Il Jobs act comincia a fare sentire i suoi effetti positivi in termini di semplificazione, certificazione dei rapporti di lavoro, riduzione del contenzioso. Nulla a che fare con l’aumento dell’occupazione: nonostante le polemiche che vanno avanti da mesi tra opposti schieramenti è chiaro che, in fin dei conti, la maggior parte delle nuove assunzioni è legata agli sconti contributivi e alle dinamiche del mercato del lavoro, più che alle riforme del governo Renzi.
Gli effetti benefici del Jobs act emergono da due inchieste presenti su ItaliaOggi Sette: da una parte, a detta degli avvocati giuslavoristi, si registra una netta riduzione del contenzioso (si veda l’inchiesta di apertura dell’inserto «Affari Legali»): una buona notizia per le imprese, perché meno processi significa riduzione dei costi e dell’incertezza operativa. Merito del Jobs act, che ha eliminato il lavoro a progetto e le causali dei contratti a termine e di somministrazione, e ha introdotto il nuovo meccanismo dell’offerta di conciliazione, con la quale il datore di lavoro che ha licenziato un dipendente può fare un’offerta economica in sede conciliativa, che spesso risulta per il lavoratore più conveniente (è esentasse e si può incassare in tempi brevi) rispetto alla scelta di continuare il contenzioso.
Un contributo importante per fare chiarezza sui rapporti di lavoro è arrivato pochi giorni fa dalla circolare della Fondazione studi dei consulenti del lavoro in materia di certificazione dei contratti, che adegua la prassi operativa dei professionisti alle novità contenute nel Jobs act, precisando a quali condizioni è possibile certificare una collaborazione e quali attività invece non possono mai essere qualificate come co.co.co. Fuori quindi, a titolo di esempio, autisti, baristi e camerieri, commesse, estetiste e parrucchiere, magazzinieri, muratori, braccianti agricoli, segretarie, impiegati dei call center e così via. In pratica un rapporto di lavoro non può mai essere una collaborazione se la prestazione è continuativa, ha natura personale, è disciplinata dal datore di lavoro per quanto riguarda l’orario e il luogo di svolgimento della prestazione.
Se l’azienda e il lavoratore vogliono blindare il proprio rapporto ed essere sicuri che la collaborazione sia effettivamente tale e non corra il rischio di essere in futuro trasformata in un rapporto di lavoro subordinato, possono chiedere la certificazione del rapporto stesso che, una volta ottenuta, può essere superata solo da una sentenza passata in giudicato. La certificazione può essere richiesta alle direzioni territoriali del ministero del lavoro, agli enti bilaterali, alle università iscritte in un apposito albo, o ai consigli provinciali dei consulenti del lavoro. Finora gli unici che hanno cominciato a funzionare sono questi ultimi, con l’unica eccezione della dpl di Modena. ItaliaOggi Sette è in grado di pubblicare i dati sulle certificazioni richieste nel 2015 alle commissioni dei consulenti del lavoro: le istanze sono state 1.371 e al 31 dicembre 2015 hanno ottenuto una definizione in 1.219 casi. Di queste 172 si riferivano proprio alla certificazione di collaborazioni: un numero non elevatissimo, ma bisogna tener conto che la procedura è partita solo dal 25 giugno 2015.
Dai primi dati del 2016, ancora provvisori, risulta invece che sta procedendo a rilento la stabilizzazione delle co.co.co., cioè la possibilità concessa alle aziende, a partire dal 1° gennaio 2016, di stabilizzare le collaborazioni in essere che, se trasformate in rapporti di lavoro dipendente, consentono di passare un colpo di spugna sul pregresso. Pesa, in negativo, la riduzione del 60% degli sgravi contributivi rispetto al 2015, che ha demotivato molte aziende a caricarsi di un nuovo rapporto di lavoro dipendente.