Il correntista può ordinare alla propria banca di non pagare l’assegno bancario che egli ha emesso, ma lo può fare solo dopo il termine di otto giorni dall’emissione dello stesso (se l’assegno è pagabile all’interno dello stesso comune) o di quindici giorni (se è pagabile in altro Comune). In pratica, se il creditore che ha in mano l’assegno (cosiddetto prenditore) si reca allo sportello per il pagamento del titolo, e lo fa entro tale forbice di tempo (8 o 15 giorni), la banca deve ottemperare al suo ordine e deve pagarlo immediatamente; allo stesso modo, se non ci sono fondi, l’assegno deve essere protestato. Al contrario, se il creditore non si è recato in banca negli 8 o 15 giorni dalla sua emissione, il traente (cioè il debitore) ha il diritto di revocare l’assegno e la banca non solo è obbligata a tenere conto della suddetta revoca disposta dal proprio cliente ma, se non lo fa, deve risarcirgli il danno. E ciò vale anche in presenza di fondi sul conto corrente. Lo ha stabilito la Cassazione, con una recente sentenza. La Corte ricorda che l’ordine del correntista, impartito alla propria banca, di non pagare un assegno già emesso ha effetto solo alla fine del termine di presentazione: otto o quindici giorni, a seconda che l’assegno si paghi su piazza (cioè nello stesso Comune) o fuori piazza (in altro Comune). La vicenda La vicenda riguardava la causa intentata da un correntista del Banco di Sicilia che chiedeva il risarcimento dei danni per l’asserito illegittimo protesto di un assegno bancario che ne avrebbe determinato il fallimento. Se nel conto non ci sono soldi L’ordine del correntista di non pagare l’assegno, impartito alla propria banca nei primi otto o quindici giorni, non può essere motivato neanche dal fatto che nel conto non vi sia sufficiente provvista per pagarlo. Se l’assegno, infatti, è “scoperto”, scatta il protesto per mancanza di fondi (salvo la procedura di insoluto a prima presentazione che impone un previo avviso per rientrare immediatamente nella scopertura di conto). Se la revoca avviene dopo il termine Diverso è il discorso se la revoca dell’assegno bancario avviene dopo il termine di 8 o 15 giorni: se il creditore non si è ancora recato in banca, quest’ultima non deve rispettare la volontà del proprio cliente. In pratica, spiega la Corte, il superamento del termine comporta solo il potere del traente di revocare l’assegno con effetto vincolante per la banca. Prima della detta scadenza la banca non deve tener conto della revoca disposta dal cliente, dovendo al contrario provvedere al pagamento se vi sono fondi disponibili, atteso che la legge mira ad assicurare un’affidabile circolazione del titolo e a garantire l’esistenza dei fondi dal momento dell’emissione dell’assegno fino alla scadenza del termine di presentazione. Che può fare il creditore Se l’assegno viene revocato, il creditore resta sempre in mano di un titolo di credito esecutivo. Questo significa che egli può: – nei primi sei mesi, agire direttamente con il pignoramento nei confronti del debitore, senza bisogno di intraprendere prima cause o ricorsi per decreto ingiuntivo. Difatti, l’assegno è già esso stesso un titolo esecutivo. Dunque, previa notifica di un atto di precetto, il creditore potrà già valersi dell’ufficiale giudiziario (attraverso un proprio avvocato) e procedere all’esecuzione forzata; – dopo la scadenza dei sei mesi, il creditore deve procedere con la richiesta di un decreto ingiuntivo (l’assegno resta infatti una promessa di pagamento scritta anche quando non è più titolo esecutivo). f
assegno di mantenimento
Catapano Giuseppe comunica: Protesto dell’assegno, come evitarlo
Evitare il protesto dell’assegno potrebbe essere il modo migliore non solo per mettersi al riparo dai rischi di un pignoramento del creditore, ma anche dalle sanzioni e dall’eventuale iscrizione nel registro dei protestati della CAI (Centrale Allarme Interbancaria). In questo articolo forniremo alcuni suggerimenti pratici in merito; ma prima vediamo come funziona la procedura di protesto. Protesto dell’assegno: come funziona L’assegno viene protestato tutte le volte in cui, sul conto corrente di chi lo ha emesso (traente), non vi sono somme sufficienti a coprirne l’integrale pagamento. In pratica, ciò avviene quando il creditore, recatosi in banca e esibito l’assegno al cassiere, ne esige l’incasso (denaro contante o accredito sul proprio conto) e, in quel momento, si vede invece opporre un secco rifiuto perché l’assegno è “scoperto”. Il protesto, però, non avviene immediatamente, ma va rispettata una particolare procedura: – la banca comunica immediatamente al debitore il cosiddetto “insoluto a prima presentazione”, ossia che è stato presentato un assegno e l’insufficienza delle somme per coprire l’assegno (la comunicazione contiene la fotocopia del titolo). Al titolare del conto viene così concesso un termine per coprire l’assegno, versando sul proprio conto le somme necessarie a pagare il creditore. Se tutto avviene correttamente, il debitore non subisce conseguenze di alcun tipo; – se invece il debitore non copre l’assegno, il titolo viene protestato: la banca cioè lo invia a un notaio (o, più raramente, a un ufficiale giudiziario) che provvede all’iscrizione del protesto nel relativo registro; – l’ultimo adempimento è l’iscrizione del debitore nell’elenco dei Protestati della CAI. Quando il debitore può intervenire per evitare il protesto Il debitore può tuttavia intervenire in un successivo momento, anche dopo l’avvio della procedura di protesto. In particolare, si possono verificare due ipotesi: – se il debitore copre l’assegno entro 60 giorni dal protesto (pagamento tardivo), dovrà aggiungere le spese di protesto, una penale del 10% della somma dell’assegno e gli interessi legali. È necessario fornire alla banca la prova dell’avvenuto pagamento del titolo, consistente nella dichiarazione del creditore di aver ricevuto detti importi; – se il debitore non paga neanche entro i 60 giorni, viene definitivamente iscritto nell’elenco Protestati del CAI (Centrale Allarme Interbancaria) e non potrà essere cancellato, neanche se provvederà al pagamento. Dunque, la prima soluzione (e anche più scontata) per evitare il protesto impone al debitore di pagare l’assegno dopo la comunicazione di “insoluto a prima presentazione”. Al massimo, egli potrebbe pagare entro 60 giorni dopo l’elevazione del protesto. In tal caso verrebbe cancellato immediatamente dall’elenco dei protestati. Clausola “Senza protesto” o “senza spese” Esiste un altro sistema per evitare il protesto, di certo più sicuro e che viene adottato già all’atto della consegna del titolo: consiste nell’apporre sull’assegno la dicitura “Senza spese” o “Senza protesto” e quindi firmare sotto tale postilla. In tali casi il titolo non potrà mai essere mai protestato dalla banca. Ovviamente, per fare ciò, è necessario il consenso di entrambe le parti (traente e prenditore, ossia debitore e creditore). Il vantaggio di questo sistema è palese per il debitore: così facendo, infatti, anche se l’assegno verrà portato all’incasso in un momento in cui in conto non vi sono le somme sufficienti a coprirlo, esso non sarà mai protestato. Il creditore, dal canto suo, potrebbe comunque trovare conveniente tale accordo perché esso non gli impedisce, comunque, nonostante la presenza della clausola “Senza protesto”, di portare in esecuzione forzata l’assegno (che resta, infatti, un titolo esecutivo) ed eventualmente procedere con l’ufficiale giudiziario al pignoramento. Inoltre, in questo modo, il creditore eviterà di anticipare le spese di protesto che, di regola, gli vengono sempre addebitate, salvo poi farsele rimborsare dal debitore. Questa pratica è piuttosto diffusa ed è pienamente lecita in quanto prevista espressamente dalla legge. Vi si fa ricorso spesso quando il debitore gestisce grossi flussi di denaro sia in entrata che in uscita senza che tra di essi via sia una perfetta corrispondenza: così potrebbe trovarsi, in determinati momenti, ad avere il conto scoperto per coprire le spese. Questa soluzione, invece, gli eviterebbe, per pochi giorni di ritardo nel pagamento, di essere iscritto nel registro Protesti. In verità, il protesto spesso comporta uno svantaggio anche per il creditore: il debitore, infatti, oltre alle sanzioni pecuniarie, viene interdetto all’emissione di altri assegni e, nello stesso tempo, viene iscritto nella centrale rischi dei cattivi pagatori. Con la conseguenza che potrebbe trovarsi in maggiore difficoltà economiche nel reperire il denaro necessario per far fronte ai propri debiti, ivi compreso il prenditore dell’assegno. Il creditore, dal canto suo, con o senza protesto resta sempre in possesso di un titolo esecutivo che gli consente di agire in esecuzione forzata, senza bisogno di intraprendere una causa o avviare un procedimento per decreto ingiuntivo.
Catapano Giuseppe osserva: Assegno di mantenimento per i figli, come si calcola?
Quando una coppia di genitori si separa, che sia sposata o meno, uno dei problemi più spinosi – insieme a quello relativo alle modalità di affidamento dei figli – è spesso rappresentato dalla quantificazione dell’assegno dovuto per il loro mantenimento da parte del genitore che lascerà la casa familiare.
C’è un modo per stabilire come esso vada calcolato?
Cosa prevede la legge
Per dare risposta a questa domanda occorre partire dalla lettura della norma che, in tema di provvedimenti economici relativi ai figli in caso di separazione tra i genitori, prevede che ciascuno dei genitori (salvo diversi accordi tra di loro) è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Il giudice stabilisce, quando necessario, la corresponsione di un assegno periodico che va determinato considerando:
– le esigenze attuali del figlio;
– il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori;
– i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
– le risorse economiche di entrambi i genitori;
– la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.
Il dovere di mantenimento gravante su entrambi i genitori e che – è bene ricordarlo – è indipendentemente dalla separazione, impone di far fronte a molteplici esigenze dei figli, che non sono soltanto l’obbligo alimentare, ma vanno estese anche all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli lo richieda, di una organizzazione domestica stabile, in grado di rispondere alle loro specifiche necessità di cura e di educazione.
L’accertamento dei redditi effettivi
Nell’ambito di un procedimento in tribunale dove manchi l’accordo sull’entità dell’assegno (e quindi sia stata intrapresa una causa vera e propria tra i genitori) sin da subito il giudice è tenuto ad una prima valutazione, se pur sommaria, degli elementi offerti dalle parti, con lo scopo di stabilire, in primo luogo, il pregresso tenore di vita della coppia e le loro attuali condizioni patrimoniali e di reddito. Non può, infatti, certamente attendersi l’esito della causa per stabilire quanto un genitore debba versare all’altro affinché provveda ai bisogni dei figli. Quanto deciso, tuttavia, in questa prima fase non ha nulla di definitivo, ben potendo essere modificato in relazione alle prove emerse in seguito.
Si tratta di una valutazione che, spesso, pone la necessità che il giudice non si fermi solo alle dichiarazioni dei redditi presentate; ciò può accadere, nello specifico, quando esse contrastino con l’effettivo stile di vita delle parti per come dimostrato dalla parte interessata a ricevere l’assegno (si pensi al possesso in capo al coniuge di auto di lusso, viaggi costosi, ecc.). Sicché, quando le informazioni di tipo economico fornite dai genitori non sono sufficientemente documentate, il giudice può disporre un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto in contestazione, anche se intestati a persone diverse (per un approfondimento leggi: “Come fare per: provare i guadagni in nero dell’ex”).
A riguardo, le recenti novità legislative hanno attribuito al giudice – nell’ambito di tutti i procedimenti di famiglia – la piena facoltà di ricavare informazioni sul patrimonio, il reddito e il tenore di vita dei coniugi e provvedere alla ricerca di beni con modalità telematiche, anche accedendo alle banche dati dell’Agenzia delle Entrate o inviando alla stessa richieste in tal senso.
Il magistrato, infatti, deve effettuare una ripartizione del reddito familiare al fine di ripristinare le condizioni economiche precedenti alla separazione, sulla base di un principio di “proporzionalità” con l’obiettivo di assicurare ai figli un tenore di vita il più possibile vicino a quello goduto quando la famiglia era unita.
Criteri generali di riferimento
Non esistono dunque dei criteri di calcolo dell’assegno espressamente indicati dalla legge, ma i giudici di solito applicano dei criteri di massima, tenendo conto di quanto previsto dalla legge e dagli orientamenti giurisprudenziali prevalenti; allo scopo, essi tengono conto sia redditi percepiti da ciascuno dei due coniugi (incluse eventuali rendite finanziare), sia del valore locativo mensile di eventuali proprietà immobiliari, ivi compresa l’incidenza dell’assegnazione della casa coniugale e il numero dei figli a carico e conviventi.
Naturalmente tali criteri sono orientativi in quanto ogni magistrato ha un ampio margine di discrezionalità nel determinare la misura del mantenimento, il cui risultato va personalizzato e adattato alle specificità del caso concreto (come il fatto che, l’assegno sia destinato, oltre che al mantenimento dei figli, anche a quello del coniuge).
È possibile, ad esempio, che il giudice stabilisca un assegno di misura differenziata per ciascun figlio in ragione dell’età e delle specifiche esigenze (di solito secondo un criterio di proporzione inversa all’età).
I modelli di calcolo
Partendo, comunque, dai criteri indicati dalla legge e dalla giurisprudenza maggioritaria, alcuni Tribunali hanno elaborato dei loro parametri di calcolo: ad esempio il Tribunale di Firenze, insieme alla Facoltà di Economia, ha elaborato un Modello per calcolare l’assegno di mantenimento (MoCAM), il Tribunale di Palermo, allo stesso scopo, ha elaborato un software pubblico (scaricabile dal sito http://www.giustiziasicilia.it) e il Tribunale di Monza, ha predisposto nel 2008 delle Tabelle (acquisite quale strumento di riferimento in numerosi fori) che riassumono le ipotesi più ricorrenti e le possibili risposte alle richieste di mantenimento formulate da parte di uno dei coniugi (sia per sé che per i figli).
Tali tabelle, in particolare, conducono ad un criterio di liquidazione “di massima” di un assegno pari ad un quarto del presunto reddito dell’obbligato (in ipotesi di assegnazione della casa coniugale al coniuge richiedente) ovvero pari ad un terzo (nella più rara ipotesi di non assegnazione) che, però, potrà essere rispettato, solo dopo un opportunamente soppesato la complessiva situazione patrimoniale evidenziata in giudizio (si pensi al caso in cui gravi ancora un mutuo sulla casa coniugale).
Ad esempio, se al genitore collocatario della prole e assegnatario della casa coniugale non venga riconosciuto alcun assegno di mantenimento, la liquidazione del contributo al mantenimento dei figli potrà prevedere, in una situazione di reddito medio (operaio/impiegato: € 1.200,00 / 1.600,00 mensili per 13 o 14 mensilità) e sempre che non vi siano particolari condizioni da valutare (si pensi a proprietà immobiliari, depositi o conti correnti di una certa entità), una quantificazione dell’assegno di questo tipo:
– in presenza di un solo figlio: circa il 25 per cento del reddito;
– in presenza di due figli: 40 per cento del reddito;
– in presenza di tre figli: assegno pari al 50 per cento del reddito.
Si tratta, in ogni caso, di esemplificazioni che, nelle dovute proporzioni, possono applicarsi anche a situazioni di redditi ben più alti. Infatti, per la quantificazione dell’assegno di mantenimento dovuto ai figli, la capacità economica di ciascun genitore va determinata con riferimento al patrimonio complessivo di entrambi, costituito, oltre che dai redditi di lavoro, da ogni altra forma di reddito o utilità (come ad esempio il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione societaria, altri proventi di qualsiasi natura).
Le spese straordinarie
Non va poi dimenticato che, oltre all’assegno periodico, normalmente, viene posto a carico del coniuge non collocatario (o non affidatario) dei figli anche l’obbligo di contribuire nella misura del 50% al pagamento delle spese straordinarie che non possono essere previste forfettariamente nell’importo generale dell’assegno di mantenimento (ne abbiamo parlato in: “Mantenimento figli: spese straordinarie mai a forfait”). Tali spese, infatti, sono comunemente intese come gli esborsi legati a necessità degli figli occasionali o imprevedibili, non quantificabili in via preventiva, o perché legate a fatti sopravvenuti e non preventivabili, o perché estranee alle consuetudini di vita della prole, anche considerando livello sociale del nucleo familiare (per un approfondimento leggi: “Obbligo al mantenimento dei figli dopo la separazione: ripartizione di spese ordinarie e straordinarie)”.
Ciò non esclude che il Tribunale possa anche decidere di ripartire tali spese in diversa percentuale (ad es. 30 e 70%), quando risulti una sproporzione evidente tra i redditi dei genitori (leggi: “Spese straordinarie per i figli: non sempre sono dovute a metà”).
I diversi accordi dei genitori
Se questi sono gli orientamenti generali, non va dimenticato che la legge prevede comunque la possibilità che il giudice tenga conto di “diversi accordi liberamente raggiunti dalle parti”, ed in questo senso si aprono per i genitori molte strade.
Una di queste è rappresentata, solo per fare un esempio, dal fatto che l’obbligo di mantenimento dei figli può essere adempiuto anche attraverso un accordo che preveda, in sostituzione o in concorso con un assegno periodico, l’attribuzione ai figli della proprietà di beni mobili o immobili (ne abbiamo parlato in questo articolo: Mantenimento dei figli: può sostituirsi con la proprietà di beni). Soluzione questa, più facilmente ipotizzabile nel caso in cui l’altro genitore abbia una adeguata autosufficienza economica.
In ogni caso, la situazione maggiormente auspicabile è che i genitori riescano a trovare una soluzione condivisa che permetta loro di evitare il giudizio. Un grosso aiuto in questo caso potrà essere quello di intraprendere il procedimento di separazione affidandosi pratica collaborativa (meglio descritta in questo articolo: Diritto Collaborativo: una terza via per separazione e divorzio. Gli accordi in mano alla coppia).
La separazione, se la coppia è coniugata, potrà di seguito essere raggiunta, sulla base degli accordi così sottoscritti, col metodo consensuale ordinario o tramite il nuovo strumento della negoziazione assistita da avvocati (evitando, in tal caso, di rivolgersi al giudice); se invece si tratta di coppia di fatto, la regolamentazione relativa al mantenimento della prole dovrà necessariamente passare per il Tribunale, se pure con le modalità (più brevi) del procedimento consensuale.
Giuseppe Catapano scrive: Un assegno per trovare lavoro
Arriva l’assegno di ricollocazione per i disoccupati. Graduato in funzione del profilo personale di occupabilità, potrà essere utilizzato per ottenere un servizio di assistenza intensivo nella ricerca di un posto di lavoro presso i centro per l’impiego o in un’agenzia privata accreditata. Il «pacchetto» proposto al disoccupato andrà dall’affiancamento di un tutor all’eventuale riqualificazione in funzione degli sbocchi professionali offerti dal mercato. È quanto prevede lo schema di decreto legislativo, approvato ieri dal consiglio dei ministri, che in attuazione del Jobs Act provvede al «riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive». A cominciare dall’istituzione dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, vertice della nuova rete nazionale che vedrà coinvolti anche le regioni, l’Inps, l’Inail, le agenzie per il lavoro, i fondi interprofessionali per la formazione continua, i fondi bilaterali e l’Isfol, e che darà vita a un sistema informativo unico e soprattutto al portale unico per la registrazione delle persone in cerca di lavoro. Sarà infatti al portale che occorrerà comunicare, in via telematica, la propria immediata disponibilità allo svolgere un’attività lavorativa e a partecipare alle misure di politica attiva concordate con il servizio per l’impiego, acquisendo così lo status di disoccupato. Debutta anche il disoccupato «parziale», ovvero lavoratori dipendenti o autonomi con reddito annuo prevedibile inferiore al minimo esente da imposizione fiscale (rispettivamente, 8 mila e 4.800 euro) lavoratori part-time con orario inferiore al 70% di quello normale o ancora lavoratori che usufruiscono di ammortizzatori sociali con riduzione dell’orario superiore al 50%. Per accelerare la presa in carico da parte dei servizi per l’impiego, sarà possibile registrarsi anche in pendenza del periodo di preavviso, nel qual caso i lavoratori saranno considerati «a rischio di disoccupazione».
Catapano Giuseppe osserva: Mantenimento, il figlio che si sposa lo perde
Il figlio che si sposa perde per sempre il diritto all’assegno di mantenimento erogatogli dai genitori. Il matrimonio, infatti, genera un nuovo organismo familiare autonomo rispetto a quello originario e fa cessare qualsiasi dovere di mantenimento. Lo ha detto la Corte di Appello di Napoli in una recente sentenza. In particolare i giudici campani così si esprimono: “Il matrimonio del figlio maggiorenne già destinatario del contributo di mantenimento a carico di ciascuno dei genitori ne comporta l’automatica cessazione. Con il matrimonio, invero, il figlio diventa componente di un nucleo familiare diverso da quello originario ed automaticamente cessano i doveri di mantenimento a carico dei genitori”. In pratica, con il matrimonio, il figlio maggiorenne dà vita ad un nuovo organismo familiare, distinto ed autonomo da quello precedente in cui era, invece, a carico di mamma e papà. I nuovi coniugi divengono artefici del loro destino, titolari del governo della nuova entità e restano legati dall’obbligo alla reciproca assistenza morale e materiale: obbligo che – lo ricordiamo –costituisce il necessario svolgimento di quell’impegno di vita assieme che hanno assunto con le nozze. In buona sostanza, e per dirla con parole ancora più semplici, a doversi occupare del figlio – qualora questi dovesse trovarsi in stato di necessità economica – non saranno più i genitori quanto piuttosto il coniuge, perché è con quest’ultimo che si è deciso di iniziare un corso di vita insieme e una nuova famiglia. Tant’è che lo stesso codice civile enuncia espressamente il dovere di entrambi di contribuire ai bisogni della famiglia. Con il matrimonio, quindi – conclude il collegio – il figlio diventa componente di un nucleo familiare diverso da quello originario ed automaticamente cessano i doveri di mantenimento a carico dei genitori.
Catapano Giuseppe osserva: Il coniuge separato non ha diritto al Tfr maturato dall’altro coniuge
La Legge sul divorzio riconosce al coniuge divorziato, purché titolare di assegno periodico di mantenimento e non risposatosi, il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto maturato dall’altro coniuge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche nel caso in cui tale indennità sia maturata prima della sentenza del divorzio . Tale quota è riconosciuta nella misura del 40% riferibili agli anni di matrimonio coincidenti con il rapporto lavorativo. Nella determinazione della durata del matrimonio, si tiene conto anche dell’eventuale periodo di separazione legale, mentre nessuna rilevanza è riconosciuta alla cessazione della convivenza tra i coniugi .
Eguale diritto non è riconosciuto al coniuge separato. Ed invero, le norme sull’istituto della separazione non prevedono in alcun modo la partecipazione di un coniuge all’indennità di fine rapporto percepita dall’altro e la giurisprudenza, intervenuta più volte in materia, ha escluso l’applicazione di un’interpretazione estensiva della norma contenuta nella legge sul divorzio , che possa consentirne l’applicazione anche al coniuge separato.
La giurisprudenza ha infatti precisato che il diritto alla quota del TFR dell’atro coniuge sorge solo quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, ma non anche quando sia maturata precedentemente ad essa .
Pertanto, se il coniuge separato cessa di lavorare dopo la pronuncia di separazione ma prima dell’instaurazione del giudizio di divorzio, egli di fatto può disporre liberamente delle somme ricevute a titolo di indennità di fine rapporto e l’altro coniuge non può pretendere alcunché, anche se titolare di assegno di mantenimento.
La giurisprudenza ha anche escluso la possibilità per il coniuge di pretendere una quota delle eventuali anticipazioni sul TFR percepite dall’altro coniuge in costanza di separazione, essendo ormai dette somme entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto .
Conseguenza di quanto detto è che il coniuge separato potrà pretendere una quota del TFR dell’altro coniuge soltanto se, al momento della maturazione dell’indennità di fine rapporto, egli abbia già depositato ricorso per divorzio dinanzi la cancelleria del tribunale competente.
Tuttavia, se il coniuge percepisce il TFR in costanza del giudizio di separazione, il giudice dovrà tenerne conto nella determinazione della sua situazione economica e quindi ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge.
Qualora, invece, il coniuge separato percepisca il TFR dopo la pronuncia della separazione, ma prima della presentazione della domanda di divorzio, l’altro coniuge sarà legittimato a chiedere una revisione dell’assegno di mantenimento, atteso che la riscossione dell’indennità di fine rapporto da parte di un coniuge comporta di fatto una modifica della situazione economica rispetto a quella esistente al momento in cui fu pronunciata la separazione.