Gli effetti dell’adesione allo scudo fiscale

A stabilirlo la sezione penale della Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso presentato da due imprenditori.

In particolare “il delitto di trasferimento fraudolento di valori, di cui all’art. 12-quinquies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, è un reato di pericolo astratto, essendo sufficiente, per la sua commissione, che l’agente, sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione, compia un qualsiasi negozio giuridico al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali; ne consegue che la valutazione circa il pericolo di elusione della misura va compiuta ex ante, su base parziale, ovvero, alla stregua delle circostanze che, al momento della condotta, erano conosciute o conoscibili da un uomo medio in quella determinata situazione spazio-temporale”. L’adesione allo scudo fiscale con conseguente rimpatrio dei capitali diviene così un “radicale ostacolo alla configurabilità delle successive operazioni commerciali quali autonome condotte penalmente rilevanti”.

Agevolazioni “prima casa” computo della superficie utile. (Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 2010 del 26 gennaio 2018)

In tema di imposta di registro, per stabilire se un’abitazione sia di lusso e, quindi, sia esclusa dall’agevolazione per l’acquisto della prima casa, di cui all’art. 1, comma III, Parte prima, Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 (T.U. Imposta Registro), occorre fare riferimento alla nozione di “superficie utile complessiva” di cui all’art. 6 del D.M. Lavori Pubblici 2 agosto 1969. In forza di detto provvedimento è irrilevante il requisito dell'”abitabilità” dell’immobile, siccome da esso non richiamato, mentre quello della “utilizzabilità” degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità, costituisce parametro idoneo ad esprimere il carattere “lussuoso” di un’abitazione assumendo rilievo – in coerenza con l’apprezzamento dello stesso mercato immobiliare – la marcata potenzialità abitativa dello stesso. in ogni caso, in esito all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui al d.lgs. 23/2011, non sono dovute le sanzioni applicate .

Controversie previdenziali

Cassazione Sez. Un. Civili, 23 Luglio 2018, n. 19523. Est. Manna

Similmente, appartengono alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in funzione di giudice del lavoro, le controversie concernenti la legittimità delle trattenute assicurativo-previdenziali operate dal datore di lavoro su somme corrisposte al lavoratore, trattandosi di materia previdenziale alla quale è completamente estranea la giurisdizione tributaria, mancando del tutto un atto qualificato, rientrante nelle tipologie di cui all’art. 19, d.lgs. n. 546 del 1992 o ad esse assimilabili, che costituisca esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione proprio del rapporto tributario (cfr. Cass. S.U. n. 26149/17).

Ad analoga conclusione deve pervenirsi anche riguardo alle controversie in cui si discuta della legittimità o meno d’un avviso di addebito emesso dall’INPS, che dal 1° gennaio 2011 ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto istituto (v. art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla l. n. 122 del 2010).

Mandato d’arresto europeo: occorre il rischio reale

Rinvio pregiudiziale – Procedimento pregiudiziale d’urgenza – Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale – Mandato d’arresto europeo – Decisione quadro 2002/584/GAI – Articolo 1, paragrafo 3 – Procedure di consegna tra Stati membri – Condizioni di esecuzione – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 47 – Diritto a un giudice indipendente e imparziale

L’articolo 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, deve essere interpretato nel senso che, qualora l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, chiamata a decidere sulla consegna di una persona oggetto di un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esercizio di un’azione penale, disponga di elementi, come quelli contenuti in una proposta motivata della Commissione europea, adottata a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, TUE, idonei a dimostrare l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo garantito dall’articolo 47, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente, detta autorità deve verificare in modo concreto e preciso se, alla luce della situazione personale di tale persona, nonché della natura del reato per cui è perseguita e delle circostanze di fatto poste alla base del mandato d’arresto europeo, e tenuto conto delle informazioni fornite dallo Stato membro emittente, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro 2002/584, come modificata, vi siano motivi seri e comprovati di ritenere che, in caso di consegna a quest’ultimo Stato, detta persona corra un siffatto rischio.

 

La superficialità probatoria inficia l’accertamento

L’Amministrazione Finanziaria non può giustificare i propri recuperi adducendo unicamente una mancanza di trasparenza nel contegno del contribuente e il sospetto di evasione d’imposta: la carenza di motivazione rappresenta in tale ambito un efficace tassello della difesa tributaria.
Con una sintetica ma efficace pronuncia, la Cassazione (Cass. Civ. Sez. VI, ord. 25.06.2018, n. 16647) interviene su una tematica di rilievo riguardante la valutazione della concretezza della strutturazione probatoria dei rilievi mossi
dall’Agenzia delle Entrate nel contesto delle ordinarie attività ispettive, di controllo e accertamento.
In particolare, la vicenda trae spunto da un’attività accertativa risultante ex post evidentemente carente sotto l’aspetto dell’idoneità probatoria dei recuperi oggetto di contestazione. Infatti è stato rilevato ed evidenziato, in sede di giudizio di merito, che le singole pretese tributarie risultavano connotate da evidenti carenze, insufficienze e
superficialità dei recuperi, in quanto l’accertamento dell’Ufficio finanziario procedente risultava esser fondato su evidenze fattuali esposte in maniera approssimativa e generica, avendo l’ufficio dedotto, ma non concretamente esplicato e motivato, la mancanza di trasparenza nella condotta del contribuente verificato (tramite c.d. redditometro) e arrestandosi in tale contesto a gettare sospetti, senza dimostrare con prove le proprie asserzioni.
I rilievi del Fisco, in tale prospettiva, sono stati ritenuti “indimostrati” e pertanto “non ammessi”.
La pronuncia in commento, nonostante la brevità e la semplicità espressa, ruota attorno al fulcro di ogni controversia col
Fisco: la prova.
Si rileva infatti che nel contesto della propria attività istituzionale, per i controlli orientati alla corretta determinazione degli imponibili e delle imposte, l’Amministrazione Finanziaria si deve adoperare per la ricerca della prova, soprattutto nei casi in cui debba giustificare una propria pretesa impositiva o sanzionatoria.
Affinché l’attività svolta dall’Amministrazione Finanziaria possa superare il vaglio di eventuali invalidità, è opportuno che nell’esecuzione di tali incombenze sia rispettato tale dovere che, concretamente, si trova a essere frazionato:
– in primis, nell’obbligo di acquisire elementi informativi concretamente idonei ad attestare la rispondenza al vero degli enunciati fattuali insiti nella propria pretesa impositiva;
– in seconda istanza, nell’obbligo di esplicitare in maniera adeguata, nella motivazione, i presupposti alla base di tali pretese.
L’obbligatorietà e la completezza della motivazione emergono in maniera piuttosto evidente da un buon numero di norme (in primis l’art. 3, L. 241/1990), sino a giungere alla formulazione sulla disciplina delle sanzioni tributarie,
prevedendo espressamente, nell’art. 16 D.Lgs. 472/1997, l’obbligo per l’ufficio di enunciare gli elementi probatori nell’atto di contestazione delle sanzioni e comminando la sanzione della nullità in caso di inosservanza di tale precetto.
In termini di completezza del controllo a posteriori di tali attività accertative e avuto riguardo agli argomenti proposti, si ritiene che in termini funzionali possano costituire oggetto di controllo valutativo sia la prova quale elemento cognizione
(il mezzo di prova), che la prova come fattore dimostrativo (dimostrazione del fatto).

Catapano Giuseppe osserva: Avvocati, un appello a Orlando

Un intervento del ministro della giustizia per risolvere il caos elezioni degli ordini forensi. Su 101 consigli rinnovati, infatti, in 20 hanno sporto reclamo elettorale dinanzi al Cnf. E i restanti sono in regime di prorogatio, con limiti allo svolgimento delle attività amministrative. L’indicazione unanime a via Arenula, dopo la sentenza del Tar dello scorso giugno, è arrivata ieri in occasione dell’Agorà degli ordini forensi, promossa dal Consiglio nazionale forense come luogo di confronto istituzionale per le questioni di interesse dell’avvocatura. La richiesta, da parte dei rappresentanti delegati dei consigli degli ordini dei 26 distretti di Corte d’appello, è stata di garantire al sistema ordinistico la necessaria stabilità con l’assunzione di un indirizzo che risolva in maniera definitiva e senza margini di incertezza le problematiche derivanti dalla sentenza Tar, che ha annullato alcune previsioni del regolamento del ministero della giustizia di disciplina delle elezioni dei consigli degli ordini, per la mancata previsione del «voto limitato». La preoccupazione degli ordini è stata raccolta dal Cnf che si è impegnato a riportarla al ministero. I lavori dell’Agorà si sono concentrati poi su altre questioni di interesse per la professione: l’assetto del nuovo sistema disciplinare; le problematiche collegate alla difesa d’ufficio e patrocinio a spese dello stato, con i progetti di collaborazione tra Cnf, Cassa e il ministero della giustizia per risolvere l’arretrato nella liquidazione dei compensi degli avvocati; l’analisi dei diversi regolamenti attuativi della riforma forense; i disegni di legge attualmente in parlamento, quali «concorrenza» e riforma del processo civile.

Catapano Giuseppe informa: ANNULLATO IN APPELLO L’ACCERTAMENTO SULLA SOCIETÀ. CIÒ NON RENDE LEGITTIMA LA DECISIONE SULLA POSIZIONE DELLA SOCIA

“Avviso di accertamento” per “maggiori redditi (non contabilizzati e non dichiarati)” nei confronti della società. Di rimbalzo, però, a finire nel mirino del Fisco è anche una “socia”, cui viene attribuito un “reddito da partecipazione”, anche tenendo presente che la “compagine societaria” era “a formazione ristretta e con soci tra cui intercorrevano rapporti familiari”.
Correlazione stretta, quindi, tra società e socia. E tale correlazione è rilevante per i giudici tributari regionali: questi ultimi, difatti, hanno “annullato l’avviso di accertamento riferito alla società” e ora ritengono che “anche il provvedimento rivolto nei confronti della socia” vada “annullato”. Ciò perché “l’accertamento induttivo, ritenuto illegittimo, ha riverberato i suoi effetti sul reddito dei soci ma è carente, per le stesse motivazioni, del presupposto impositivo”.
Ma la vittoria per la “socia” è effimera. Per i giudici della Cassazione, difatti, la visione tracciata in Commissione tributaria regionale è erronea. Difatti, “norme” alla mano, “il giudicante” non avrebbe dovuto “pronunciarsi, prima che fosse passata in giudicato la sentenza relativa alla questione pregiudicante”.
Detto in maniera chiara, sarebbe stato più logico ‘congelare’ la posizione della “socia” in attesa di definire la questione relativa alla “società”.
E tale visione spinge ora i giudici della Cassazione a riaffidare la vicenda ai giudici tributari regionali, i quali potranno “provvedere sulle questioni oggetto dell’appello” proposto dalla socia “una volta decisa definitivamente” la posizione della società.

Giuseppe Catapano comunica: DOCUMENTAZIONE MESSA SUL TAVOLO DAL CONTRIBUENTE, MA CI SONO ANCORA ‘CONI D’OMBRA’ SUI DATI CONTABILI

“Controllo automatizzato” sui “dati della dichiarazione annuale ‘Modello Unico 2002’”. Conseguenza – poco gradita per il contribuente – è una corposa “cartella di pagamento” in materia di Iva. Secondo il Fisco, “la dichiarazione era priva dei dati contabili al quadro ‘VF’, fatto questo che aveva comportato l’indebita detrazione al quadro ‘VL’ dell’IVA assolta sugli acquisti con conseguente recupero dell’imposta non versata”. Ma il ragionamento seguito dal Fisco non è condiviso dai giudici tributari… Vittoria, difatti, sia in primo che in secondo grado, per il contribuente. Vittoria poggiata su questa considerazione: “l’Agenzia delle Entrate” ha riconosciuto che “i motivi della iscrizione a ruolo sono esclusivamente dovuti alle risultanze dell’anagrafe tributaria e non dalla constatazione dei fatti”. In questa ottica, viene evidenziato che “il contribuente in primo grado ha prodotto ampia documentazione” – da cui “si desume un credito per il 2001 di lire 216.792.000” –, “l’Agenzia delle Entrate ha ricevuto detta documentazione in allegato al ricorso di primo grado” ma non ha sentito il bisogno di “effettuare alcun riscontro presso il contribuente”. Errore grave, questo, secondo i giudici tributari, perché “l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di provare la fondatezza della sua pretesa e non di trincerarsi dietro le risultanze dell’anagrafe tributaria, che – proprio nella fase iniziale – è stata fonte di numerosi rilevanti errori, anche perché la digitazione dei dati dei ‘modelli Unici’ era spesso affidata a terzi impreparati”. Ma ora provvedono i giudici della Cassazione a rimettere tutto in discussione…
In sostanza, viene criticata la valutazione compiuta tra primo e secondo grado, soprattutto perché sono state ignorare alcune ‘lacune’ – come la “assenza di indicazioni contabili” – nella “documentazione” del contribuente. Peraltro, viene evidenziato, i giudici tributari regionali hanno fatto “riferimento al dato contabile finale, e non al contenuto della dichiarazione”, trascurando completamente le contestazioni mosse dal Fisco, secondo cui “non risultano indicate le fatture alla base della detrazione di cui il contribuente intende avvalersi”. Troppi, quindi, i ‘coni d’ombra’… Per questo motivo, la vicenda dovrà essere approfondita nuovamente dai membri della Commissione tributaria regionale.

Catapano Giuseppe comunica: Assegni scoperti e identità falsa del correntista, banca responsabile

Anche la banca può essere responsabile se un proprio cliente emette un assegno a vuoto compiendo una palese truffa: prima, infatti, di aprire un conto corrente, il dipendente dell’istituto di credito deve effettuare delle verifiche preliminari sul nuovo cliente per verificare che questi non abbia fornito documenti falsi o artefatti. Se c’è negligenza in tale attività, l’eventuale soggetto che abbia ricevuto, dal truffatore, un assegno scoperto può chiedere il risarcimento anche alla banca di quest’ultimo. Lo ha detto la Cassazione in una recente sentenza. Solo il compimento di verifiche diligenti da parte del funzionario escludono la responsabilità dell’istituto di credito che ha disposto l’apertura di conto corrente con rilascio di carnet di assegni. Numerose sentenze della Cassazione hanno chiarito che la legge che regola il sistema bancario impone, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti al dipendente dell’istituto di credito la cui violazione può costituire fonte di colpa per omesso controllo. Se però tutto avviene regolarmente, nessuna responsabilità può avere la banca se il conto era in rosso o l’assegno non coperto. In tal caso, la colpa è solo del correntista. Peraltro, si legge in sentenza, il rilascio del carnet di assegni può legittimamente avvenire solo a fronte della semplice apertura del conto corrente: nessuna norma, infatti, ne subordina il rilascio alla concreta disponibilità di somme sul conto stesso.

Catapano Giuseppe osserva: No licenziamento dell’infermiere che lavora nel pubblico e nel privato

L’ASL non può licenziare un infermiere solo perché lavora contemporaneamente presso una struttura privata convenzionata di cui è socio. È quanto affermato da una recente sentenza della Cassazione secondo cui il licenziamento è illegittimo se è sproporzionato rispetto alla condotta del dipendente concretamente considerata. Difatti, affinché il datore possa ricorrere alla massima sanzione disciplinare del recesso, non basta una violazione di legge o un inadempimento contrattuale, ma occorre che questi ultimi siano così gravi da incrinare definitivamente il rapporto fiducia del datore e da non permettere più la prosecuzione del contratto. Dunque, anche se la legge vieta ai pubblici dipendenti il cumulo di impieghi e il contratto di lavoro vieta la prestazione lavorativa presso strutture diverse da quella datrice, la violazione di tali divieti potrebbe non costituire giusta causa di licenziamento. Serve qualcosa in più e cioè l’effettiva gravità della violazione, misurabile in base agli effetti che ha avuto sul rapporto di lavoro e sulla fiducia che ne è alla base. La gravità della sanzione deve essere infatti proporzionale alla gravità della violazione. Si tratta di una valutazione da fare caso per caso, tenendo conto dei fatti concreti, della realtà aziendale e delle mansioni svolte dal lavoratore. Occorre allora verificare se il cumulo di impieghi dell’infermiere abbia inciso sulla prestazione lavorativa presso l’ASL, compromettendo i turni e gli orari di lavoro, provocando la riduzione delle mansioni o una minore efficienza sul servizio, o ancora un conflitto di interessi fra le strutture. Conseguentemente se l’ASL non dimostra i concreti effetti negativi dell’impiego parallelo del dipendente, il licenziamento è eccessivo e ingiustificato perché è semmai più idonea una sanzione disciplinare minore.