giuseppe Catapano: Elezioni ad alto rischio in Turchia

giucatap38La tregua non regge più. Il cessate il fuoco raggiunto nel 2013 tra l’esercito turco e il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, è stato interrotto da un violento ritorno alle armi non solo nelle basi del Pkk, sulle montagne a confine tra Turchia ed Iraq, ma anche tra strade, quartieri ed intere città, scuotendo alle fondamenta la pacifica convivenza tra le molteplici anime della società turca.

Il partito di governo, l’Akp di Recep Tayyip Erdoğan, che dal 2010 si era reso autore di un processo di dialogo senza precedenti nei confronti della minoranza curda, ora volta loro le spalle, in un violento dietro-front politico e militare.

Spina nel fianco
L’ottimo risultato elettorale ottenuto il 7 giugno dal Partito Democratico del Popolo, Hdp – un balzo oltre la soglia di sbarramento – rischia infatti di ostacolare i sogni super-presidenziali di Erdoğan.

Riconosciuta tanto l’impossibilità di una grande-coalizione con i kemalisti-repubblicani del Chp quanto di un esecutivo di minoranza con gli ultra-nazionalisti del Mhp, il primo ministro Ahmet Davutoglu ha indetto nuove elezioni in novembre. Ma nel conto alla rovescia che separa dalle urne, un nuovo lacerante scontro interno sembra spaccare a metà il paese.

L’operazione bicefala degli F-16 turchi
Il 20 luglio, la morte di 33 giovanissimi attivisti durante una conferenza della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti a Suruc ha portato all’apice le già violente tensioni elettorali.

L’attentato, rivendicato dall’autoproclamatosi stato islamico cinque giorni dopo la vittoria delle milizie curde YPG-YPJ a Tel Abyad, sul confine turco-siriano, aveva messo in primo piano la sicurezza del paese.

Dopo un round di colloqui con gli Stati Uniti e la cessione della base di Incirlik alla coalizione internazionale, Ankara ha annunciato l’inizio della sua operazione anti-terrorismo.

Gli attacchi degli F-16 turchi, tuttavia, si sono riversati su due fronti: tanto verso gli jihadisti al confine siriano, quanto verso le basi del movimento di guerriglia turco, il Pkk, nelle montagne al confine con l’Iraq.

La fine ufficiale dello storico e sudato cessate-il-fuoco raggiunto nel 2013.

Più di mille gli arresti tra militanti di sinistra e curdi solo nei primi cinque giorni della campagna anti-terrorismo, mentre Twitter e 96 siti di informazione d’opposizione – in maggioranza curdi – sono stati oscurati.

Gli scontri tra militari e i guerriglieri del Pkk, inizialmente concentrati nella Turchia meridionale, si sono presto estesi a tutto il paese, toccando anche obiettivi sensibili, come il gasdotto tra Iran e Turchia, nella provincia di Agri, e l’oleodotto Kiruk-Ceyhan.

Lupi grigi
L’esplosione delle violenze militari ha risvegliato tensioni civili profonde, soprattutto tra le frange ultra-nazionaliste della società turca, con un ritorno all’attivismo dei cosiddetti “lupi grigi”, organizzazione nazionalista militante fondata negli anni Sessanta.

L’8 settembre, in risposta ad uno degli attacchi più violenti del Pkk nella provincia di Hakkari, la manifestazione dei lupi – “onore ai martiri, condanna ai terroristi” – si è trasformata in un assalto congiunto alle sedi dell’Hdp in 56 province, con negozi di proprietari curdi distrutti o dati alle fiamme.

Sebbene sia il leader degli ultra-nazionalisti del Mhp, Davlet Bahceli, che il rappresentante dei lupi, Kilavuz, abbiano richiamato esplicitamente all’ordine, gli episodi di violenza tra civili hanno avuto luogo durante tutto l’arco di settembre. Scontri tra militari e guerriglieri, nel frattempo, hanno portato a lunghi coprifuoco in diverse città curde come Cizre, dove per nove giorni 120 mila abitanti sono rimasti senza elettricità, acqua e aiuti sanitari.

Media in silenzio
Nel mezzo degli scontri anche la libertà di stampa in Turchia.

Assalito più volte dai manifestanti filo-nazionalisti il quotidiano Hurriyet, da anni critico del governo. Molti i giornalisti a perdere il lavoro negli ultimi due mesi, soprattutto tra i quotidiani gestiti da conglomerati mediatici filo-governativi, come il Milliyet.

In settembre, la polizia ha fatto irruzione anche negli uffici di Ankara del gruppo Koza-Ipek, proprietario di reti televisive e quotidiani vicini ad un altro dei critici del presidente turco, il predicatore islamico residente negli Stati Uniti, Fetullah Gulen.

Fermato anche il direttore esecutivo del giornale Nokta, per una copertina ironica nei confronti di Erdoğan, e sorte peggiore per tre giornalisti stranieri – due di VICE news, insieme all’olandese Frederike Geerdink – esplusi dal paese sotto l’accusa di propaganda al terrorismo.

Non è certo se il volta faccia politico-militare verso i curdi farà scivolare verso l’Akp i voti filo-nazionalisti desiderati per una maggioranza assoluta nelle prossime elezioni di novembre.

Il timore maggiore è rappresentato da una delle parole più frequenti del settembre nero turco: il “kutuplasma”, la frattura profonda tra le diverse anime della società civile turca, sempre più difficile da sanare.

Giuseppe Catapano: Alle radici della richiesta di divorzio da Madrid

giucatap37La vittoria dei secessionisti alle elezioni catalane è un dato da prendere assolutamente con le pinze.

Anche se i deputati indipendentisti ora sono la maggioranza alParlament di Barcellona (72 su 135), i due diversi raggruppamenti che li hanno espressi non hanno insieme la maggioranza assoluta dei voti (si fermano al 47,7%).

Inoltre, la compagine secessionista è molto eterogenea al suo interno, tanto da rendere davvero complicata un’intesa politica di governo.

Tuttavia, pur senza l’agognato 50%+1 dei voti necessario a una dichiarazione unilaterale d’indipendenza, il fronte secessionista può già contare – nella sua azione di lungo periodo – diversi successi.

È da questi che dobbiamo partire per comprendere al meglio le cause e le possibili evoluzioni dello scenario catalano.

Dall’autonomismo all’indipendentismo
L’indipendentismo non è mai stato la corrente maggioritaria della società catalana; questa è stata, nei trent’anni successivi alla morte di Francisco Franco, sempre rappresentata da posizioni autonomiste sì, ma moderate, inclini al compromesso e al patto con il potere centrale.

Ciò significava dunque tendenzialmente la scelta per i socialisti e per il loro riformismo progressista alle elezioni nazionali – a danno dei popolari, considerati troppo centralisti – e il voto a Convergència i Uniò (CiU) alle elezioni locali.

CiU, denominata appunto simbolicamente Partit de Catalunya, era la federazione di stampo democristiano, autonomista, ma non secessionista, capace di interpretare al meglio le idee dell’opinione pubblica locale.

Composta non certo solamente dall’ambiente urbano progressista di Barcellona, ma anche dal suo hinterland industriale, da un tessuto pedemontano di piccole e medie imprese, da un mondo di associazioni culturali fortemente legato alle tradizioni del luogo – e naturalmente unito dalla lingua catalana.

Guidata dal suo “patriarca” Jordi Pujol, CiU tenne il potere ininterrottamente dal 1980 al 2003: la Spagna cresceva, la relazione con Madrid sembrava più o meno funzionare – culminando nell’assegnazione a Barcellona delle Olimpiadi del 1992 – e l’indipendentismo restava appannaggio dell’estrema sinistra catalana, sull’esempio di quella basca.

L’arrugginimento di quel lungo ciclo di potere e lo scontento derivato dalla crisi economica che colpì in maniera più pesante che altrove la Spagna cambiarono però le carte in tavola.

CiU, ormai all’opposizione con il suo nuovo leader Artur Mas, emarginata da nuove coalizioni più spostate a sinistra, decise di svoltare verso posizioni sempre più indipendentiste.

In tal modo voleva intercettare una parte dello scontento dell’opinione pubblica verso lo stato centrale, considerato sempre più inefficiente e poco generoso con la produttiva Catalogna, ma anche spezzare le nuove coalizioni formatesi a Barcellona tra gli indipendentisti di sinistra e i socialisti spagnoli.

Un vero e proprio puzzle, che questa mossa mandò all’aria. I socialisti spagnoli infatti furono spiazzati da un’offensiva politica tutta sui temi dell’aumento dell’autonomia, che loro da Madrid non potevano concedere.

La loro intesa con la sinistra indipendentista catalana si spezzò, e Artur Mas vinse le elezioni del 2010.

Lo scontro con Madrid unisce destra e sinistra
Ma la Catalogna era sommersa dai debiti, e il nuovo governo regionale cominciava a tagliare, tagliare, tagliare – scatenando fortissime proteste.

Come evitare che la sinistra tornasse al potere e CiU, colpita tra l’altro da inchieste su corruzione e malaffare, fosse travolta come accadeva a tanti partiti europei?

La scelta di aprire uno scontro ancora più duro con lo stato centrale risolse questo problema: grazie a un grande impegno civico e volontario – accompagnato da una formidabile azione dei tanti strumenti mediatici e culturali in mano al governo regionale – le classi medie catalane si sono unite alla fascia elettorale indipendentista di sinistra nel chiedere sovranità.

La mobilitazione che ne è derivata è stata al contempo quotidiana e massiccia. Il partito che rappresentava questa fascia, Esquerra Republicana de Catalunya, si è unito a CiU (che nel frattempo ha subito una scissione, trasformandosi in Convergència Democratica de Catalunya, Cdc).

Tutte queste giravolte hanno originato il listone comune indipendentista che con il 39,5% è stato il più votato alle elezioni di domenica. Capolista, Artur Mas.

La dirigenza di Cdc è dunque riuscita non solo ad assicurare la sua sopravvivenza nei turbolenti anni della crisi – che hanno visto tanti partiti e leader apparentemente inossidabili sparire in breve tempo.

Ma in realtà è riuscita a spostare tutto l’asse della politica regionale sul conflitto Barcellona-Madrid, e non più su quello destra-sinistra com’era prima.

Sia il voto del 2012 che quello del 2015 sono infatti due voti anticipati, entrambi voluti da Mas nel tentativo di consolidare con le urne questa linea.

Despagnolizzazione della politica catalana
Dunque, gli indipendentisti non hanno la maggioranza assoluta, ma la despagnolizzazione della politica catalana è praticamente completa.

I due partiti nazionali (PP e Psoe, popolari al governo di Madrid e socialisti all’opposizione), raccolgono insieme il 21%. Una cifra che non si vede nemmeno nel Paese Basco, dove insieme arrivano al 30%.

Podemos, strozzata dall’irrilevanza dello scontro tra destra e sinistra, ha infatti registrato un risultato molto deludente; Ciutadans, la nuova formazione liberale nata da poco proprio in Catalogna, si è invece schierata apertamente per l’unione con la Spagna e dunque ha raccolto con successo il voto dei tanti contrari all’indipendenza, anche fuori da quell’area politica.

Mentre la scommessa egemonica di Cdc si rivela quindi per il momento ancora vincente in Catalogna, bisognerà aspettare dicembre per sapere quale nuovo governo, da Madrid, dovrà occuparsi della sempre più intricata questione catalana.

Giuseppe Catapano: Cooperazione italiana, è giunta l’ora della ribalta

giucatap36Il discorso di Matteo Renzi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione peraltro dell’approvazione dei nuovi 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, è stato emblematico della nuova cifra della cooperazione italiana come chiave politica di posizionamento dell’Italia nella comunità internazionale.

L’obiettivo del futuro della cooperazione internazionale è infatti andare oltre l’aiuto per essere ancora più efficaci e raggiungere l’obiettivo dello sviluppo e della promozione umana.

Non si tratta di sottovalutare quanto bisogno di sostegno e assistenza materiale vi sia ancora in molti Paesi, ma di far evolvere le Agenzie nazionali e internazionali di cooperazione, così da adeguarle al nuovo scenario economico e geopolitico che abbiamo dinanzi.

Meno i paesi poveri, ma più i fragili
Abbiamo di fronte un nuovo panorama di Paesi emergenti in cui si riducono quelli poverissimi (scesi secondo la Banca Mondiale da oltre 60 a 34) ma aumentano i “paesi fragili” (36 secondo l’Ocse), il cui sviluppo economico è azzoppato da conflitti, debolezze istituzionali, insufficienze delle reti sociali e imprenditoriali.

Si calcola un gap di infrastrutture per il quale sarebbero necessari 8oo miliardi di dollari l’anno in Asia e quasi 100 miliardi in Africa. Uno scenario in cui si studiano nuovi strumenti di intervento: la finanza sociale per lo sviluppo, il ricorso intensivo e diffuso all’information technology, il contributo del privato e l’insistenza sul trasferimento di know how industriale.

Su tutto, la consapevolezza che i temi della povertà e della sostenibilità si affronteranno con scelte politiche di fondo (dalla tracciabilità dei “minerali da conflitto” alle regole del commercio internazionale) e non semplicemente con il trasferimento di denaro e aiuto.

Ecco perché il dibattito sulla cooperazione deve essere affrontato toccando temi nuovi, coinvolgendo nuove professionalità, con un approccio più agile e trasversale rispetto a quello fino ad ora adottato in questo campo.

Riforma della cooperazione italiana
Non c’è riunione, vertice o incontro in cui il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non citi la riforma della nostra cooperazione con orgoglio e non indichi con ambizione il traguardo storico di “indossare entro il 2017 la maglietta numero 4” tra i donatori nel club esclusivo del G7. Parliamo di circa un miliardo e mezzo di dollari di nuove risorse da destinare alla cooperazione.

Soldi ben spesi per il Governo non solo perché aiuteranno la stabilizzazione di aree di conflitto, lo sradicamento della povertà e il contrasto al cambiamento climatico, riducendo così la pressione migratoria, ma anche perché garantiranno un ritorno politico per il Paese, per il suo standing internazionale e, non ultimo, stimoleranno una forma di “internazionalizzazione per lo sviluppo” necessaria alle nostre imprese.

Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Renzi è partito dall’orgogliosa rivendicazione dell’impegno del Paese per salvare migliaia di vite umane nel Mediterraneo e dallo sforzo di convincere l’Europa a una politica solidale e aperta verso il dramma dei profughi, per spaziare al tema dello sviluppo sostenibile in agenda a dicembre a Parigi, alla sostegno alla moratoria contro la pena di morte fino alla rivendicazione dell’obiettivo di divenire donatore virtuoso nell’aiuto allo sviluppo.

Il tutto con il disegno strategico di ridefinire lo standing internazionale del Paese a partire da queste battaglie e in vista della elezione in Consiglio di Sicurezza del prossimo anno dove ce la dovremmo vedere con Svezia e Olanda, Paesi maestri nell’utilizzare questo tipo di strumenti di “soft power”.

Nuova Agenzia italiana per la cooperazione
In questo nuovo contesto internazionale ma anche sulla scorta di questo inedito impulso politico volto a rafforzare il protagonismo internazionale dell’Italia, saranno importanti i primi passi della neonata Agenzia italiana per la cooperazione, un attore chiave della riforma, all’incrocio tra Farnesina, Palazzo Chigi, il tessuto prezioso della solidarietà internazionale e il mondo del profit responsabile.

Un’Agenzia che deve essere moderna, digitale, trasparente e innovativa, mantenere un rapporto più che virtuoso tra volume di aiuti gestiti e costi, deve diventare partner di Cassa Depositi e Prestiti sui temi della finanza per lo sviluppo e della partnership con il privato ma deve anche essere capace di ridare risorse ai progetti della società civile, della cooperazione popolare e di quella territoriale.

È ora di far uscire la cooperazione dall’angolo in cui per anni l’abbiamo relegata, di riconoscerle il ruolo politico centrale che deve avere nella nostra politica estera, un politica estera che si sta trasformandosi in “global politics”, non più limitata alle grandi trattative internazionali e ai consueti incontri bilaterali ma sempre più giocata trasversalmente su tutti i temi (dall’ambiente all’immigrazione, dalla lotta alla povertà ai trattati commerciali) e in cui proprio la cooperazione allo sviluppo potrà giocare un ruolo centrale come strumento di “soft power” per il Paese e chiave per un contributo positivo dell’Italia nel costruire un mondo più sostenibile, equo e sicuro.

Giuseppe Catapano: Blitz di Francesco nella politica Usa

giucatap35Sbarcato negli Usa a circa quattrocento giorni dalle elezioni che porteranno alla Casa Bianca il successore di Barack Obama, papa Francesco ha toccato tutti i temi caldi al centro del dibattito statunitense: immigrazione, cambiamenti climatici, armi, pena di morte, Cuba, matrimoni gay, aborto. E a conti fatti si è schierato più dalla parte dei democratici che dei repubblicani.

Davanti al Congresso, a maggioranza repubblicana, il papa è stato tutto sommato sbrigativo su aborto e famiglia, mentre ha calcato molto di più la mano quando ha chiesto di abolire la pena di morte e ha tuonato contro il commercio e l’uso delle armi.

Inoltre, se a proposito di ingiustizie sociali, capitalismo, finanza e globalizzazione ha usato accenti più morbidi del solito, è stato invece esplicito a proposito di immigrazione, specie quando ha ricordato di essere “come molti tra di voi, figlio di immigrati” e quando ha chiesto di “considerare i migranti come persone, guardando i loro visi, ascoltando le loro storie, cercando di rispondere al meglio ai loro bisogni”.

Bergoglio in sintonia con i democratici
Anche se è sempre fuori luogo giudicare gli interventi di un papa in base alla logica della contrapposizione politica, è indubbio che la sintonia tra Francesco e i democratici è risultata piuttosto marcata.

Le figure che Francesco ha scelto come esempi di autentica vita ispirata al sogno americano (Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day, Thomas Merton) appartengono al mondo democratico molto più che a quello repubblicano. E, parlando di loro, il papa non ha esitato a usare espressioni tipiche del vocabolario democratico come pace, dialogo, diritti, lotta per la giustizia, causa degli oppressi.

Il passaggio nel quale Francesco ha chiesto di guardarsi da ogni forma di fondamentalismo è stato applaudito da tutta l’assemblea, ma quando, subito dopo, ha esortato a non dividere il mondo in modo semplicistico tra giusti e peccatori è sembrato pensare a certi atteggiamenti di casa soprattutto nell’universo repubblicano. Idem per quanto riguarda la politica (che non deve essere al servizio dell’economia e della finanza), la lotta alla povertà, la difesa dell’ambiente.

Francesco, in ogni caso, comunica anche con i gesti e quindi sono state altamente significative le sue visite ai più deboli ed emarginati, ai poveri, ai senza casa, ai migranti, ai detenuti (dove ha ricordato con forza che scopo della pena deve sempre essere il reinserimento sociale, non una sorta di vendetta).

“Papa Francesco ci sta mostrando e insegnando che si può ottenere molto più di quel che pensiamo possibile. Sto cercando di seguire il suo esempio”, ha commentato pieno di entusiasmo il sindaco democratico di New York, Bill De Blasio, mentre da parte repubblicana (dove ci sono cinque candidati alla Casa Bianca dichiaratamente cattolici: Bush, Rubio, Christie, Kasich e Jindal) si possono registrare al più le lacrime dello speaker (anche lui cattolico) del Congresso, John Boehner, seguite dalle dimissioni in polemica con l’ala destra del suo partito.

I repubblicani prendono le distanze da Bergoglio
Tra i repubblicani solo l’uomo nuovo del partito, il neurochirurgo afroamericano Benjamin Carson, non si è schierato apertamente contro il discorso di Francesco al Congresso, mentre Ted Cruz, rappresentante della destra cristiana, noto per i suoi frequenti riferimenti a Dio, ne ha preso le distanze.

In generale Francesco ha espresso la convinzione che un’alleanza tra pensiero cristiano e modernità è non solo possibile, ma necessaria. Anche in questo caso la sua linea si scontra con quella di buona parte dello schieramento repubblicano che punta piuttosto alla conservazione e al recupero di alcuni sacri principi.

Il soft power di Bergolio
Al di là delle contrapposizioni politiche, Francesco ha colpito buona parte dell’opinione pubblica statunitense con la sua autorevolezza fatta di semplicità è umiltà.

Il suo è un ‘soft power’, ha sostenuto David Ignatius sul Washington Post, che esercita un certo fascino su una società ormai abituata ai toni esasperati: “Questo papa è forte perché è umile. In un mondo complesso, il suo messaggio ha risonanza perché è semplice”. “Se tu hai un problema con papa Francesco vuol dire che hai un problema con Cristo” è arrivato a scrivere un non cristiano come il giornalista e scrittore Fareed Zakaria.

“Mi ha sorpreso il calore della gente”, ha detto Bergoglio conversando con i giornalisti durante il volo di rientro. Il papa si è detto colpito “dalla bontà, dall’accoglienza, dalla pietà, dalla religiosità”, e “si vedeva pregare la gente”.

A questa America il suo messaggio è sicuramente arrivato. E la condanna decisa, reiterata, accompagnata da scuse esplicite, per tutti i casi di abusi e pedofilia, permette alla Chiesa cattolica statunitense di rialzare legittimamente la testa.

Il che non è poco considerata la “grande tribolazione” (parole di Francesco) attraverso cui è passata negli ultimi anni.

Giuseppe Catapano: Cameron sui migranti provoca l’Ue

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Difficile immaginare una strategia più provocatoria nei confronti dei partner europei di quella scelta dal governo Cameron per affrontare la crisi dei profughi.

Tentare di collegare la gestione delle frontiere esterne all’Unione europea (Ue) con quella della libertà di movimento interno non può che irritare gli altri Paesi, isolando ancora di più la Gran Bretagna.

Il ministro degli Esteri Philip Hammond ha fatto capire che gli inglesi non sopportano l’ “ipocrisia” di quei paesi come l’Ungheria e la Polonia che difendono i propri confini con ogni mezzo, mentre insistono a voce alta sulla validità del sistema di Schengen e la libertà di movimento dentro lo spazio dell’Ue.

Proporre la Gran Bretagna come l’unica nazione che sostiene una linea moralmente coerente, una linea protezionistica ed esclusiva peraltro, nel mezzo di un’emergenza imprevista di proporzioni tremende che coinvolge tutti, rischia di bruciare quel poco di capitale politico di cui gli inglesi ancora dispongono in Europa.

Persino il fedele alleato danese ha preso le distanze. E gli irlandesi, anch’essi fuori da Schengen, dimostrano molto più disponibilità.

La posizione del governo è determinata da tre fattori la cui importanza relativa è in flusso continuo:
1) la pressione di quella parte dell’opinione pubblica che non vuole sentire parlare di immigrati, provengano essi da dentro o da fuori l’Ue;
2) la preoccupazione che in mezzo al mare di aspiranti immigrati possono nascondersi infiltrati dell’autoproclamatosi stato islamico o altre organizzazioni terroristiche;
3) il futuro referendum sull’appartenenza o meno della Gran Bretagna all’Ue europea.

Verso il referendum per il Brexit
Nella campagna elettorale di maggio, Cameron ha confermato il suo impegno a promuovere il referendum sull’uscita dall’Ue dopo aver ‘rinegoziato’ certi aspetti dei Trattati di base dell’Ue.

Questi riguardano competitività: come rendere il mercato unico più efficace; sovranità: restauro del potere dei parlamenti nazionali; sicurezza sociale: più controllo nazionale sull’ accesso ai sistemi di welfare; e ‘governance economica’.

In pratica controllo delle frontiere e sul diritto di movimento dei cittadini Ue dentro i confini inglesi. Su quest’ultima questione, gli altri membri dell’Ue si sono dimostrati fino ad ora poco interessati o, vedasi i paesi dell’Europa dell’Est, apertamente ostili.

Cameron lo sa, ma è consapevole che a causa della questione immigrati – più di mezzo milione arrivati nell’anno fino a maggio 2015 – i sondaggi stanno dando per la prima volta un’esile maggioranza a favore dell’uscita.

Con la sua posizione sicura nella Camera dei Comuni, il governo è poi esposto più di prima a quell’ala del partito conservatore – fino a un terzo dei deputati – che ha sempre respinto in modo rumoroso e militante ogni istanza proveniente da Bruxelles, Strasburgo o Francoforte. Oggi quell’ala richiede che al momento del referendum il partito si astenga.

È anche per questa situazione politica che Cameron ha scelto di non pronunciarsi sulla questione ucraina, e ha tardato fino all’ultimo prima di esprimere una posizione sulla questione profughi.

L’aiuto di Cameron ai profughi
Il governo insiste comunque sulla differenza tra migranti e profughi. Per i primi nessuna pietà: vanno rispediti al punto di partenza. Per le vittime della guerra in Siria invece sta cercando il modo per venire incontro alle loro esigenze, aiutandoli in primis a casa loro.

Il governo inglese sta per esempio sostenendo programmi internazionali in Siria e Giordania, e negli ultimi tre anni ha donato un miliardo di sterline all’Unhcr e ad altre organizzazioni umanitarie che gestiscono i campi profughi in questi paesi.

Cameron si è poi detto pronto ad accogliere sul suolo inglese 20mila profughi nei prossimi cinque anni. Non migranti, ma uomini, donne e bambini rifugiati nei campi e presumibilmente scelti sul posto da agenti del governo.

Assolutamente troppo poco dicono i critici, dall’Arcivescovo di Canterbury all’opposizione laburista. Dalle dozzine di accademici e ricercatori che hanno firmato una petizione per chiedere una politica molto più robusta e generosa al governo scozzese in mano ai nazionalisti, la cui leader, Nicola Sturgeon, si è impegnata ad accogliere una famiglia siriana a casa sua.

Preparandosi al congresso dei Conservatori
Stretta tra tutti questi fuochi, la posizione di Cameron è oggettivamente difficile. Il suo atteggiamento rilassato e da ‘buontempone’ non sembra adatto a sfide così dure.

Il mese prossimo arriverà il congresso del suo partito: una specie di resa dei conti. Contro ogni prognostico il Primo ministro ha vinto la grande battaglia delle elezioni di maggio. Ed è con questo capitale politico che affronterà una platea che normalmente si dimostra molto obbediente e rispettosa del suo leader.

In un momento in cui l’immigrazione è la preoccupazione numero uno della popolazione, e indipendentemente delle crisi attuale, l’impegno preso nel 2010 da Cameron per gli arrivi ad un numero trascurabile si è rivelato un flop. Cameron non potrà godersi quella grande, trionfante festa che si era promesso solo cinque mesi fa.

Giuseppe Catapano: Il resistibile conflitto tra Putin e Obama

giucatap33La differenza fra Bill Clinton e Barack Obama – insieme 16 anni di potere americano democratico, sia domestico che globale – è la politica. Lo ha detto una volta Leon Panetta che dell’amministrazione Clinton fu il chief of staff, la carica di maggior potere dopo quella del presidente, e con Obama è stato segretario alla Difesa e capo della Cia.

Clinton, diceva Panetta, era venuto dal basso, aveva fatto il governatore di uno stato fra Mid West e Sud, l’Arkansas: amava la politica, si buttava nella mischia, ne governava la brutalità e l’arte del compromesso tutte le volte che occorreva, cioè quasi sempre.

Obama invece è un idealista, un liberal a tutto tondo che in realtà detesta le nuancedella politica e le evita ogni volta che può.

Per lui c’è un bene e un male, difficilmente una via di mezzo. Il famoso discorso al mondo arabo dall’università di Al-Azhar del Cairo, per esempio, fu un capolavoro di retorica liberale al quale tuttavia non seguì la consistenza di una politica sul campo: promosse il cambiamento, ma non lo governò.

Esempi ancora più completi di questa idiosincrasia per il fango e la polvere della politica, sono il Medio Oriente e Vladimir Putin: il modo col quale Obama li ha affrontati, soprattutto il modo col quale ha tentato di evitarli.

Forse Vladimir Vladimirovich non avrebbe rischiato così tanto prima in Ucraina e poi in Siria, non avrebbe tentato di riaffermare così rapidamente l’ambizione imperiale russa, se i tentennamenti e il disimpegno di Obama non gli avessero così repentinamente aperto una prateria geopolitica.

Putin detta l’agenda della crisi ucraina
L’Ucraina e la Siria hanno molte similitudini nel comportamento dell’amministrazione Usa e in quello di Putin. La prima non era una priorità per gli Stati Uniti che non avevano la necessità né l’urgenza di aggiungerla alla Nato: non fosse stato così, non avrebbero lasciato a Germania e Francia la rappresentanza occidentale al vertice di Minsk.

Non era una priorità nemmeno per l’Unione europea, Ue, ad eccezione di polacchi e repubbliche baltiche. Quando sono iniziate le manifestazioni popolari in piazza Maidan, Obama non aveva una politica, a parte la reazione naturale a ogni governo occidentale di sostenere tutte le rivolte democratiche: era accaduto anche in piazza Tahrir, al Cairo.

Per Putin invece l’Ucraina era la priorità. Dal tipo di governo al potere a Kiev dipendeva quanto lontano sarebbe stata la Nato dalle frontiere occidentali russe; quanto vicino o lontano si sarebbe dispiegato il sistema missilistico anti-missile statunitense; quale postura avrebbe dovuto avere la strategia difensiva russa.

Per questo è sempre stato Putin a definire agenda e azioni in Ucraina. Stati Uniti e Ue hanno sempre solo reagito alle sue mosse. E se non fossero state così spregiudicatamente militari, la reazione occidentale sarebbe stata molto più cauta.

Siria, il fallimento di Obama
Così in Siria. C’è qualcosa che a Washington non ha funzionato se Obama arma e finanzia da anni l’esercito iracheno senza che questo sia forte abbastanza per tenere testa all’autoproclamatosi “stato islamico”; rifiuta di dare ai ribelli siriani le armi più potenti per impedire che cadano nelle mani del califfato, così facendo impedendo loro di vincere; tratta con gli iraniani sul nucleare, rischiando molto con i repubblicani in Campidoglio e Benjamin Netanyahu a Gerusalemme.

Poi è Putin a firmare un’alleanza armata con l’Iraq, l’Iran e il regime siriano per combattere lo “stato islamico”. La politica è arte del compromesso e ideali, ma anche temerarietà.

Farne sfoggio per Putin è più facile che per Obama. Il primo non ha un’opinione pubblica alla quale rispondere e il voto favorevole della compiacente Duma è solo un atto formale e scontato.

Obama deve rispondere a una società civile, una stampa e a un Congresso veri: camera dei rappresentanti e senato, entrambi a maggioranza repubblicana, poi, sono così ostili al presidente da votare contro a priori. Esattamente come la Duma, che invece vota sì, senza nemmeno chiedersi cosa si stia decidendo.

Usa e Russia, verso un nuovo bipolarismo
Come il mondo prima del crollo dell’Unione Sovietica, le relazioni internazionali stanno tornando verso un bipolarismo fra due sistemi diversi. Anche se ora il capitalismo è comune a entrambi e potrebbe aggiungersi alla deterrenza nucleare (l’equilibrio del terrore, quello non cambia mai) per convivere e a volte collaborare meglio di prima. E come prima ci saranno alti e bassi, disgeli e nuove gelate.

A meno che Putin non si faccia prendere da una mania di grandezza più grande di quella mostrata fino ad ora, Stati Uniti e Russia cercheranno un modo per combattere insieme lo “stato islamico” e avviare prima o poi il negoziato per una nuova Siria, molto probabilmente senza Bashar Assad.

Ma una volta di più, come nel vecchio mondo della Guerra fredda, non è una Siria senza risorse energetiche il nocciolo del problema. Sarà l’Ucraina, cioè l’Europa il vero terreno di confronto o di collaborazione.

Giuseppe Catapano: Frodi in materia IVA e prescrizione: la sentenza Taricco (Corte di Giustizia dell’Unione Europea)

giucatap32Segnaliamo la pronuncia con cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione, impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione.

Il Tribunale di Cuneo, investito del procedimento a carico del sig. Ivo Taricco per una serie di operazioni fraudolente note come «frodi carosello», aveva chiesto alla Corte se, finendo col garantire l’impunità alle persone e alle imprese che violano le disposizioni penali, il diritto italiano non abbia creato una nuova possibilità di esenzione dall’IVA non prevista dal diritto dell’Unione.

Con l’odierna sentenza – si legge nel comunicato stampa rilasciato dalla Corte di Giustizia – «la Corte rammenta, anzitutto, che, secondo l’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), gli Stati membri devono lottare, con misuredissuasive ed effettive, contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione e, in particolare, prendere le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro propri interessi finanziari. La Corte rammenta inoltre che il bilancio dell’Unione è finanziato, tra l’altro, dalle entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati, ragion per cui esiste un nesso diretto tra la riscossione di tali entrate e gli interessi finanziari dell’Unione».

«In considerazione di tali elementi, il giudice italiano dovrà verificare se il diritto italiano consente di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Così, il diritto italiano sarebbe contrario all’articolo 325 TFUE qualora il giudice italiano dovesse concludere che un numero considerevole di casi di frode grave non può essere punito a causa del fatto che le norme sulla prescrizione generalmente impediscono l’adozione di decisioni giudiziarie definitive. Analogamente, il diritto italiano sarebbe contrario all’articolo 325 TFUE se stabilisse termini di prescrizione più lunghi per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Italia che per quelli che ledono gli interessi finanziari dell’Unione».

«Così sembra essere – prosegue il comunicato – poiché il diritto italiano non prevede alcun termine di prescrizione assoluto per il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco. Qualora il giudice italiano dovesse ravvisare una violazione dell’articolo 325, egli sarà allora tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, le norme sulla prescrizione controverse. Infatti, l’articolo 325 TFUE ha per effetto, in base al principio del primato del diritto dell’Unione, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della sua entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente».

Nella pronuncia si osserva come «una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare».

«Il giudice nazionale – conclude la pronuncia – è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE».

Segnaliamo che la terza sezione penale della Corte di Cassazione (Relatore Scarcella, di cui si conosce, per ora, solo l’informazione provvisoria) ha fatto immediata applicazione della sentenza della Corte di giustizia mentre la Corte di Appello di Milano ha investito della questione la Corte Costituzionale.

Giuseppe Catapano: Principio di autoresponsabilità del lavoratore: quando esclude la responsabilità del datore?

Le Massime
1. L’obbligo di prevenzione si estende agli incidenti che derivino da negligenza, imprudenza e imperizia dell’infortunato, essendo esclusa, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo, solo in presenza di comportamenti che presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive organizzative ricevute e alla comune prudenza.
2. Nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o dall’inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale viene attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.

Il Commento
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione conferma i precedenti giurisprudenziali in ordine alle conseguenze che il comportamento colposo del lavoratore, rivelatosi per quest’ultimo dannoso, può esplicare sulla responsabilità datoriale.
Il caso di specie, su cui la Corte di legittimità appunta la propria attenzione, può essere puntualmente ricostruito riportando pedissequamente le parole del relatore (cfr. Ritenuto in fatto, paragrafo 1): “Il B., quale datore di lavoro, è stato ritenuto responsabile del delitto contestato, per aver consentito, in violazione della disposizione di cui all’art. 52 d.P.R. 164/1956, che A.L. e S.M. allestissero un trabattello alto circa sette metri e vi salissero al di sopra per eseguire lavori di montaggio di pannelli insonorizzanti sulla parete di un edificio, senza che la struttura fosse ancorata alla parete, in mancanza di un idoneo dispositivo antiribaltamento, e montata in modo irregolare, avendo solo tre punti di appoggio, in quanto uno dei piedi era poggiato su di un blocco di cemento che non si trovava allo stesso livello della superficie su cui erano poggiati gli altri piedi. Sta di fatto che il trabattello, nel corso dei predetti lavori, cedette e rovinò al suolo, il S. fini a terra schiacciato dalla struttura riportando gravissime lesioni”.
L’imputato impugnava perciò in appello, presentando al giudice ad quem il contenuto di sopravvenute conversazioni telefoniche dalle quali emergeva che l’evento lesivo era stato cagionato da un comportamento imprudente della persona offesa, la quale, per persuadere un proprio collega (anch’egli operante sul trabattello) ad interrompere la telefonata che questi stava intrattenendo con la propria fidanzata, aveva cominciato a muoversi al fine di far oscillare la postazione, sino a raggiungere involontariamente gli esiti infausti precedentemente descritti. Tale comportamento veniva sostanzialmente presentato quale concausa sopravvenuta da sola idonea a cagionare l’evento, con conseguente esclusione di ogni profilo di responsabilità penale in capo al datore.
In contrasto con quanto asserito dall’appellante, la Corte territoriale evidenziava – per quanto qui di interesse – che il comportamento imprudente del lavoratore non poteva in questo caso avere effetti liberatori con riferimento alla responsabilità penale del datore di lavoro, e ciò ha trovato conforto nelle argomentazioni del Giudice di Legittimità a seguito di ricorso per cassazione.
Spiega la quarta Sezione, in linea con l’insegnamento oramai granitico, che l’entrata in vigore del Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) ha comportato un mutamento notevole nella percezione della rilevanza del comportamento del lavoratore negli infortuni avvenuti sul luogo di lavoro: dalla sua ininfluenza sul destino processuale del datore di lavoro si è passati ad una visione fondata non solo sulla concreta moltiplicazione delle posizioni di garanzia all’interno del contesto lavorativo, bensì anche su una rivalutata pregnanza della condotta colposa del lavoratore autodanneggiatosi (c.d. principio di autoresponsabilità del lavoratore).
La questione da dirimere diventa allora la seguente: quand’è che l’esito infausto (es. morte, lesioni) occorso al lavoratore può essere addebitato esclusivamente alla sua condotta imprudente, liberando il datore di lavoro da ogni profilo di responsabilità penale?
Si legge tra le massime oramai consolidate, pronunciate anche in tempi recenti dalla Corte di Cassazione, che il datore di lavoro tradizionalmente sfugge ad ogni pretesa punitiva dell’ordinamento penale, per i danni che il lavoratore si sia in pratica autocagionato con comportamenti imprudenti, quando la condotta dalla quale sia scaturito il danno si qualifica come abnorme, eccezionale, esorbitante rispetto alle mansioni del lavoratore e alle direttive impartitegli (cfr. Cass. pen., 23292/2011; Cass. pen. 7267/2010). Nella sentenza in commento, peraltro, la Corte enuncia la distinzione tra condotta “abnorme” e condotta “esorbitante”, la prima consistendo nel comportamento avulso dall’attività lavorativa tout court, la seconda corrispondendo alla condotta pur sempre lavorativa ma non rientrante nelle specifiche mansioni del lavoratore danneggiato.
La sentenza in epigrafe non solo conferma il principio testé enucleato, ma effettua una importante precisazione: l’imprudenza del lavoratore può escludere la responsabilità del datore di lavoro a patto che questi si sia reso a monte inattaccabile sul piano della avvenuta predisposizione delle misure antinfortunistiche (cfr., di recente, Cass. pen. 6741/2015). In altri termini, il soggetto apicale nel contesto lavorativo conserva la propria responsabilità penale laddove abbia omesso quelle attività organizzative, formative o di messa in sicurezza del luogo di lavoro, le quali avrebbero con grado statistico apprezzabile fatto fronte adeguatamente a quegli stessi rischi promananti dalla condotta imprudente del lavoratore (cfr. Cass. pen. 23729/2005; Cass. pen. 31303/2004; Cass. pen. 3580/1999). In questo caso, dunque, l’evento infausto discende cumulativamente dalla condotta omissiva del datore e da quella commissiva del lavoratore, non potendo quest’ultima assorbire totalmente il fenomeno eziologico; tuttavia è possibile, secondo le più moderne acquisizioni, tener conto della colpa del lavoratore ai fini della commisurazione della pena irrogabile al datore di lavoro (a tale orientamento pare allinearsi la quarta Sezione con la sentenza annotata; cfr. paragrafo 3.4. del Considerato in diritto).
Quanto premesso, ai fini di una migliore comprensione, impone allora di differenziare l’imprudenza normale e prevedibile del lavoratore dall’imprudenza eccezionale, vale a dire un comportamento imprevedibile in quanto abnorme o esorbitante nei termini suesposti.
Con riferimento alla prima, essa non esclude la responsabilità del datore di lavoro qualora a monte egli abbia operato in maniera deficitaria nella predisposizione di quei presidi antinfortunistici che sarebbero valsi a scongiurare l’evento secondo un grado apprezzabile di probabilità: rileva infatti la giurisprudenza che «incombe sul datore di lavoro il precipuo obbligo d’impedire prevedibili imprudenti condotte dei lavoratori, mediante utilizzo di strumenti e macchinari non agevolmente alterabili, l’uso obbligatorio di dispositivi individuali di protezione e, non ultimo, l’approntamento di personale di vigilanza capace di negare l’accesso a procedure pericolose» (in termini, Cass. pen., sez. IV, 22247/2014).
La seconda, al contrario, presuppone proprio a monte la diligenza del datore di lavoro relativamente ad ogni attività formativa, direttiva, organizzativa e di impiego delle misure di sicurezza in grado di far fronte ai rischi comunemente legati al contesto lavorativo; sicché, assolti tali compiti, il datore di lavoro andrà esente da ogni responsabilità in merito a quanto accaduto come conseguenza dell’imprudenza del lavoratore, poiché tale imprudenza sarà in concreto qualificabile come condotta abnorme o esorbitante, come tale escludente il nesso di causalità.
Tentiamo di fornire schematicamente un quadro riepilogativo sulla interferenza tra la condotta del lavoratore e la responsabilità del datore di lavoro alla luce dei principi giurisprudenziali sinora evinti:

  • L’entrata in vigore del Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, d.lgs. 81/2008, ha reso opportuno considerare l’efficacia autolesiva della condotta del lavoratore, in virtù del principio di autoresponsabilità del lavoratore stesso.
  • Il datore di lavoro ha tra i propri compiti, connessi alla posizione di garanzia di cui egli è titolare nei confronti dei lavoratori, quello di impartire le direttive operative ed organizzative cui i lavoratori devono sottostare, nonché quello di predisporre le misure di sicurezza idonee a fronteggiare i rischi normalmente connessi alle mansioni dei lavoratori.
  • Tali presidi antinfortunistici devono mirare a preservare il lavoratore non solo nel regolare espletamento della propria mansione, ma altresì dinanzi al rischio di condotte imprudenti considerabili normali e prevedibili nel contesto lavorativo. In questo caso, l’imprudenza del lavoratore è relegata in secondo piano dalla prevalente posizione di garanzia del datore di lavoro, il quale deve infatti – per consolidata giurisprudenza – non solo allestire i presidi antinfortunistici, ma anche vigilare sul rispetto delle misure di sicurezza da parte dei lavoratori, se del caso imponendo agli stessi la loro osservanza nonché l’ossequio alla comune prudenza. Il principio di autoresponsabilità ha, in questa ipotesi, effetti limitativi della responsabilità penale del datore di lavoro, influenzando al ribasso la commisurazione della pena.
  • Il datore di lavoro non risponde per l’esito infausto che abbia attinto il lavoratore, a cagione di una condotta colposa di quest’ultimo, che travalichi lo stadio di “imprudenza prevedibile”, assurgendo al rango di condotta abnorme (assolutamente avulsa dall’attività lavorativa) o esorbitante (coerente con l’attività lavorativa ma avulsa dalla specifica mansione assegnata al lavoratore). In questo caso, prevale l’affidamento che il datore di lavoro ripone nella aderenza dell’attività del lavoratore alle direttive impartitegli e al procedimento lavorativo, e il principio di autoresponsabilità del lavoratore ha effetti liberatori nei confronti del datore di lavoro.

Giuseppe Catapano: Detenzione “illegale”, la Corte europea condanna l’Italia per le condizioni di detenzione e per l’espulsione collettiva di tre tunisini in violazione degli standard di tutela dei diritti umani.

Con una recentissima sentenza, la Corte europea torna a pronunciarsi sulla conformità dell’ordinamento italiano agli standard di tutela dei diritti umani sanciti dalla CEDU.

Nel caso specifico, la Corte esamina il ricorso di tre cittadini tunisini, i quali lamentavano di aver subìto trattamenti inumani e degradanti durante la fase di accoglienza e di essere stati, in un primo momento, trattenuti in stato di detenzione nel centro, e, in un secondo momento di essere stati espulsi, senza mai venire a conoscenza delle informazioni essenziali riguardanti il proprio status.

Gli episodi sarebbero avvenuti tra il 16 ed il 17 settembre quando i tre migranti sbarcarono lungo le coste dell’isola di Lampedusa, durante gli eventi legati alla “primavera araba”: i ricorrenti vennero immediatamente posti in stato di detenzione in un centro di accoglienza, senza alcuna preventiva informazione e senza la possibilità di ricevere assistenza legale. Le condizioni di vita all’interno del centro di detenzione si presentavano – secondo i ricorrenti – assolutamente inadeguate. A causa delle pessime condizioni di detenzione a cui venivano sottoposti regolarmente i tre uomini, il 20 settembre decisero di evadere dal centro: non appena arrestati, essi vennero condotti nella città di Palermo e vennero lasciati per ben quattro giorni reclusi su due navi, ormeggiate nel porto della città. Successivamente, tra il 27 ed il 29 settembre, si diede atto alla procedura di espulsione.

In ragione del preciso quadro storico e fattuale ricostruito dai tre ricorrenti, la Corte ha gioco facile nel condannare all’unanimità l’Italia per violazione dei diritti umani in relazione sia all’art. 5, § 1, 2, 4 per il mancato rispetto delle garanzie in fatto di detenzione cautelare sia in relazione all’art. 3 della CEDU per trattamenti inumani e degradanti a cui erano stati sottoposti durante il periodo di reclusione nel cento di accoglienza a Lampedusa.

A maggioranza, inoltre, la Corte decreta anche la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 per il divieto di espulsioni collettive di stranieri e dell’art. 13 della CEDU per il mancato rispetto del diritto ad un ricorso effettivo in combinato disposto con gli artt. 3 e 4 del Protocollo n. 4 in punto di divieto di espulsione dei cittadini e divieto di espulsioni collettive di stranieri.
Ai ricorrenti, infine, i giudici di Strasburgo riconoscono a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale la somma di euro 10.000,00 ciascuno, oltre ad euro 9.344.51 relativi alle spese del procedimento.

Giuseppe Catapano: Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione

giucatap31Con la pronuncia n. 36906 del 2015, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla previsione normativa di cui all’art. 3 c. 1 lett. a) della l. 654/1975, secondo cui ha rilevanza penale la condotta di chi propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero di chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
La vicenda da cui prende le mosse la sentenza ha ad oggetto la diffusione di un volantino di promozione elettorale, avvenuta in occasione del rinnovo del Parlamento Europeo dell’anno 2013, ritenuta idonea dai giudici di merito ad integrare il reato prima citato. Ed infatti, secondo il giudice d’appello, il volantino propagandava idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo ricorso, in particolare, allo slogan “basta usurai -basta stranieri” con sottinteso, ma evi¬dente riferimento a persona di religione ebraica ed esplicito riferimento a persone di nazionalità non comunitaria e, sul retro del volantino, alla rappresentazione grafica esplicativa dello slogan di un’Italia assediata da soggetti di colore dediti allo spaccio di stupefacente, da un Abramo Lincoln attorniato da dollari, da un cinese produttore di merce scadente, da una donna e un bambino Rom sporchi e pronti a depredare e da un soggetto musulmano con una cintura formata da candelotti di dinamite pronti per un attentato terroristico. Le doglianze di parte ricorrente si appuntano sull’erronea applicazione della legge con riferimento proprio all’art. 3 c.1 lett. a) della l. 654/1975; la Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, coglie l’occasione per svolgere delle importanti precisazioni sugli elementi costituivi del reato in questione.
Viene innanzitutto affermata la sostanziale continuità normativa tra la norma originaria e la norma come da ultimo modificata dall’art. 13 della L. 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione in Gazz. Uff. 13 marzo 2006, n. 60): ed infatti, secondo la Corte, la sostituzione del concetto di diffusione delle idee razziste con quello di propaganda di tali idee, da un lato, e del concetto di incitamento con quello di istigazione, dall’altro, non integra un fenomeno di discontinuità normativa e ciò in quanto, la condotta di propaganda delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico era già ricompresa in quella, originariamente prevista, consistente nella diffusione in qualsiasi modo, delle medesime idee (nello stesso senso si veda Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2008, n. 35781). Ciò che muta è invece il trattamento sanzionatorio che con la novella del 2006 è stato sostanzialmente modificato in misura più favorevole al reo.
La Corte ricostruisce il reato in chiave plurioffensiva, ritenendo che bene giuridico tutelato sia non solo l’ordine pubblico, inteso come diritto alla tranquillità sociale, ma anche, e soprattutto, la dignità dell’individuo. Da ciò consegue che persona offesa dal reato è non solo colui verso il quale si rivolge la condotta ma anche i soggetti che appartengono a quella etnia. Trattasi, inoltre, di reato di pericolo astratto, non occorrendo che l’azione abbia prodotto effetti, cioè che la propaganda o l’incitamento siano stati recepiti. Ciò che occorre, invece, in ossequio al principio di materialità, è che le espressioni discriminatorie siano percepite da altra persona, quand’anche questa non ne abbia colto la portata lesiva della propria dignità.
Tanto premesso, la Corte si sofferma poi sulla condotta, consistente, come detto, nella propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero nella istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi propaganda ovvero di istigazione. Sebbene riconoscano la sostanziale continuità normativa tra il concetto di propaganda e quello di diffusione, i giudici di legittimità precisano che il concetto di propaganda è invero più specifico di quello di diffusione, richiedendo la prima un contegno più pregnante. In particolare, affinché possa parlarsi di propaganda è sì necessaria una diffusione ma occorre anche che la stessa sia volta a condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all’idea propagandata.
Sostanziale equivalenza vi è invece tra la nozione, oggi adoperata dalla norma, di istigazione e quella precedente di incitamento, dovendosi intendere l’induzione a commettere atti riprovevoli.
In assenza di precise definizioni legislative, i giudici di legittimità procedono poi a ricostruire i concetti di discriminazione e odio razziale, traendoli dai dati normativi e giurisprudenziali sovranazionali. Quanto alla nozione di discriminazione, a livello normativo il riferimento è innanzitutto all’art. 1 della Convenzione di New York, secondo cui essa sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica. Medesima definizione di discriminazione è data dall’art. 43 del D.Lgs. n. 286 del 1998 (Testo Unico sull’immigrazione), mentre per quel che riguarda la Carte europea dei diritti dell’uomo il riferimento è all’art. 14 secondo cui il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.
A livello giurisprudenziale e dottrinale, invece, si noti come la discriminazione venga descritta ponendo l’accento sulla violazione della condizione di pari dignità degli individui; essa è infatti intesa quale sentimento di avversione immediatamente volto alla esclusione di condizioni di parità, ovvero come manifestazione di superiorità rispetto ad altri, legata alla razza, all’origine etnica o al colore.
In merito alla nozione di odio razziale, la Corte, ribadendo orientamento già sostenuto, ha specificato che odiare significa manifestare un’avversione tale da desiderare la morte o una grave danno per la persona odiata, per cui non si può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o di antipatia.
Quanto all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico id est la mera coscienza e volontà di propagandare idee razziste o di istigare alla discriminazione razzista, dal momento che la norma non richiede che il soggetto attivo agisca per uno scopo eccedente rispetto all’elemento materiale del reato.
Così delineati gli elementi costitutivi del reato che si è analizzato, la Corte procede poi all’esame della vicenda in concreto verificatasi, al fine di stabilire se sia possibile o non, sussumerla all’interno della fattispecie prevista dall’ art. all’art. 3 c.1 lett. a) della l. 654/1975.
La risposta del Supremo Collegio è in senso negativo per le motivazioni che seguono.
La Corte afferma infatti che ci si trova per la prima volta davanti ad un caso di Hate Speech, con ciò intendendo quei discorsi che inneggiano all’odio verso gruppi minoritari o soggetti socialmente deboli, frequentemente pronunciati per lo più da esponenti politici.
Gli Hate Speeches non possono integrare tout court il reato di propaganda di idee razziste, in quanto essi costituiscono pur sempre libera manifestazione del pensiero, che, quale diritto costituzionalmente garantito ai sensi dell’art. 21 Cost., tollera limiti solo davanti alla necessità di tutelare diritti costituzionali di pari rango (in tal senso anche la Corte Costituzionale, si vedano Corte Cost. n. 1 del 1957 e n. 74 del 1958; da segnalare, inoltre, Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2008, n. 37581 , nella parte in cui ritiene infondata la questione di costituzionalità dell’articolo in questione per asserito contrasto con l’art. 21 Cost. giacché il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 Cost., non ha valore assoluto, ma deve essere coordinato con altri valori costituzionali di pari rango. In particolare, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero incontra il limite derivante dall’art. 3 Cost. che consacra solennemente la pari dignità e la eguaglianza di tutte le persone senza discriminazioni di razza, e in tal modo legittima ogni legge ordinaria che vieti e sanzioni anche penalmente, nel rispetto dei principi di tipicità e di offensività, la diffusione e la propaganda di teorie antirazziste, basate sulla superiorità di una razza e giustificatrici dell’odio e della discriminazione razziale).
In altri termini, affinché si pongano limiti alla libera esternazione dei pensiero è necessario che si prospetti la lesione o messa in pericolo di altri valori costituzionalmente garantiti. Ed è proprio la preminente rilevanza costituzionale del bene della dignità umana a giustificare, se lesa, la limitazione del diritto di manifestare il pensiero.
Ciò nondimeno, come risulta dall’analisi degli orientamenti della giurisprudenza nazionale nonché di quelli della Corte Edu sul punto, non può affermarsi in maniera immutabile la preminenza dell’un diritto costituzionalmente garantito sull’altro. Occorre sempre procedere ad un attento bilanciamento; a tal fine è fondamentale la corretta contestualizzazione delle condotte e, secondo i principi del diritto penale, la verifica che esse si risolvano in esternazioni davvero in grado di di-svelare una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato. Nell’operare il bilanciamento, la Corte di Cassazione ricorda inoltre che nell’ambito delle competizioni elettorali, giurisprudenza costante in materia di diritto di critica politica ritiene doversi tener conto del particolare clima in cui si svolgono le compe¬tizioni elettorali e per ciò ammettere l’utilizzo di toni più pungenti ed incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interper¬sonali tra privati (così, tra le altre, Cass. pen., sez. V, 21 ottobre 1999, n. 12013; Cass. pen., sez. V, 14 ottobre 2008, n. 38747).
Nel caso di specie, la Corte, proprio procedendo a tale bilanciamento e alla contestualizzazione della condotta, ritiene che la diffusione del volantino (il cui contenuto è stato illustrato in apertura) non sia sufficiente ad integrare il reato di propaganda di idee razziste proprio per la mancanza del requisito della propaganda, come sopra descritto. Ed infatti, interpretando la nozione di propaganda non come mera diffusione di idee ma come condotta richiedente un quid pluris, cioè come manifestazione in grado di fare nascere ed alimentare lo stimolo che spinge all’azione di discriminazione, la Corte ritiene che la condotta del ricorrente non abbia tali requisiti. Unitamente a ciò, si consideri che può aversi discriminazione razziale quando questa si basa sulle qualità del soggetto e non anche quando si basa su comportamenti. In altri termini, si può essere legittimamente discriminati per ciò che si fa ma non per ciò che si è. Propaganda discriminatoria che nel caso in esame dunque manca, facendo venir meno la sussistenza del reato, in quanto il ricorrente, utilizzando le parole del Collegio, in maniera alquanto grossolana, vuole veicolare un messaggio di avversione politica – e dunque non già di discriminazione razziale – verso una serie di comportamenti illeciti che, con una generalizzazione che appare una forzatura anche agli occhi del destinatario più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate razze o etnie.