“Avviso di accertamento” per “maggiori redditi (non contabilizzati e non dichiarati)” nei confronti della società. Di rimbalzo, però, a finire nel mirino del Fisco è anche una “socia”, cui viene attribuito un “reddito da partecipazione”, anche tenendo presente che la “compagine societaria” era “a formazione ristretta e con soci tra cui intercorrevano rapporti familiari”.
Correlazione stretta, quindi, tra società e socia. E tale correlazione è rilevante per i giudici tributari regionali: questi ultimi, difatti, hanno “annullato l’avviso di accertamento riferito alla società” e ora ritengono che “anche il provvedimento rivolto nei confronti della socia” vada “annullato”. Ciò perché “l’accertamento induttivo, ritenuto illegittimo, ha riverberato i suoi effetti sul reddito dei soci ma è carente, per le stesse motivazioni, del presupposto impositivo”.
Ma la vittoria per la “socia” è effimera. Per i giudici della Cassazione, difatti, la visione tracciata in Commissione tributaria regionale è erronea. Difatti, “norme” alla mano, “il giudicante” non avrebbe dovuto “pronunciarsi, prima che fosse passata in giudicato la sentenza relativa alla questione pregiudicante”.
Detto in maniera chiara, sarebbe stato più logico ‘congelare’ la posizione della “socia” in attesa di definire la questione relativa alla “società”.
E tale visione spinge ora i giudici della Cassazione a riaffidare la vicenda ai giudici tributari regionali, i quali potranno “provvedere sulle questioni oggetto dell’appello” proposto dalla socia “una volta decisa definitivamente” la posizione della società.
avviso di accertamento
Giuseppe Catapano comunica: DATA DI SPEDIZIONE DELLA RACCOMANDATA, RISULTANTE DALL’AVVISO DI RICEVIMENTO, PRIVA DI VALORE PROBATORIO. TARDIVO L’APPELLO PROPOSTO DAL FISCO
“Avviso di accertamento” in materia di Iva, relativamente all’anno 2005, per la ‘spa’, ma, in primo grado, viene sostenuta la “illegittimità” dell’operato del Fisco, che, poi, viene sconfitto anche in secondo grado. Più precisamente, i giudici tributari regionali hanno dichiarato “inammissibile l’appello proposto dall’Ufficio”: in sostanza, “poiché doveva applicarsi il termine di impugnazione semestrale ai sensi dell’art. 327 c.p.c., l’appello alla sentenza di primo grado, depositata il 31.1.2011, era stato notificato oltre il termine del 16.9.2011 e precisamente in data 19.9.2011, come risultava dalla certificazione di ‘Poste Italiane’ fornita dalla società resistente, consultabile agli atti, e diversamente da quanto indicato dal mittente nella ‘cartolina’ predisposta dal medesimo soggetto a titolo di avviso di ricevimento”. Di conseguenza, secondo i giudici tributari regionali, l’appello presentato dall’Ufficio “è tardivo”.
E ora tale visione viene condivisa e fatta propria anche dai giudici della Cassazione, i quali confermano la “inammissibilità dell’appello”. Sconfitta definitiva, quindi, per il Fisco.
Per i giudici è “priva di alcun valore probatorio la data di spedizione della raccomandata risultante dall’avviso di ricevimento in quanto priva di fede privilegiata non accompagnata da alcuna attestazione da parte dell’ufficiale postale”. Allo stesso tempo, va preso atto della “assenza di ulteriori elementi, che spettava all’Agenzia delle Entrate dedurre e provare, idonei a conclamare la tempestività dell’impugnazione”.
Catapano Giuseppe: VERIFICA SU UNA ‘SRL’, VICINA LA SCADENZA PER L’ACCERTAMENTO: NULLO COMUNQUE L’AVVISO EMESSO PRIMA DEL TERMINE DI 60 GIORNI
“Avviso di accertamento” in materia di Iva nei confronti di una ‘srl’. Ma l’operato del Fisco viene messo in discussione dai giudici tributari, i quali sostengono la “nullità” dell’“avviso” poiché emesso “prima che fosse decorso il termine dilatorio di 60 giorni”, termine “decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni”.
E ora la visione delineata nelle Commissioni tributarie è condivisa anche dai giudici della Cassazione.
Definitiva, quindi, la “nullità” dell’“avviso di accertamento”. Irrilevante, secondo i giudici, il richiamo difensivo, da parte del Fisco, alla “circostanza secondo cui sarebbe stata imminente la scadenza del termine per l’emanazione dell’accertamento”. Tale situazione, sottolineano i giudici, non è assolutamente “idonea a giustificare il mancato rispetto del termine dilatorio”.
Catapano Giuseppe osserva: DICHIARAZIONE IVA ‘TRUCCATA’ DELLA SOCIETÀ, AVVISO DI ACCERTAMENTO PER IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO D’AMMINISTRAZIONE
Riflettori puntati su una ‘società per azioni’. A destare sospetti, per il Fisco, è la “dichiarazione Iva per l’anno d’imposta 1999”. Consequenziale, a chiusura di un approfondimento ad hoc, la “rettifica” di quella dichiarazione.
Passaggio successivo è la notifica di un “avviso di accertamento, contenente irrogazione di sanzioni pecuniarie” nei confronti del “presidente”, all’epoca dei fatti, del “consiglio di amministrazione della società”.
Operazione illegittima, secondo i giudici tributari, quella compiuta dal Fisco. Ciò per una ragione semplicissima: è mancata la “prova di un comportamento colpevole direttamente addebitabile al presidente del consiglio di amministrazione, in un contesto societario di discrete dimensioni, con centoquattordici dipendenti ed un’articolata ripartizione di compiti”.
Tale visione, però, viene demolita dai giudici della Cassazione, i quali, invece, considerano corretto il ragionamento portato avanti dal Fisco.
In sostanza, “il presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, anche al cospetto di una mera ripartizione interna di compiti”, come in questo caso, “risponde, presumendosene la colpevolezza, delle sanzioni amministrative derivanti da violazioni delle norme tributarie, in mancanza di prova, da parte sua, dell’assenza di colpa”.
A dare forza a questa prospettiva, secondo i giudici della Cassazione, diverse considerazioni: primo, “la centralità, in seno all’organizzazione sociale, del ruolo spettante agli amministratori, ai quali non è demandata soltanto l’esecuzione delle delibere dell’assemblea, ma anche la gestione dell’attività sociale”, e ciò comporta che “condotte come quelle” contestate in questa vicenda – “violazioni consistite nell’omessa regolarizzazione di acquisti senza fattura, nella mancata emissione di fatture relative ad operazioni imponibili compiute e nella conseguente omessa registrazione, nell’omessa indicazione dell’imposta in cinque fatture e nella loro omessa registrazione, nella dichiarazione con imposta inferiore a quella dovuta e nell’irregolare tenuta della contabilità Iva” –, condotte che peraltro “investono aspetti rilevanti di gestione”, sono “riferibili a tutti gli amministratori ed a ciascuno di essi”; secondo, “la mera ripartizione dei compiti”, ritenuta decisiva in Appello, “è del tutto irrilevante ad escludere o anche ad attenuare la riferibilità delle violazioni”, non essendo emerso “il ricorso a deleghe di funzioni al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori”; terzo, “una divisione di fatto delle competenze tra gli amministratori, l’adozione, anch’essa di fatto, del metodo disgiuntivo nell’amministrazione, o, semplicemente, l’affidamento all’attività di altri componenti il collegio di amministrazione, non riescono ad escludere la responsabilità di alcuni amministratori per le violazioni commesse dagli altri”; quarto, “la condotta omissiva per affidamento a terzi, lungi dal comportare esclusione di responsabilità, può costituire, di contro, ammissione dell’inadempimento dell’obbligo di diligenza e vigilanza”.
Pare conquistare solidità, quindi, la visione tracciata dal Fisco, anche se ora toccherà ai giudici della Commissione tributaria regionale riesaminare la vicenda, tenendo presenti però le indicazioni fornite dalla Cassazione.
Giuseppe Catapano informa: Equitalia, solo l’avviso di ricevimento prova la notifica della cartella
Per dimostrare di aver correttamente notificato la cartella esattoriale, Equitalia è tenuta a esibire l’originale dell’avviso di ricevimento della raccomanda spedita al cliente. Non ci sono altri mezzi per fornire tale prova. Non vale la fotocopia e, ancor di più, il semplice estratto di ruolo. Va bene, dunque, che ormai la giurisprudenza abbia ritenuto valida la notifica diretta, a mezzo posta, da parte dell’esattore, ma almeno la prova della correttezza di tale adempimento deve essere certa e cristallina: e non c’è altro modo di fornirla se non producendo il cosiddetto “a.r.” in originale. Del resto, è proprio l’avviso di ricevimento che può fornire la dimostrazione incontrovertibile della data di spedizione e di ricezione (essenziale per verificare se Equitalia sia decaduta dal potere di riscuotere e se il contribuente abbia presentato il ricorso nei termini). Lo ha chiarito la Cassazione con una sentenza di questa mattina. Attenzione però: non è necessario che Equitalia porti in causa anche la copia della cartella (salvo – aggiungiamo noi – che il contribuente contesti anche il contenuto del plico stesso, nel qual caso spetta al notificante fornire la prova contraria e dimostrare cosa la busta contenesse: leggi “Equitalia deve dimostrare l’esatto contenuto della cartella di pagamento”). Con una lunga motivazione, la Suprema Corte ha sottolineato che in tema di notifica della cartella esattoriale, la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione e della relativa data può essere fornita solo mediante la produzione dell’avviso di ricevimento. Come detto però, la copia della cartella di pagamento non deve necessariamente essere presentata al giudice: la cartella, infatti – si legge in sentenza – una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi consegnata a quest’ultimo. Essa, in pratica, già si “presume” conosciuta con la semplice esistenza dell’avviso di ricevimento, salvo prova contraria da parte del contribuente. Quest’ultimo, cioè, dovrebbe dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione. La sentenza contiene poi un’ultima importante precisazione. L’omissione della notifica della cartella di pagamento è un vizio che ha come conseguenza la nullità del pignoramento di Equitalia. E l’opposizione al pignoramento va presentata davanti al giudice dell’esecuzione (tribunale ordinario e non CTP), anche quando ne venga fatta valere la nullità per omessa notifica della cartella (o dell’intimazione ad adempiere); in tale caso, il giudice dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica all’esclusivo fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale. Sul problema della giurisdizione competente a decidere l’opposizione al pignoramento di Equitalia si era pronunciata la stessa Cassazione qualche giorno fa e da noi segnalata in “Competenza e giurisdizione contro l’esecuzione forzata di Equitalia”.
Catapano Giuseppe: I comportanti scorretti del recupero crediti
Solleciti telefonici, continue richieste per lettera, email, sms, visite domiciliari non solo presso l’abitazione del debitore ma anche presso i vicini di casa: esiste una sorta di elenco di comportamenti che le società di recupero credito non possono mai porre in essere. La verità è che, alla fine, qualcuno si lascia spesso prendere la mano e la querela per le molestie è dietro l’angolo. L’Antitrust è intervenuto più volte per punire il comportamento scorretto di società di recupero crediti: spesso si tratta di somme avanzate da banche, da società fornitrici di utenze domestiche (energia elettrica, gas, telefonia fissa). Ma cosa non possono fare, concretamente, le società di recupero crediti? Non possono chiamare da numerazioni anonime. Il debitore ha diritto di sapere da quale numero telefona l’operatore. Non possono negare le proprie identità: il debitore ha diritto di conoscere nome e cognome del telefonista e la società dalla quale questi sta chiamando. Spesso, invece, gli operatori tendono a far credere di essere dipendenti della società titolare del credito: non è quasi mai così. Infatti, quando un’azienda deve riscuotere un proprio credito incarica società esterne. Non possono telefonare in orari irragionevoli: così, per esempio, non possono chiamare alle 6 di mattina, né alle 9 di sera. Non possono chiamare con una frequenza eccessiva: una o due volte per settimana può essere più che sufficiente per ricordare l’imminente scadenza del pagamento. Non possono chiamare presso il luogo di lavoro o presso parenti. Né possono chiedere il numero di telefono del debitore ai vicini di casa o ai parenti, rivelando le ragioni di tale necessità. Non possono essere offensivi, non possono usare parole violente, né minacce. L’avvertimento di una probabile causa, in caso di mancato pagamento, non è un illecito. Ma minacciare l’arrivo dell’ufficiale giudiziario o l’iscrizione di un’ipoteca sulla casa è illegale perché non corrisponde al vero: affinché ciò avvenga, infatti, devono essere prima avviati gli “atti legali” tramite un avvocato e deve essere data possibilità al debitore di difendersi (di norma viene notificato un decreto ingiuntivo o una citazione in giudizio e, al termine di tali procedimenti, viene inviato un atto di precetto). Non possono minacciare iniziative legali sproporzionate: così, per un residuo debito di cinque euro non si possono paventare conseguenze catastrofiche come una dichiarazione di fallimento. Non possono richiedere il pagamento di debiti scaduti (o meglio prescritti). Non possono pretendere che apriate la porta al loro incaricato (che si fa impropriamente chiamare “esattore”, quando invece si tratta di un soggetto privato). Non possono affiggere sulla porta della vostra abitazione un avviso di mora.
CATAPANO GIUSEPPE COMUNICA: MARCHIO DEL PRODOTTO SULL’INSEGNA, MA LA FUNZIONE È IDENTIFICARE IL TIPO DI ESERCIZIO COMMERCIALE: RICONOSCIUTA L’ESENZIONE DALL’IMPOSTA SULLA PUBBLICITÀ
Due “‘cassonetti’ luminosi bifacciali” in bella mostra per segnalare i due “esercizi commerciali” della società. Pare scontata l’applicazione dell’“imposta sulla pubblicità”, ma i giudici tributari prima e quelli di Cassazione poi sono dell’avviso opposto.
Azzerato, così, in via definitiva l’“avviso di accertamento” per “omessa denuncia e mancato pagamento dell’imposta sulla pubblicità” notificato dalla “concessionaria del servizio di accertamento e riscossione” alla “ditta individuale”.
Corretta, quindi, la valutazione tracciata tra primo e secondo grado, dove si è sancito che i singoli “cassonetti” vanno catalogati come “insegna di esercizio”, perché, pur contenendo “il marchio del prodotto”, hanno avuto la mera funzione di “individuare il tipo di esercizio, con l’unico caffè venduto, a differenza di analoghi esercizi commerciali”. Di conseguenza, legittima l’“esenzione” riconosciuta alla società, sanciscono i giudici della Cassazione, poiché l’“insegna” è apposta “presso la sede in cui la società esercita la propria attività commerciale e di produzione”, e presenta dimensioni – 2 metri quadrati – nettamente inferiori a quelle massime consentite.
Catapano Giuseppe comunica: Rifiuti: l’imposta non è dovuta se l’immobile è rimasto inoccupato
Non va pagata l’imposta sui rifiuti (attualmente Tari, in passato Tarsu e prima ancora Tares) se il contribuente dimostra che l’immobile è rimasto inoccupato e ha già corrisposto tale tributo per un’abitazione nella quale risiede.
Lo ha precisato la Commissione Tributaria Regionale di Roma con una recente sentenza che ha annullato un avviso di accertamento per omessa dichiarazione della Tari e mancato pagamento del relativo tributo. Il contribuente, dal canto suo, invocava la nullità dell’atto sostenendo che, nell’immobile, non aveva mai abitato. I giudici di secondo grado gli hanno dato ragione.
Secondo la sentenza in commento, non si deve pagare l’imposta sui rifiuti relativa a un determinato immobile se quest’ultimo, nel periodo riguardante l’accertamento, è rimasto inoccupato (nel caso di specie, tale circostanza era stata dimostrata a mezzo di dichiarazione spontanea inviata dal ricorrente al Comune di Roma e dal fatto che il contribuente, nello stesso periodo, ha abitato in un altro immobile, dove gli è stata inviata, per gli stessi anni, la Tarsu).
Non si può negare che il Ministero abbia più volte precisato che la presenza di arredo o l’attivazione delle utenze (per esempio, l’acqua o la luce) costituiscono presunzione semplice dell’occupazione dell’immobile. Ma è sempre concesso al contribuente dimostrare il contrario, ossia il fatto che comunque l’abitazione è rimasta del tutto inoccupata. Ovviamente, la mancanza di allacciamenti può essere provata attraverso documentazione scritta, e questo è sufficiente per ottenere la cancellazione della tassa. Per verificare, invece, l’assenza di arredi è necessaria un’ispezione sul luogo, che quasi nessun Comune fa. E allora possono supplire altre prove, come per esempio il fatto che il contribuente abbia sempre abitato un altro immobile e per quest’ultimo abbia corrisposto il relativo tributo sui rifiuti.