Giuseppe Catapano: Notifica del ricorso nella causa di lavoro, il termine non è perentorio

Nelle cause di lavoro, il termine di dieci giorni assegnato al lavoratore ricorrente o all’appellante per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione non è perentorio e, pertanto, la sua inosservanza non comporta decadenza, purché resti garantito all’appellato uno lasso temporale per apprestare le proprie difese non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza di discussione della causa.

Dieci-giorni-per-notificare-il-ricorso-in-materia-di-lavoro-termine-perentorioChe succede se, in una causa di lavoro, il tuo avvocato, che ha depositato il ricorso in tribunale contro l’azienda datrice di lavoro, non lo notifica a quest’ultima nel termine indicato dal codice di procedura, ossia entro 10 giorni (che decorrono dal momento in cui la cancelleria comunica il decreto di fissazione della prima udienza firmato dal giudice)? Nulla. Il termine, infatti, non è perentorio. A chiarirlo è – ancora una volta – una sentenza di ieri della Cassazione. Attenzione, però: c’è un secondo termine da rispettare obbligatoriamente. Ma procediamo con ordine.

Cosa prevede la legge

Il codice stabilisce che:

– per le cause in primo grado: il ricorso, insieme al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al datore di lavoro, a cura del lavoratore, entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decreto.

Tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 30 giorni.

– per le cause in secondo grado: l’appellante, nei 10 giorni successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e del decreto all’appellato.

Tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 25 giorni.

In entrambi i casi, dunque, la legge fissa:

– un primo termine di 10 giorni dalla comunicazione del decreto per la notifica del ricorso,

– e un secondo termine in cui si stabilisce che la suddetta notifica non può comunque avvenire a meno di 30 o 25 giorni dalla prima dell’udienza, in modo da non costringere la controparte a difendere all’ultimo minuto.

Ebbene, solo il secondo termine è stato considerato obbligatorio, mentre il mancato rispetto dei 10 giorni resta privo di conseguenze, pertanto, la sua inosservanza non comporta decadenza. L’importante è che tra la data della notifica del ricorso e quella della prima udienza non decorrano meno di 30 giorni (per il primo grado) o di 25 (per il secondo), termine stabilito a garanzia del diritto di difesa del convenuto.

Giuseppe Catapano: Affitto, come mandare via l’inquilino se il contratto è in nero

Locazione: se non è possibile lo sfratto, si può agire con l’azione di occupazione senza titolo, ma per il risarcimento del danno è necessaria la prova.

Affitto-come-mandare-via-inquilino-se-il-contratto-in-nero-370x230Se manca il contratto di affitto, o questo, sebbene scritto, non sia mai stato registrato, il padrone di casa non può procedere allo sfratto dell’inquilino moroso nel pagamento delle mensilità. O meglio, non può adottare la procedura accelerata dello sfratto per morosità, che consente – salvi i tempi (di regola più prolungati) di esecuzione forzata – un procedimento in pochi mesi. E questo perché tale azione è consentita solo a chi dimostra di avere, tra le mani, un contratto valido, mentre la legge stabilisce che la locazione non registrata è nulla.

Al locatore non resta, dunque, che l’azione per occupazione senza titolo, la quale si svolge secondo i tempi e le forme delle normali cause. Insomma, per mandare via il conduttore potrebbero essere necessari svariati anni. È questa, del resto, la sanzione per aver voluto evadere le tasse.

Che fare in questi casi?

L’avvio dell’azione giudiziale, in ogni caso, è sempre un modo per dare un segnale forte e incisivo all’inquilino che, tuttavia, proprio dai tempi lunghi dei processi potrebbe trarne il maggior beneficio, potendo continuare a permanere nell’immobile per tutto il tempo che ci vuole perché esca la sentenza.

Sarà opportuno, prima della notifica dell’atto processuale, tentare la via della diffida con una lettera dell’avvocato.

Tagliare la luce, l’acqua e il gas?

Non poche volte, il padrone di casa si avventura in condotte “vendicative” che, però, potrebbero far sorgere problemi legali più seri, spesso di tipo penale. È il caso di chi “tagli” i fili della luce o del gas. O quelli del telefono. Oppure cambi le chiavi della serratura della porta del proprio immobile. A parte il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, potrebbe anche scattare, a favore dell’inquilino, la tutela civilistica della “reintegrazione del possesso”: in buona sostanza, la legge tutela chi si trova dentro un immobile, almeno in prima battuta, a prescindere dal fatto che abbia o meno un titolo per restarvi.

Se però l’utenza (luce, gas, telefono) è rimasta intestata al proprietario di casa, questi potrebbe smettere di pagare le società fornitrici del servizio, in modo tale da rendersi a sua volta moroso, ottenendo così il distacco dell’utenza. In tal caso l’illecito da parte del proprietario sarebbe più difficile da dimostrare, essendosi questi potuto trovare nell’oggettiva impossibilità di pagare la bolletta per sopraggiunte difficoltà economiche (provenienti proprio dal mancato pagamento dei canoni di affitto).

Il risarcimento del danno

Nella causa di occupazione senza titolo è sempre possibile chiedere il risarcimento del danno all’inquilino “abusivo”. Attenzione, però: con una sentenza di ieri, la Cassazione ha precisato che il danno va dimostrato e, pertanto, l’indennizzo non scatta automaticamente per il solo fatto che l’inquilino sia rimasto nell’appartamento senza pagare.

Sul punto è insorto, negli anni passati, un contrasto tra i giudici. Secondo alcuni, il risarcimento spetta automaticamente, secondo altri invece no. Oggi la Suprema Corte aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il danno da occupazione abusiva di un immobile non scatta automaticamente, e non si può perciò pretendere alcun risarcimento se dalla lesione del diritto o dell’interesse non sia disceso un concreto pregiudizio, pregiudizio che ovviamente va dimostrato. Tale prova, però, può essere fornita anche con semplici presunzioni e può consistere anche nell’utilità teorica che il proprietario dell’immobile poteva trarre dall’uso diretto del bene, nel tempo in cui questo è stato occupato da altri.

La Cassazione ricorda che nell’ordinamento italiano non esistono danni liquidati automaticamente, e non si può pretendere alcun risarcimento se dalla lesione del diritto o dell’interesse non sia disceso un concreto danno.

Tuttavia, questo non esclude che l’esistenza del danno possa essere dimostrata con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni semplici.

Giuseppe Catapano: Farsi male a scuola giocando, responsabilità del Ministero

Responsabilità della scuola e degli insegnanti, dovere di vigilanza: presupposti, attività pericolose all’interno della scuola.

Farsi-male-a-scuola-giocando-responsabilita-del-Ministero-370x230Quando la scuola consente ai bambini dei giochi anche solo potenzialmente pericolosi, come una semplice “corsa nei sacchi”, a pagare i danni biologici, morali e patrimoniali subiti dall’alunno è il Ministero. Lo ha chiarito la Cassazione in una sentenza di poche ore fa.

La prudenza non è mai troppa

La legge stabilisce che gli insegnanti sono sempre responsabili dei danni cagionati ai loro allievi nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza, salvo che dimostrino di non aver potuto impedire il fatto. In pratica, quando l’evento è imprevedibile e l’attività posta dagli alunni non presenta, sotto tutti i punti di vista, margini di rischio sia pure potenziali, dell’eventuale danno non risponde la scuola.

È anche vero, però, che questo criterio viene interpretato dalla giurisprudenza in modo molto rigoroso. Così come, nell’ambito dei rapporti di lavoro, il datore è sempre responsabile degli infortuni procurati ai dipendenti per non aver rispettato la normativa antinfortunistica, altrettanto l’istituto scolastico deve procedere a mettere “in sicurezza” tutti i luoghi che possono presentare una fonte di rischio per gli alunni. Così – come nel caso deciso oggi dalla Corte – una corsa nei sacchi, organizzata su un palco scivoloso, senza che i giovani siano stati dotati di scarpe di gomma antiscivolo, rimanendo imbrigliati nei sacchi e a rischio prevedibile di caduta, può costituire fonte di un pericolo potenziale.

È evidente, per i giudici, “la negligenza del personale scolastico”, caratterizzata anche dalla “grave imprudenza nel non avere posto in essere tutte le necessarie misure di cautela e di prevenzione”, anche tenendo presente che gli alunni erano tutti “in età scolastica elementare, età che esige assistenza, vigilanza e cura, data la naturale esuberanza dei fanciulli impegnati in un gioco intrinsecamente pericoloso, quale è la corsa nei sacchi”.

L’età degli alunni

Così come accade nel caso di responsabilità dei genitori per gli illeciti commessi dai figli minori, anche in materia di responsabilità dei maestri e insegnanti la vigilanza deve essere esercitata in relazione all’età e al grado di maturazione degli alunni, con la conseguenza, ad esempio, che sarà richiesto un controllo tanto più continuo e attento, quanto minore è l’età degli alunni. Con l’avvicinamento dei minori all’età del pieno discernimento, il rispetto del dovere di vigilanza da parte degli insegnanti non richiede la loro continua presenza, purché sussistano comunque le misure organizzative atte a mantenere la disciplina tra gli allievi.

I soggetti responsabili

In caso di azione volta a stabilire la responsabilità per illeciti commessi da minori o per danni subiti da minori durante il periodo in cui essi erano sottoposti alla vigilanza di un insegnante, i soggetti nei cui confronti procedere sono sempre stati, in prima battuta, gli insegnanti stessi.

Tuttavia, nel caso di coinvolgimento di un insegnante dipendente di un istituto pubblico di istruzione, le conseguenze del risarcimento ricadono sul ministero.

Se, quindi, la responsabilità dell’insegnante pubblico viene comunque ricondotta alla scuola, secondo i principi in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per fatto dei propri dipendenti, anche per gli insegnanti di istituti privati si procede in maniera non dissimile, facendo leva sulle comuni regole in tema di responsabilità contrattuale e sui nuovi trend giurisprudenziali in materia di responsabilità dell’ente per difetto organizzativo e di responsabilità per i dipendenti di enti (pubblici o privati) per contatto sociale.

Giuseppe Catapano: Quote associative sindacali del lavoratore, come versarle

In tema di riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta effettuata dal datore di lavoro è ben possibile la cessione del quinto dello stipendio.

Quote-associative-sindacali-del-lavoratore-come-versarle-370x230Il lavoratore può chiedere al datore – che non può opporsi tranne casi straordinari – di pagare la quota associativa sindacale tramite cessione del quinto dello stipendio. Ma procediamo con ordine.

La primaria fonte di entrata del sindacato è quella che deriva dall’autofinanziamento degli associati (lavoratori e pensionati).

In certi casi è prevista una quota associativa iniziale (per la tessera) e la “quota sindacale”, in genere periodica, la cui entità è decisa da ogni confederazione o dalla rispettiva categoria.

Un tempo, per la riscossione dei contributi sindacali dei lavoratori si usava il sistema della “delega”: in pratica, il contributo sindacale veniva riscosso attraverso una ritenuta dal salario del lavoratore dipendente direttamente dal datore di lavoro (appunto su “delega”) e riversato periodicamente al sindacato.

Oggi il sistema delle cosiddette “deleghe sindacali” di fatto rimane uguale nel suo meccanismo, ma il datore di lavoro non è più obbligato per legge a trattenere, su delega del lavoratore, i contributi sindacali direttamente dalla busta paga ed a versarli all’associazione designata dal lavoratore. Questo non vuol dire neanche che vi sia il divieto (è questa la conseguenza del referendum abrogativo del 1995).

Ciò significa che i lavoratori possono richiedere al loro datore di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato a cui aderiscono e tale atto deve essere qualificato come cessione del credito.

Pertanto, non occorre, in linea generale, il consenso del debitore.

La disciplina attuale della riscossione dei contributi sindacali dipende dalla previsione del contratto collettivo di riferimento. Di norma il CCNL disciplina i sistemi di versamento dei contributi: in tal caso il datore di lavoro deve seguire le regole dettate dallo stesso. Un comportamento diverso, da parte dell’azienda, costituisce condotta antisindacale.

La riscossione tramite cessione del quinto dello stipendio

Secondo una sentenza di ieri della Cassazione, nell’ipotesi di sindacati non firmatari di CCNL, il lavoratore può richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato attraverso l’istituto della cessione del credito. Non è necessario che il datore di lavoro dia il suo consenso, salvo che questi non provi che la cessione comporta in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale. Il numero elevato di dipendenti non può, da solo, fondare la decisione sulla gravosità dell’onere.

Dunque, la cessione del quinto dello stipendio non riguarda solo banche e altri istituti di credito, come erroneamente ritenuto da talune aziende.

Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di effettuare la trattenuta e di versare la quota al sindacato designato è da considerarsi, oltre che un illecito civilistico, una condotta antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato cui aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dai propri aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della sua attività.

La possibilità della riscossione dei contributi associativi sindacali tramite cessione di quote di stipendio è soggetta ad alcune limitazioni:

– non può essere superiore a un quinto

– non può essere stabilita per periodi superiori a cinque o dieci anni a condizione che beneficino di uno stipendio fisso e continuativo.

Nelle aziende di perimetro Confindustria, dopo la sottoscrizione dell’AI 28 giugno 2011,dell’AI 31 maggio 2013, dell’AI 10 gennaio 2014, che introducono un sistema di rilevazione della rappresentatività sindacale a mezzo delle denunce contributive INPS, si ritiene oramai obbligatorio, per il datore di lavoro, operare la ritenuta sulla retribuzione per il versamento della contribuzione all’associazione sindacale indicata dal lavoratore.

L’indicazione del sindacato sul cedolino paga

Ai fini della privacy, sul cedolino di paga del lavoratore vanno riportate solo le notizie indispensabili a documentare le diverse voci relative alle competenze e alle trattenute, per consentire una verifica agevole dell’esatta corresponsione della retribuzione netta. Occorre, quindi, omettere alcune specifiche causali a tutela della privacy del lavoratore, come per esempio l’indicazione del sindacato al quale il lavoratore iscritto versa la ritenuta sindacale. Il datore di lavoro deve pertanto operare la trattenuta utilizzando una diversa dizione o un codice, oppure adottando un’altra espressione che renda individuabile la ritenuta senza descriverla.

Giuseppe Catapano: Avvocati, nuovi crediti formativi tramite autoaggiornamento

Formazione continua: in vigore il nuovo regolamento sui corsi relativi ai crediti formativi; ammesse le attività seminariali di studio autogestite dai partecipanti ovvero volte alla preparazione di relazioni o materiale didattico per le attività di aggiornamento o formazione fruibili da terzi.

La-formazione-continua-obbligatoria-degli-avvocati-e-il-superamento-dei-crediti-formativi-472x270Venerdì scorso, 18 settembre, il CNF ha pubblicato il nuovo testo del regolamento sulla formazione continua.

Vengono introdotti tre livelli di approfondimento formativo: livello base, avanzato e specialistico. Tanto al fine di promuovere la qualità dell’attività formativa e corrispondere alle puntuali esigenze degli Avvocati.

Si potrà assolvere all’obbligo formativo attraverso l’autoaggiornamento preventivamente accreditato: si tratta di attività seminariali di studio autogestite dai partecipanti ovvero volte alla preparazione di relazioni o materiale didattico per le attività di aggiornamento o formazione fruibili da terzi.

Gli Ordini mantengono un ampio potere di accreditamento, distribuito su base territoriale.

L’obbligo di formazione continua, precisa il nuovo regolamento, è attuale anche in mancanza di esercizio effettivo della professione per il fatto di essere iscritti all’albo o elenchi e registri.

Giuseppe Catapano: Cartella Equitalia, che succede se dalla busta mancano fogli?

In caso di notifica di cartella esattoriale, Equitalia deve dimostrare il contenuto specifico della busta in cui era contenuta la richiesta di pagamento: non basta la produzione dell’estratto di ruolo e delle cartoline con l’avviso di ricevimento.

Cartella-Equitalia-che-succede-se-dalla-busta-mancano-dei-fogli-370x230Alzi la mano chi non ha mai avuto la tentazione, ricevendo la notifica di una lettera scomoda – e l’esempio di una cartella esattoriale di Equitalia o di una multa stradale calza a pennello -, di strapparne qualche pagina, per sostenere poi che il contenuto non era integro e che, quindi, la comunicazione era incompleta, carente e, in definitiva, nulla. Sembrerebbe quasi un gioco da ragazzi, più degno del furbetto di turno che poi, immancabilmente, finisce sempre per incappare nelle condanne dei giudici. E invece, questa volta, non è così.

Con una serie di sentenze che abbiamo avuto più volte modo di segnalare su questo portale, la Cassazione sta ribadendo da più anni un principio ormai consolidato: nel caso in cui il contribuente contesti l’integrità o il contenuto della busta della cartella esattoriale, spetta a Equitalia dimostrare, con la cosiddetta “prova contraria”, cosa la stessa contenesse. E questo perché la semplice produzione della copia della busta in cui è contenuta la cartella, con la cartolina dell’avviso di ricevimento e l’estratto di ruolo, sono documenti insufficienti a dimostrare l’esatto contenuto della pretesa di pagamento.

Insomma: spetta al mittente provare il contenuto della busta quando il destinatario contesta la raccomandata. E così, è Equitalia che deve dimostrare che nella raccomandata da essa prodotta in giudizio c’era davvero la cartella di pagamento!

Ecco allora che Equitalia viene sobbarcata di un onere della prova difficile, quasi impossibile. Ma tant’è: questa è la tesi dei giudici che sembrano quasi voler suggerire l’espediente più comodo per impugnare la cartella esattoriale. Certo, il problema – per l’Agente della riscossione, si intende – si potrebbe facilmente risolvere spedendo le cartelle esattoriali con il sistema “senza busta” (foglio di carta ripiegato su sé stesso, spillato e poi affrancato, senza essere immesso in busta chiusa), ma Equitalia continua a preferire i cartoncini tradizionali, “sigillati” (si fa per dire) con la colla. E allora ne paga le conseguenze.

Con una sentenza di questa mattina il giudice di Pace di Salerno riprende lo stesso filone interpretativo della Cassazione e ricorda a tutti che sono prive di effetto le intimazioni di pagamento recapitate da Equitalia al contribuente se l’esattore non produce in giudizio le cartelle mentre il debitore ne lamenta l’irregolare notifica. Tutte le volte infatti in cui il destinatario contesta il contenuto della raccomandata è il mittente a doverlo provare. Non basta allora all’agente della riscossione depositare l’estratto di ruolo aggiornato alla data dell’esibizione in giudizio perché non rappresenta una fotografia delle somme richieste nella cartella esattoriale al momento della notifica.

Sembrerebbe tutto troppo facile per essere vero: all’opponente basta contestare la mancata produzione delle cartelle esattoriali: la legge impone ad Equitalia di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella perché risulta tenuta a esibirle su richiesta del contribuente o dell’amministrazione. Se l’Agente per la riscossione produce soltanto le copie degli avvisi di ricevimento delle cartelle e l’estratto di ruolo, perde la causa e la cartella viene annullata: tali documenti infatti non sono sufficienti a dimostrare il credito azionato. Il semplice estratto di ruolo non può assolvere alla funzione di provare il contenuto della cartella esattoriale perché rappresenta un soltanto momento evolutivo del debito del contribuente verso l’ente impositore per il tramite dell’agente della riscossione e non costituisce una raffigurazione statica delle somme pretese dalla cartella esattoriale al momento della notifica dell’atto impositivo.

Insomma: cosa c’era scritto nella raccomandata se il contribuente sostiene di non averla mai ricevuta o di averne ricevuto solo una parte? Solo il mittente lo può sapere e solo quest’ultimo può darne la prova. È quella che in gergo tecnico viene chiamata una “prova diabolica” ossia quasi impossibile.