno di partita Iva) deve rilasciare al committente una ricevuta per prestazione occasionale. In essa devono essere indicati i dati personali delle parti, la data e il numero d’ordine della ricevuta, il corrispettivo lordo, la ritenuta d’acconto e il corrispettivo netto.

Il corrispettivo rientra fra i cosiddetti redditi diversi e deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi al quadro RL di UNICO PF, indicando l’importo del reddito lordo e della ritenuta d’acconto subita.

Si è esonerati dalla presentazione della dichiarazione dei redditi se nell’arco dell’anno l’unica fonte di reddito è consistita nel lavoro autonomo occasionale al di sotto della somma complessiva di 4.800,00 euro lordi.

Dal punto di vista previdenziale
Non ci sono invece obblighi di contribuzione. Questi scattano però nel momento in cui i compensi del collaboratore superano la soglia di cinquemila euro (da intendersi come compenso lordo considerando la somma dei compensi corrisposti da tutti i committenti occasionali nell’arco dell’anno solare).

In questo caso i collaboratori devono comunicare tempestivamente ai committenti occasionali il superamento della soglia di esenzione e iscriversi alla Gestione separata INPS, a meno che non siano già iscritti. Essi sono inoltre tenuti al versamento dei contributi solamente sulla quota di reddito eccedente i cinquemila euro.

Più precisamente l’imponibile previdenziale è costituito dal compenso lordo, dedotte eventuali spese poste a carico del committente e risultanti dalla fattura.

Se la soglia di cinquemila euro viene superata per più compensi ricevuti nello stesso mese, ciascun committente concorre in misura proporzionale, in base al rapporto fra il suo compenso ed il totale di quelli erogati nel mese.

Catapano Giuseppe informa: Diritti e doveri del lavoratore dipendente e del datore di lavoro

Tempo di Job Act: si fa un gran parlare di diritti del lavoratore (un po’ meno dei doveri) e delle facoltà concesse al datore di lavoro di licenziamento. In questa ansia di riforma, però – forse giustificata dall’urgente esigenza di rilanciare il mercato del lavoro e ristabilire l’occupazione nel Paese – si dimenticano quali siano i principi base posti dalla Costituzione, dallo Statuto dei lavoratori e dalle leggi speciali in materia di lavoro dipendente. Cerchiamo, quindi, di fare una rapida panoramica sull’argomento. 1 | DIRITTI DEL LAVORATORE Il lavoratore subordinato si obbliga a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Il più importante diritto del lavoratore consiste nella corresponsione della retribuzione, che, in mancanza di contratto collettivo applicabile o di contratto individuale, viene determinata dal giudice, anche tenendo conto di quanto stabilito al riguardo dalla contrattazione collettiva. La retribuzione deve essere proporzionata al lavoro svolto e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La donna lavoratrice e i minori hanno gli stessi diritti degli altri lavoratori e, a parità di lavoro, hanno diritto alla parità della retribuzione. Il lavoratore ha inoltre diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali garantite, cui non può rinunziare. ln caso di continuo e ripetuto mancato godimento del riposo settimanale e delle ferie il lavoratore può chiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno alla salute così subito. Il lavoratore studente ha diritto a turni di lavoro che gli consentano di partecipare ai corsi e di prepararsi agli esami; non può essere obbligato a svolgere lavoro straordinario, tanto meno durante i riposi settimanali. ln coincidenza con gli esami da sostenere, ha diritto a ottenere permessi giornalieri retribuiti. Il dipendente in servizio di leva ha diritto alla conservazione del posto. Lo stesso vale per il lavoratore che ha scelto di svolgere servizio civile (norme tuttavia da attualizzare con la recente abolizione della leva obbligatoria). Hanno diritto a permessi retribuiti i lavoratori donatori di sangue e i componenti i seggi elettorali. Il lavoratore ha inoltre diritto di svolgere attività sindacale all’interno dell’ azienda e di aderire agli scioperi regolarmente indetti. I lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o sindacali possono ottenere aspettative e distacchi sindacali. 2 | OBBLIGHI DEL LAVORATORE Il lavoratore è, d’altra parte, tenuto a usare, nell’espletamento delle sue mansioni, la diligenza richiesta dalla natura delle prestazioni da svolgere e deve osservare le direttive dell’imprenditore e dei propri superiori. Oltre al suddetto obbligo di diligenza, grava sul lavoratore l’obbligo di fedeltà: il dipendente non può trattare affari in concorrenza con il suo datore di lavoro, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e alla produzione aziendale, o farne uso in maniera da recare danno all’azienda stessa. In caso di violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà da parte del lavoratore, il datore di lavoro può comminargli sanzioni disciplinari, che vanno dalla multa alla sospensione dal lavoro fino al licenziamento. Il patto di non concorrenza Abbiamo visto che l’obbligo di fedeltà che grava sul lavoratore comporta che quest’ultimo non possa svolgere attività in concorrenza con il suo datore di lavoro. Ciò vale naturalmente solo finché quel determinato rapporto di lavoro continua. Nel momento in cui il rapporto viene a cessare, il divieto di concorrenza viene anch’esso meno e il dipendente è naturalmente libero di cercarsi un altro lavoro e di trovarlo presso la concorrenza. Anzi è normale che ciò avvenga, soprattutto quando il lavoratore è in possesso di specializzazioni tali da far sì che le sue capacità e le sue conoscenze siano richieste soprattutto da aziende che operano nello stesso settore economico del precedente datore di lavoro. Ad esempio, è normale che un tecnico specializzato nel riparare televisori, una volta risolto il rapporto con la ditta che lo aveva assunto, passi alle dipendenze di un’azienda che svolga analoga attività. Il datore di lavoro può pretendere che il suo ex dipendente non svolga attività in concorrenza solo in forza di un apposito patto di non concorrenza. Il patto di non concorrenza, per essere valido, deve: – risultare da accordo scritto; – prevedere un corrispettivo, cioè un compenso, adeguato a favore del prestatore di lavoro; – esplicitare esattamente quali sono le attività che il lavoratore non deve svolgere e specificare in quale settore economico non deve essere esercitata la concorrenza; – prevedere un vincolo contenuto entro determinati limiti territoriali (ad esempio, entro un determinato Comune); – prevedere una durata non superiore a 3 anni (5 per i dirigenti). 3 | DIRITTI DEL DATORE DI LAVORO Il datore di lavoro è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente tutti i collaboratori della stessa. Gli è riconosciuto un potere disciplinare . Gli obblighi e i diritti del datore di lavoro sono speculari a quelli del lavoratore. Ln correlazione al diritto del lavoratore a ricevere un compenso adeguato sussiste, quindi, l’obbligo del datore di lavoro a corrispondere la retribuzione. Di contro, il dovere di fedeltà del lavoratore coincide con il diritto del datore di lavoro a pretendere dal lavoratore un comportamento improntato a diligenza e lealtà. 4 | OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO Il principale obbligo del datore di lavoro consiste naturalmente nel corrispondere le retribuzioni dovute al lavoratore. L’imprenditore è tenuto a porre in essere tutte le misure che possano garantire l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. La legislazione relativa alla sicurezza del lavoro prevede una serie di misure e adempimenti che il datore di lavoro deve adottare a garanzia della sicurezza e della salute dei lavoratori. Il datore di lavoro deve inoltre provvedere al versamento delle contribuzioni relative alle forme di previdenza e assistenza previste obbligatoriamente dalla legge.

Catapano Giuseppe scrive: Omesso versamento delle ritenute: il pagamento estingue il reato?

L’esercizio di attività commerciali o d’impresa è diventato sempre più difficile in questi ultimi anni: tanti i carichi economici da sostenere, a fronte di entrate fin troppo esigue. Tant’è che, spesso, si preferisce provvedere alle necessità più urgenti (quali il pagamento dei fornitori, le retribuzioni dei dipendenti, ecc.), rinviando a un secondo momento l’adempimento di quelle meno immediate, quali gli obblighi contributivi.

Tuttavia tale omissione non sfugge all’occhio attento del legislatore che impone al datore di lavoro l’obbligo di versare all’INPS le ritenute operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti entro il sedicesimo giorno del mese successivo a quello a cui si riferiscono, pena la configurazione del reato di omesso versamento delle ritenute .

Brevemente è opportuno ricordare che la figura in esame integra quello che i giuristi chiamano “un illecito omissivo istantaneo” cioè un delitto che si consuma nel momento in cui scade il termine utile previsto dalla legge per effettuare il pagamento.

Secondo la giurisprudenza costante, l’obbligo previdenziale presuppone l’effettivo pagamento della retribuzione: di conseguenza, il datore di lavoro non andrà incontro a responsabilità penale qualora, non avendo la disponibilità economica per pagare gli stipendi dei propri dipendenti, ometta di versare le relative ritenute .

L’omesso versamento entro i termini stabiliti dal legislatore, benché integri il reato sin dalla scadenza del termine prestabilito, non fa sorgere immediatamente la responsabilità penale.
La legge fornisce, infatti, una via di salvezza prevedendo che “il datore di lavoro non é punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

In concreto, l’ente previdenziale, una volta accertato l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, trasmette al contribuente un avviso nel quale comunica l’omissione, i periodi contributivi interessati e lo informa della possibilità di regolarizzare il debito entro tre mesi dalla ricezione dell’accertamento.

La previsione ora citata integra una causa di non punibilità, cioè un’ipotesi in cui, pur essendosi perfezionato il reato in tutti i suoi elementi costitutivi, il legislatore ritiene opportuno non esercitare la potestà punitiva qualora il reo provveda tempestivamente a sanare la propria inadempienza.

Bisogna ricordare che, anche dopo la notifica del decreto penale di condanna, il contribuente può beneficiare della non punibilità qualora dimostri la mancata comunicazione dell’avviso da parte dell’INPS e purché il decreto contenga tutti gli elementi informativi già indicati (cioè le somme dovute, i periodi contributivi interessati).

Anche nel caso di citazione diretta a giudizio, l’imputato potrà ottenere un rinvio e beneficiare della causa di non punibilità qualora la citazione contenga gli elementi previsti per l’accertamento e non sia stata preceduta dalla notifica dell’avviso.

In ultimo con legge delega dell’aprile 2014, il Parlamento ha conferito al Governo il compito di trasformare in illecito amministrativo il reato tributario in esame limitatamente all’ipotesi in cui l’omesso versamento non ecceda la soglia di 10.000 euro annui e preservando il principio secondo cui il datore di lavoro non risponde dell’illecito amministrativo se provvede al pagamento delle somme dovute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.