NEL MEZZO DI UNA CRISI

Autolesionismo. Non c’è altra definizione per descrivere la situazione in cui ci siamo cacciati.                                                                                                                                                    Abbiamo guadagnato un pochino di tempo, ma sempre sul ciglio del burrone siamo e rimaniamo.
Ripetono da più voci che la condizione odierna dell’Italia non è grave come la crisi finanziaria del 2008, che ci costò anni di pesantissima recessione, e neppure come quella del 2011, che ci portò a un passo dal default. Vero. Ma quelle furono crisi esogene – la prima mondiale, la seconda europea – mentre la crisi che stiamo vivendo ora, perché di crisi si tratta ed è bene cominciare a chiamarla con il suo nome, è solo e tutta italiana. E non ha una genesi di natura economico-finanziaria, come le precedenti, bensì politica. Perché è il venir meno della nostra (già residuale) credibilità istituzionale la cosa che ci ha procurato il declassamento del rating e che genera la sfiducia degli investitori internazionali – giudizi sintetizzati nel numeretto chiamato spread – oltre che l’avversione dei partner europei. E il bello (si fa per dire) è che in questa situazione siamo andati a metterci con le mani nostre, per malriposta presunzione, stupida arroganza e inescusabile ignoranza. Nessuno ci ha spinto, abbiamo fatto tutto da soli. E per questo è più grave, e non meno, delle crisi precedenti. Anche se gli effetti sono e saranno più lievi, l’isolamento che ci procura genera danni strutturali incalcolabili, che sarà maledettamente difficile riassorbire. Specie se, come fanno presagire il machismo delle quotidiane dichiarazioni politiche – la peggiore è quella di  chi accusa Draghi di “avvelenare il clima” – e l’adunata di stampo peronista annunciata per l’8 dicembre a Roma, si continuerà a versare benzina sul fuoco.
Il problema non è lo sforamento del parametro Ue del deficit. Anzi, se le risorse mobilitate fossero state spese bene, e se si fosse messa in campo un’operazione parallela di natura straordinaria sul debito, si poteva anche azzardare di più. E probabilmente, in quel caso Bruxelles si sarebbe comportata come il classico cane che abbaia ma non morde. Il problema fondamentale dell’economia italiana è, ormai da un quarto di secolo, la crescita, senza la quale le misure di redistribuzione della ricchezza non possono che essere a debito. E qui si tenta di spacciare una manovra di tipo redistributivo – peraltro fatta di misure di welfare, come il reddito di cittadinanza o l’anticipo della quiescenza, intrinsecamente sbagliate oltre che costose – come una di sviluppo, sulla base del presupposto che la ricchezza generata con spesa pubblica corrente e in deficit si trasformi in consumi e quindi in pil aggiuntivo.  Il risultato, infatti, è che quella ricchezza “artificiale” diventa in larga misura risparmio, così che i costi (gli interessi sul debito) superano largamente i ricavi (la domanda interna). In questo caso, poi, si aggiunge un costo aggiuntivo, che deriva dall’uso strumentale che si è voluto fare della manovra di bilancio, agitata come una clava in sede comunitaria per valorizzarne l’effetto mediatico-elettorale.
In termini di realpolitik, francamente la valutazione che l’Europa non può farsi sbattere in faccia una manovra “eversiva” negli intendimenti (almeno di qualcuno) e dunque non può e non deve rinunciare a dire la sua visto che le “deviazioni” italiane pesano su tutti gli altri paesi dell’eurosistema, vale tanto quanto il ragionamento opposto, e cioè che se quelle italiane sono provocazioni, non bisogna cascarci per non offrire il destro a chi vuole dipingere l’Europa come matrigna per lucrare consenso e magari, coscientemente o meno, finire per farla saltare in aria.

Con i giudizi delle agenzie di rating, che potranno anche non piacere e si potrà legittimamente considerare tutt’altro che infallibili coloro che li stilano, ma certo è dovere di qualunque debitore tenerne conto vista la loro oggettiva influenza. E poi con lo spread, con i rovesci della Borsa, persino con il calare del valore di cambio dell’euro con il dollaro. Tutte cose che non solo fanno lievitare il costo del debito, come già è, ma ne mettono a rischio il suo piazzamento presso le banche italiane e gli investitori internazionali. E che finiranno con mettere all’angolo il sistema bancario nazionale, al quale se verranno chieste ulteriori ricapitalizzazioni, dopo quelle ingenti cui ha già dovuto provvedere, diventerà alla mercé degli istituti stranieri, con buona pace del sovranismo.
Le strade :  La prima è quella “minimalista” reclamata da Draghi: usare il buon senso che finora si è preso a calci. In effetti basterebbe solo un po’ più di silenzio e compostezza, che sulla manovra ci sarebbero enne mediazioni possibili. Ma di questi tempi, è come chiedere la luna. La seconda è estrema: ricorrere alle procedure dell’OMT (Outright monetary transactions). Avremmo liquidità pressochè illimitata a favore del sistema bancario, ma solo nell’ambito di uno specifico programma di politica economica e finanziaria. In pratica, la vituperata “troika”, il commissariamento che persino Berlusconi era riuscito ad evitare. Politicamente sarebbe indigeribile. E poi l’economia italiana è troppo grande per poter essere sostenuta dall’esterno contro le tendenze endogene, e il debito è troppo interno perchè ci vengano concessi aiuti finanziari esterni. Rimane solo la terza soluzione: andare al più presto alle elezioni. Tipo febbraio 2019. Chi siede al  governo avrebbe buoni motivi per andare in quella direzione. E siccome sarebbero motivazioni opposte, probabilmente determinerebbero una frattura tra loro difficilmente componibile dopo il voto. Certo, oggi i sondaggi parlano chiaro. Ma l’indirizzo politico degli italiani è diventato estremamente volatile, e un appuntamento elettorale causato da una crisi come quella che stiamo vivendo potrebbe svegliare coscienze sopite e spingere all’impegno chi fin qui si è sottratto. catapano giuseppe ope 1