L’ultima stima ufficiale sull’evasione fiscale, presentata in parlamento dal governo il 16 ottobre, indica, per gli anni 2012 e 2013, un tax gap di 108,7 miliardi di euro, di cui 98,3 di mancate entrate tributarie e 10,4 di mancate entrate contributive. Lo stesso rapporto, per definire l’evasione usa il termine di compliance gap, cioè comportamento non conforme del contribuente rispetto alle regole fiscali, giuste o sbagliate che siano. La misurazione di questa mancanza di compliance è addirittura prevista da una legge, la 196 del 2009, e a tal fine il ministero dell’economia ha istituto un’apposita commissione di esperti.
Stranamente, però, nessuno si è mai preoccupato della mancanza di compliance della pubblica amministrazione. E nessuna commissione è mai stata istituita per misurare quale percentuale della spesa pubblica viene sprecata a causa di ritardi, corruzione, inefficienze, privilegi, clientelismo ecc., invece di essere impiegata in servizi a favore dei cittadini (si rischierebbe di scoprire che la percentuale di risorse sprecate è superiore a quella evasa).
Ma c’è di più. In materia tributaria, soprattutto, la compliance, una delle parole più abusate degli ultimi anni, è intesa sempre e solo come il dovere dei contribuenti nei confronti del fisco. Come se la pubblica amministrazione non avesse obblighi di correttezza, lealtà, affidabilità, equità.
Infatti, i termini da rispettare sono sempre perentori nei confronti dei contribuenti, ordinatori (ciò non vincolanti) per l’amministrazione. I primi, se non li osservano, sono soggetti a sanzioni spesso pesanti, nell’amministrazione pubblica invece nessuno paga nulla.
Il passaggio dalla carta al digitale sta peggiorando ulteriormente la situazione. Internet sta trasformando i contribuenti, le imprese, ma molto di più i professionisti, in impiegati esterni dell’amministrazione finanziaria (non retribuiti). Fattorini addetti all’inserimento dati nelle gigantesche banche dati pubbliche.
Qualche esempio, preso dalle più recenti riforme: nella prima versione della voluntary disclosure i conti delle imposte da versare erano a carico dell’Agenzia delle entrate, nella seconda versione sono stati scaricati sulle spalle dei contribuenti. Ancora: con il sacrosanto obiettivo di migliorare la lotta all’evasione, il collegato fiscale alla manovra 2017 introduce nuovi adempimenti come lo spesometro trimestrale e la comunicazione periodica delle liquidazioni Iva, con sanzioni salate per chi sbaglia; adempimenti forse accettabili per le grandi imprese, insopportabili per le piccole partite Iva. Lo split payment Iva per le forniture nei confronti degli enti pubblici, anche questo giustificato dalla lotta all’evasione, è in pratica un prestito forzoso delle imprese alla pubblica amministrazione. Anche il tanto sbandierato 730 precompilato, ammesso che riesca a superare la fase di rodaggio, più che un successo dell’amministrazione finanziaria è una corvée imposta a milioni di contribuenti per l’acquisizione e la trasmissione dei dati secondo le specifiche richieste.
Dall’altro lato della barricata sembra non esistere alcun obbligo di compliance: lo statuto dei diritti dei contribuenti è la legge più violata e aggirata, tanto che sarebbe più decente abolirla; gli accordi preventivi con il fisco, tanto sbandierati, hanno tempi talmente lunghi da renderli in molti casi inutili; la compensazione delle imposte, prevista dalla legge, è frenata in ogni modo; il primo giugno 2016 doveva entrare in vigore la norma sull’esecutività delle sentenze favorevoli al contribuente, ma manca ancora il decreto attuativo, e perciò le sentenze favorevoli ai cittadini servono a poco; idem per la rateazione dei debiti tributari, ancora impossibile in molti casi. La compliance è a senso unico.