Per dimostrare di aver correttamente notificato la cartella esattoriale, Equitalia è tenuta a esibire l’originale dell’avviso di ricevimento della raccomanda spedita al cliente. Non ci sono altri mezzi per fornire tale prova. Non vale la fotocopia e, ancor di più, il semplice estratto di ruolo. Va bene, dunque, che ormai la giurisprudenza abbia ritenuto valida la notifica diretta, a mezzo posta, da parte dell’esattore, ma almeno la prova della correttezza di tale adempimento deve essere certa e cristallina: e non c’è altro modo di fornirla se non producendo il cosiddetto “a.r.” in originale. Del resto, è proprio l’avviso di ricevimento che può fornire la dimostrazione incontrovertibile della data di spedizione e di ricezione (essenziale per verificare se Equitalia sia decaduta dal potere di riscuotere e se il contribuente abbia presentato il ricorso nei termini). Lo ha chiarito la Cassazione con una sentenza di questa mattina. Attenzione però: non è necessario che Equitalia porti in causa anche la copia della cartella (salvo – aggiungiamo noi – che il contribuente contesti anche il contenuto del plico stesso, nel qual caso spetta al notificante fornire la prova contraria e dimostrare cosa la busta contenesse: leggi “Equitalia deve dimostrare l’esatto contenuto della cartella di pagamento”). Con una lunga motivazione, la Suprema Corte ha sottolineato che in tema di notifica della cartella esattoriale, la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione e della relativa data può essere fornita solo mediante la produzione dell’avviso di ricevimento. Come detto però, la copia della cartella di pagamento non deve necessariamente essere presentata al giudice: la cartella, infatti – si legge in sentenza – una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi consegnata a quest’ultimo. Essa, in pratica, già si “presume” conosciuta con la semplice esistenza dell’avviso di ricevimento, salvo prova contraria da parte del contribuente. Quest’ultimo, cioè, dovrebbe dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione. La sentenza contiene poi un’ultima importante precisazione. L’omissione della notifica della cartella di pagamento è un vizio che ha come conseguenza la nullità del pignoramento di Equitalia. E l’opposizione al pignoramento va presentata davanti al giudice dell’esecuzione (tribunale ordinario e non CTP), anche quando ne venga fatta valere la nullità per omessa notifica della cartella (o dell’intimazione ad adempiere); in tale caso, il giudice dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica all’esclusivo fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale. Sul problema della giurisdizione competente a decidere l’opposizione al pignoramento di Equitalia si era pronunciata la stessa Cassazione qualche giorno fa e da noi segnalata in “Competenza e giurisdizione contro l’esecuzione forzata di Equitalia”.
Cassazione
Giuseppe Catapano scrive: OMESSO VERSAMENTO DI IMPOSTE: SOTTO ACCUSA LA SOCIETÀ. CARTELLA LEGITTIMA ANCHE PER LA SOCIA CHE, AD ANNO IN CORSO, HA CEDUTO LE PROPRIE QUOTE
“Omesso versamento di imposte”: questa la contestazione nei confronti della società. A essere chiamati in causa, però, sono anche i soci, con relative “cartelle”.
Per una socia, però, i giudici tributari regionali ritengono corretto annullare una singola “cartella”, relativa all’anno 1999, perché essa concerneva “un periodo temporale” in cui la donna “non ricopriva più” il ruolo di componente della compagine societaria.
Tale visione, però, è ritenuta eccessiva dai giudici della Cassazione, i quali, di conseguenza, considerazioni illegittimo l’azzeramento della “cartella”. Ciò innanzitutto perché, alla luce della “disciplina in tema di responsabilità dei soci per debiti della società”, deve “escludersi che la donna fosse esonerata dalla responsabilità per il periodo durante il quale, nell’anno 1999” ella “ricopriva ancora la qualità di socia”.
Allo stesso tempo, va evidenziato che “la Commissione tributaria regionale è partita dal presupposto che le somme portate dalla cartella per l’anno 1999 si riferissero all’intera annualità e non al periodo durante il quale la donna era stata socia”, mentre l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto “di avere indicato nel corso del giudizio i documenti dai quali risultava che la cartella impugnata aveva riguardato unicamente il periodo” dell’anno in cui la donna “era stata socia”.
Peraltro, aggiungono i giudici in conclusione, una volta acclarata “la circostanza che la cartella” è stata “ridotta nell’importo rispetto alla maggiore pretesa relativa all’anno 1999, correlata alla partecipazione societaria della contribuente”, il giudice di merito avrebbe comunque dovuto “rideterminare la pretesa fiscale nella parte ritenuta dovuta”, senza poter optare per “l’annullamento dell’intera cartella”, dovendo il giudice “dichiarare l’inefficacia della cartella soltanto in relazione alle somme non dovute”.
Tutto ciò conduce i giudici della Cassazione a tenere aperta la vicenda giudiziaria, affidandola nuovamente alle valutazioni dei componenti della Commissione tributaria regionale.
Catapano Giuseppe osserva: IMMOBILE VENDUTO DALLA SOCIETÀ A PREZZO TROPPO BASSO: FRAGILI LE ACCUSE DI BANCAROTTA NEI CONFRONTI DELL’AMMINISTRATORE
Condannato per “distrazione” di una corposa somma dall’“attivo fallimentare della società”. Ma l’accusa di “bancarotta” nei confronti dell’amministratore si rivela assai fragile…
Su questo punto sono significative le valutazioni compiute dai giudici della Cassazione, i quali, ritenendo legittime le obiezioni mosse dall’uomo, evidenziano alcune ‘stranezze’ nel ragionamento seguito in Corte d’Appello.
Innanzitutto, “la bancarotta” contestata all’amministratore “si fonda sulla rilevante differenza tra il valore dell’immobile, come indicato nel mutuo ipotecario concesso dalla banca per la ristrutturazione, e il successivo prezzo di cessione”, però “i dati di fatto che hanno portato all’accertamento di responsabilità risultano acquisiti attraverso la testimonianza del curatore, sulla cui diligenza nell’accertamento dei fatti costitutivi del reato contestato non si possono che nutrire fondati dubbi”, anche considerando che egli “non si era nemmeno accorto che tale mutuo non era mai stato erogato dalla banca, né aveva fatto alcun accertamento in tal senso…”.
Allo stesso tempo, “la valutazione di sproporzione del prezzo di vendita dell’immobile è stata effettuata dal curatore senza nemmeno ispezionarlo, per verificarne le condizioni, senza farlo periziare e senza neppure acquisire o leggere l’atto di mutuo fondiario che era stato ritenuto probante in relazione alla valutazione dell’immobile ivi contenuta. Condotta assai poco diligente, soprattutto se si considera che accade purtroppo con una certa frequenza (ma soprattutto accadeva nel passato) che il valore degli immobili nei contratti di mutuo sia gonfiato per ottenere maggior credito dalla banca”.
Eppoi, aggiungono i giudici, non bisogna dimenticare, in merito ai “rapporti tra l’atto ed il fallimento”, che “la vendita precedette il fallimento di ben undici anni” e che “il passivo della procedura concorsuale era molto contenuto”, pari a circa 45.000 euro.
Evidente, per i giudici di Cassazione, che le “prove a carico, valorizzate dal giudice d’appello, quantomeno in relazione all’elemento oggettivo del reato (in particolare con riferimento alla sproporzione del prezzo di vendita), sono ben poco consistenti e comunque non sufficienti a fondare una sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta”.
Tutto ciò spinge, ovviamente, a riaffidare la vicenda ai giudici di secondo grado, i quali dovranno effettuare una “nuova valutazione sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato”.
Catapano Giuseppe informa: Guidare l’auto con il solo foglio rosa è reato?
Guidare con solo il foglio rosa e senza avere accanto una persona munita di patente dal almeno 10 anni non costituisce reato. A chiarirlo è stata la Cassazione con una sentenza di ieri . Per il responsabile, però, scatta una sanzione amministrativa prevista dal codice della strada pari a una somma da euro 419 a euro 1.682, oltre al fermo amministrativo del mezzo per tre mesi. Non solo. La legge impone che le esercitazioni su veicoli nei quali non possa prendere posto, oltre al conducente, altra persona in funzione di istruttore sono consentite in luoghi poco frequentati . Diversamente scatta una sanzione da 84 a 335 euro. Illecito amministrativo, dunque, e non reato. La Cassazione afferma che, in caso di possesso del foglio rosa e mancata presenza di un accompagnatore con patente di guida da almeno 10 anni, il fatto contestato non è previsto dalla legge come reato. Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 18 febbraio – 2 marzo 2015, n. 9195 Presidente Sirena – Relatore Montagni Ritenuto in fatto 1. S.G., a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in data 13.02.2014, con la quale è stata affermata la penale responsabilità dei prevenuto in ordine al reato dì cui all’art. 116, comma 13, cod. strada, con condanna alla pena di € 3.000,00 di ammenda. II ricorrente contesta l’affermazione di responsabilità penale; rileva il verbalizzante, sentito in giudizio, ebbe a riferire che Steven, al momento del controllo, era in possesso del c.d. foglio rosa; e che non era però accompagnato da altro soggetto titolare di patente di guida da almeno dieci anni. A sostegno degli assunti, l’esponente allega al ricorso la patente di guida che ha conseguito in data 7.02.2009. Ciò premesso, il ricorrente osserva che il Tribunale, pur avendo dato atto delle circostanze sopra riferite, ha omesso di riqualificare il fatto nell’ambito della violazione amministrativa di cui all’art. 122 comma 8, cod. strada. Con il secondo motivo la parte si duole della entità della pena e della mancata concessione della sospensione condizionale. Considerato in diritto 1. II ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono. Osserva il Collegio che ad oggi risulta intervenuta la causa estintiva del reato contravvenzionale per cui si procede, essendo spirato il relativo termine di prescrizione massimo pari ad anni cinque in data 12.04.2014, tenuto conto delle intervenute sospensioni. Ciò posto, occorre peraltro rilevare che nel caso ricorrono le condizioni per una pronuncia assolutoria di merito, ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in considerazione delle errate valutazioni rese dal giudice procedente, in ordine all’affermazione di penale responsabilità del ricorrente. Ed invero, il giudicante riferisce espressamente che l’imputato era in possesso del foglio rosa al momento del controllo; e che, peraltro, non si trovava accompagnato da un istruttore o altro soggetto in possesso del titolo abilitato da almeno dieci anni. Risulta, allora, evidente che, sulla base degli stessi elementi posti a fondamento della sentenza impugnata, il fatto per cui si procede non è previsto dalla legge come reato. Come correttamente osservato dalla difesa nel primo motivo di doglianza, infatti, la guida del veicolo, da parte di soggetto autorizzato all’esercitazione, non accompagnato da persona provvista di patente di guida da almeno dieci anni, come nel caso di specie, integra la violazione amministrativa di cui all’art. 122, comma 8, cod. strada. 2. Si impone pertanto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Resta assorbito ogni altro profilo di censura. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Catapano Giuseppe informa: Processi lunghi: il risarcimento non spetta per le cause tributarie
Il binomio “causa troppo lunga = risarcimento del danno” non vale se il giudizio è stato incardinato alle commissioni tributarie. La cosiddetta Legge Pinto, infatti, che prevede l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo non si applica nel caso di giudizio tributario, salvo che la controversia non verta sulle sanzioni fiscali. Il chiarimento proviene da una sentenza della Cassazione di questa mattina: una pronuncia che è certamente nuova nel suo genere. La stessa questione, infatti, era stata esaminata solo un’altra volta dalla Cassazione in un caso analogo e rimasto però inedito. Dunque, le vittime delle lungaggini del processo innanzi alle Commissioni Tributarie (come per esempio quanti attendono per ottenere il rimborso di ritenute indebitamente versate), non potranno contare sugli indennizzi previsti, invece, per le cause ordinarie. Il che ci offre un’ulteriore spiegazione al perché le cause presso le Commissioni siano così lunghe. La Corte ha chiarito che la disciplina sul risarcimento da 500 a 1500 euro per mancato rispetto del termine ragionevole durata del processo (termine di 3 anni per il primo grado, 2 per l’appello e 1 per la Cassazione) non è applicabile ai giudizi in materia tributaria riguardanti la potestà impositiva dello Stato, stante l’estraneità e irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento della legge. Fanno eccezione solo le cause riguardanti sanzioni tributarie assimilabili a sanzioni penali per il loro carattere afflittivo, che sia a tal punto significativo da farle apparire alternative a una sanzione penale ovvero a una sanzione che, in caso di mancato adempimento, sia commutabile in una misura detentiva; e quelle che pur essendo riservate alla giurisdizione tributaria sono riferibili alla “materia civile“, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti consequenziali.
Catapano Giuseppe comunica: Equitalia deve dimostrare l’esatto contenuto della cartella di pagamento con raccomandata
È possibile che il destinatario di una raccomandata, inviata in busta chiusa, possa affermare di aver ricevuto una busta vuota o un atto diverso da quello notificato, invalidando, di fatto, la notifica? Assolutamente sì. Anche se la controparte è un soggetto con poteri pubblici come Equitalia? Certamente. E lo potrà fare “appigliandosi” a una sentenza appena emessa dalla Cassazione di cui vi parleremo in questo articolo. Raccomandata: cosa c’è dentro? Diciamoci la verità: a tutti, almeno una volta, è venuto il dubbio di chiedersi come fa il mittente di una raccomandata (per esempio: una diffida, una messa in mora, ecc.) a dimostrare, in caso di contestazione da parte del destinatario, che nella busta consegnata dal postino vi fosse davvero quel particolare documento e non altri. Un problema di non poco conto, che oggi, all’esito di una recentissima e importante sentenza della Cassazione, rischia di mettere nel nulla la notifica di tutte le cartelle esattoriali di Equitalia inviate attraverso le Poste. In buona sostanza, nel momento in cui viene aperto il plico raccomandato (il bustone bianco spedito da Equitalia) è presente solo il contribuente, nelle sue quattro mura, e nessun’altro. Dunque, che succede se questi sostituisce il contenuto della raccomandata con altra “carta straccia”? Certamente un comportamento fraudolento, ma difficile da dimostrare. E potrebbe sembrare incredibile che il suggerimento venga proprio dalla Suprema Corte che ha analizzato un caso di questo tipo. Ne avevamo già parlato, qualche giorno fa, nell’articolo “Quando sono nulle le comunicazioni con raccomandata di Equitalia”, ma val la pena ribadire la questione, anche sotto diversi aspetti, per comprendere la portata di questa sentenza teoricamente giusta, ma, nella sostanza, con effetti dirompenti per le casse dell’Erario. Cosa dice la Cassazione Nella sentenza appena citata si precisa che la spedizione effettuata da Equitalia non dà, di per sé, garanzia che nella busta vi fosse effettivamente la cartella di pagamento. Al contrario, nel caso di notifica della cartella esattoriale mediante l’invio diretto di una busta chiusa raccomandata postale, spetta al mittente (appunto Equitalia) fornire la dimostrazione del suo esatto contenuto qualora il destinatario lo contesti (ossia sostenga che nel plico vi fosse “dell’altro”). E questo, ovviamente, nell’ipotesi in cui Equitalia abbia conservato solo la cartolina di ricevimento. In caso di contestazione relativa al contenuto della busta spedita, l’onere della prova di detto contenuto spetta al mittente, anche quando si tratta del concessionario della riscossione che, come noto, benché soggetto privato, è dotato di poteri pubblici. Dunque, detto in parole ancora più semplici, se il contribuente nega di avere ricevuto la cartella di pagamento inviata per posta, spetta a Equitalia dimostrare l’esatto contenuto del plico raccomandato. Soluzioni? Una interpretazione di questo tipo – che, certamente, è astrattamente conforme al diritto – ha degli effetti pratici imprevisti: ossia una pioggia di ricorsi contro Equitalia, da parte di contribuenti che potrebbero sostenere, al solo fine di invertire l’onere della prova in giustizio (e sfruttare le maglie larghe dell’inefficienza dell’amministrazione), di non aver mai ricevuto il contenuto della cartella di pagamento. In pratica, “appigliandosi” a questa sentenza, il destinatario di una raccomandata inviata in busta chiusa potrà sempre affermare di aver ricevuto una busta vuota o un atto diverso da quello notificato, invalidando, di fatto, la notifica. In verità, soluzioni per lo Stato potrebbero esservene. Già solo l’utilizzo della notifica attraverso la Pec (la posta elettronica certificata) consentirebbe la certezza del contenuto del messaggio. Non solo. Anche a voler sfruttare i vecchi metodi cartacei, si potrebbe utilizzare la cosiddetta “raccomandata senza busta”: quella cioè dove il foglio della lettera è anche busta, perché piegata tre volte su sé stessa e, dopo essere stata spillata e compilata con l’indirizzo del destinatario (evidentemente su un lato bianco), viene affrancata, timbrata e spedita (per vedere come si fa, con le foto passo per passo, leggi: “Come spedire una raccomandata senza busta”). Ma a queste accortezze, almeno per ora, l’Agente per la riscossione non è ricorso…