Giuseppe Catapano: Fisco, ben 15 le patrimoniali, ecco quanto ci costano

incubo-tasse-in-italia-sono-in-totale-una-quindicina-le-patrimoniali-che-pesano-sui-portafogli-degli-italiani.aspxROMA (WSI) – Solo l’anno scorso le imposte patrimoniali sono costate agli italiani la cifra record di 48,6 miliardi di euro e negli ultimi 25 anni la loro incidenza sul Pil è raddoppiata, mentre in termini assoluti il gettito è aumentato di quasi 5 volte.

A fornire questi dati l’Ufficio studi della CGIA di Mestre che ha provveduto prima a individuare e identificare queste patrimoniali e poi ne ha calcolato l’impatto sulle tasche dei contribuenti.

Sono in totale una quindicina le patrimoniali che pesano sui portafogli degli italiani, anche se le due imposte che gravano sulle abitazioni e sugli immobili strumentali, ovvero Tasi e Imu, garantiscono oltre la metà del gettito complessivo. L’anno scorso infatti tra famiglie, imprese e lavoratori autonomi sono stati versati ben 24,7 miliardi di euro per questi due tributi.

Per quanto riguarda il gettito complessivo delle patrimoniali, rileva la CGIA, se per l’anno in corso, questo dovrebbe attestarsi sul livello raggiunto nel 2014, solo dal 2016 si dovrà registrare una decisa inversione di tendenza. Infine se il Governo confermerà l’abolizione delle tasse che gravano sulla prima casa, dell’Imu agricola e quella sugli imbullonati, afferma Paolo Zabeo della CGIA, nel 2016 dovremmo risparmiare 4,6 miliardi di euro: vale a dire uno sconto che sfiora il 10 per cento.

Giuseppe Catapano: La prova che le élite si preparano alla prossima crisi

the-joker-in-una-scena-tratta-dal-film-the-dark-knight-rises-in-cui-il-criminale-nemico-di-batman-brucia-una-montagna-di-mazzi-di-banconote.aspxNEW YORK (WSI) – Ci sono almeno due fattori che dimostrano come le élite si stiano preparando allo scoppio della prossima crisi finanziaria. Il primo è la decisione di accettare i lingotti d’oro come collaterale degli scambi con soldi veri in cui viene simulata l’attività di trading di un titolo.

Dal momento che una grandissima parte dei beni del sistema finanziario sono in forma “digitale” nel momento in cui un’altra crisi scoppierà ci sarà una caccia alla moneta reale per il semplice fatto che molti dei contratti derivati e di altre forme di valuta non hanno un valore effettivo.

I grandi gruppi di brokeraggio che gestiscono le attività di trading del mercato da oltre 700 mila miliardi di dollari dei derivati (ICE, CEM, LCH) hanno iniziato tutti ad accettare l’oro come collaterale già dal 2012.

Anche la Cina, secondo quanto riportato da Reuters, ha di recente adottato la stessa strategia anti choc. La Borsa di Shanghai accetterà a partire dal 29 settembre l’oro fisico come collaterale sui contratti futures. Potrà ricoprire fino all’80% del ‘margin value’.

È la dimostrazione che i principali gruppi finanziari mondiali sono consapevoli he la maggior parte dei derivati (futures, opzioni) non avranno più il minimo valore durante la prossima crisi.

La seconda prova è l’implementazione di regole sul controllo dei contanti, che renderanno più difficile trasformare i propri investimenti e risparmi in cash fisico. Le autorità americane della Sec hanno imposto il divieto di prelievo dai grandi fondi in caso di scoppio di un’altra crisi.

La norma in questione si chiama ‘Rules Provide Structural and Operational Reform to Address Run Risks in Money Market Funds’. Sembra un pacchetto di regole innocuo. In realtà andando a vedere il capitolo intitolato “Redemption Gates”, si scopre che se il livello settimanale di asset liquidi di un fondo monetario americano scendesse sotto il 30%, tale fondo avrà il potere di sospendere temporaneamente i prelievi di contanti.

È nel migliore interesse del Cda imporre un divieto al deflusso di cash dal fondo, considerato sicuro come un deposito in banca. I fondi non potranno imporre il divieto per più di 10 giorni lavorativi nell’arco di un periodo di 90 giorni (all’incirca due settimane di stop in due mesi di tempo).

Normalmente i portafogli di un fondo monetario comune è composto da titoli del debito a breve termine (meno di un anno) che rappresentato un investimento liquido e di alta qualità. Inoltre l’obiettivo dei money market fund è quello di mantenere un Net Asset Value (NAV) il più stabile possibile, e comunque mai inferiore a un dollaro statunitense. Per questi motivi vengono considerati sicuri al pari dei conti deposito.

Se il sistema dovessa vivere un’altra crisi, i fondi monetari americani potranno mettere il lucchetto al loro capitale. I cittadini non potranno prelevare contanti per 10 giorni. Se il sistema finanziario fosse in salute e stabile non ci sarebbe motivo di varare, proprio in questo momento, una simile riforma. Il rischio è che questo non sia altro che l’inizio di una guerra al contante a tutto campo.

Giuseppe Catapano: Facebook non è proprietario di testi, foto e contenuti postati

Copyright: il diritto d’autore sui contenuti caricati dagli utenti sui profili di Facebook resta di proprietà del creatore dell’opera; il social network ha solo una licenza d’uso senza esclusiva.

avvocato-non-deve-stare-sul-web-ne-su-Facebook-Aiga-contro-CNF-370x230Tutto ciò che pubblichi su Facebook resta di tua proprietà: è questa, in buona sostanza, la risposta all’interrogativo che, da qualche mese, sta circolando sul social network più usato del momento.

Numerosi utenti, dopo essersi chiesti se foto, testi, video e qualsiasi altro contenuto postato sul proprio profilo divenisse automaticamente proprietà indiscussa di Facebook, hanno iniziato a “copiare e incollare”, sulla bacheca, una dichiarazione di paternità che circola da diverso tempo in rete. Dichiarazione che non ha alcuna utilità ed effetto (e, in determinati tratti, neanche significato giuridico). E questo perché non è un dichiarazione unilaterale a poter modificare la legge, tantomeno se riportata dopo che l’utente ha già sottoscritto (approvandolo con il clik) il contratto con il gestore del servizio (Facebook, per l’appunto).

Cosa prevede, nel dettaglio, la legge?

Le norme che qui vengono in considerazione sono unicamente quelle sul diritto d’autore, una legge che risale al 1941 (anche se, nel tempo, ha subito diverse modifiche), ma che, nel suo impianto originale, non è stata sostanzialmente mai modificata, nonostante l’avvento delle nuove tecnologie. La legge sul diritto d’autore prevede, in capo al creatore del contenuto (un testo, una foto, un’opera musicale, uno spot video, ecc.), due tipi di diritti che nascono automaticamente con la nascita dell’opera (quindi, senza bisogno di registrazione alla SIAE o altri sistemi di protezione del copyright):

– il diritto alla paternità dell’opera, ossia ad essere riconosciuti sempre come l’autore e, quindi, citati anche in caso di riproduzione ad opera di terzi

– il diritto a sfruttare economicamente l’opera, riproducendola, vendendola, duplicandola, ecc.

Se il diritto alla paternità non può mai essere ceduto a terzi, a pena di nullità del relativo contratto (per es.: non posso vendere a Tizio il diritto ad affermare di essere lui l’autore del libro che, invece, ho scritto io), quello di sfruttamento economico invece può essere oggetto di vendita, donazione, ecc. (per es.: posso cedere a una cada editrice tutti o parte dei proventi derivanti dalla vendita del mio volume).

Ebbene, nel momento in cui si sottoscrive l’accordo con Facebook per la creazione del profilo personale, in quel momento l’utente accetta (con coscienza o, spesso, con superficialità) la cessione della licenza d’uso in capo al gestore della piattaforma. La cessione è “senza esclusiva”. Il che, in pratica, significa che:

– nessuno può utilizzare i contenuti che tu posti sul tuo profilo, non li può prelevare, utilizzare per scopi personali, vendere o sfruttare economicamente (per es., Tizio non potrebbe usare una foto da me scattata e poi caricata sul mio profilo per farne la copertina di un proprio libro). Per farlo è sempre necessario sempre il tuo consento. Diversamente scatta il risarcimento del danno patrimoniale e morale dell’autore;

– nessuno può dirsi proprietario dei contenuti da te postati sul tuo profilo: il fatto che tu li abbia condivisi su Facebook non implica che gli stessi siano diventati di pubblico dominio. Come detto, il diritto di paternità non può essere mai ceduto;

– con la pubblicazione su Facebook, le opere restano coperte dal diritto d’autore nonostante la loro diffusione e la possibilità, concessa dal social network, della condivisione dei contenuti;

– solo Facebook è legittimato, a utilizzare – secondo le modalità indicate in contratto – i contenuti da te postati in passato. Un’utilizzazione che, certo, non è per scopi personali, ma consiste solo nella messa a disposizione, sulla timeline (e, quindi, per tutti gli iscritti), di quanto pubblicato dai singoli utenti nei propri profili personali. Essa poi si spinge alla possibilità di commentare, condividere e taggare;

– il fatto che il contratto con Facebook sia una licenza d’uso non esclusiva implica che l’autore resta comunque libero di sottoscrivere ulteriori contratti di cessione dei diritti dei propri contenuti (per es. potrei vendere al gestore di una cineteca il diritto di riprodurre il mio spot video, nonostante lo abbia prima caricato su Facebook).

Questi principi sono stati di recente affermati anche dal Tribunale di Roma.
La sentenza è conforme a un altro precedente edito della Corte distrettuale di New York, che con la sentenza del 13 gennaio 2013, aveva citato espressamente i termini di Servizio di Twitter, dove è scritto chiaramente, con riferimento ai diritti degli utenti: “Quel che è tuo, resta tuo – Tu sei il proprietario dei tuoi Contenuti”.

Giuseppe Catapano: Demansionamento, cos’è e qual è il danno da mansioni inferiori

Lavoratori: quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione; la dequalificazione e il risarcimento del danno patrimoniale e non.

Demansionamento-cos-e-qual-e-il-danno-da-mansioni-inferiori-370x230

Il dipendente non può essere adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda.

Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Eccezioni al demansionamento

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:

modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o

– previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita). A riguardo, leggi l’approfondimento “Mansioni di lavoro: il livello può cambiare”.

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.

Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.

I chiarimenti dei giudici

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:

– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;

sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.

Diritti del lavoratore

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Come difendersi?

Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.

Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:

– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;

– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);

– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.

Chi deve provare il danno?

Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.

In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:

– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno

– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.

Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.

Giuseppe Catapano: Licenziamento illegittimo, si può chiedere il risarcimento del danno?

Il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno per licenziamento illegittimo, ma la sua misura è predeterminata per legge.

Licenziamento-illegittimo-si-puo-chiedere-il-risarcimento-del-danno-370x230Parlando di licenziamento illegittimo, ci si chiede spesso quali siano i diritti del lavoratore ingiustamente “silurato” e, in particolare, a quanto ammonti il risarcimento del danno economico e morale subito.

Il danno subito dal lavoratore è costituito, innanzitutto, dalla perdita della retribuzione, che può avvenire anche da un giorno all’altro se il licenziamento è “in tronco” (ossia senza preavviso).

Dal licenziamento possono però derivare anche ulteriori conseguenze: ad esempio, può capitare che, a causa della perdita della retribuzione mensile, non si riesca più a pagare il mutuo acceso per l’acquisto della casa. Potrebbe quindi il dipendente, licenziato senza motivo, chiedere il risarcimento del danno subito?

Quando il Giudice decide sulla regolarità o meno del licenziamento, al contempo, decide anche sul risarcimento del danno. La legge in proposito, prevede un risarcimento certo, ma in misura limitata e prestabilita.

Proprio per questo motivo, in gergo, si parla di “indennità risarcitoria”. Da un lato, infatti, il lavoratore è facilitato, poiché non deve materialmente provare il danno che abbia subito a seguito del licenziamento. Il lavoratore non dovrà dimostrare la perdita economica subita, né tantomeno quantificare l’ammontare delle retribuzioni perdute, né indicare le ulteriori conseguenze di carattere personale (come si diceva, ad esempio, il mancato pagamento del mutuo e quindi l’eventuale esposizione a procedure esecutive da parte della banca): egli ha diritto al risarcimento come automatica conseguenza dell’ingiustizia del licenziamento.

A ben vedere, il lavoratore non deve nemmeno affermare di aver subito un danno, perché il suo diritto è tutelato automaticamente. D’altro canto, la misura del risarcimento è limitata ad una somma prestabilita dal legislatore.

L’entità del risarcimento varia a seconda delle ragioni che hanno condotto al licenziamento illegittimo, ma, in generale, viene calcolata sulla base dell’ammontare dello stipendio mensile percepito durante il rapporto di lavoro.

Vediamo meglio cosa prevede la disciplina approvata con il cosiddetto Jobs Act.

In caso di licenziamento discriminatorio, la legge prevede che spetti al lavoratore un risarcimento pari alle mensilità maturate per tutto il periodo dell’illegittima estromissione dal lavoro e comunque in misura non inferiore alle 5 mensilità di stipendio.

Con il contratto cosiddetto “a tutele crescenti”, di recente introduzione, il risarcimento è calcolato moltiplicando l’importo di due mensilità di stipendio al numero di anni di lavoro alle dipendenze dell’azienda che ha intimato il licenziamento senza motivo, ma non in misura inferiore a 4 mensilità e non superiore a 24. È il caso, ad esempio, del lavoratore licenziato per l’assenza ingiustificata di un solo giorno: benché questa sia una violazione degli obblighi in capo al lavoratore, di per sé non è sufficiente a giustificarne il licenziamento.

Il cosiddetto Jobs Act ha poi distinto l’ipotesi in cui la condotta del datore di lavoro addebitata al lavoratore e posta a giustificazione del licenziamento, non si sia in realtà mai verificata: ad esempio: il lavoratore viene licenziato per assenza ingiustificata, ma in realtà non è mai stato assente. In questo caso, il risarcimento dovuto è commisurato a tante mensilità della retribuzione quante sono quelle maturate sino alla riammissione in servizio e comunque non in misura superiore a 12.

Se il licenziamento presenta un vizio formale o procedurale (ad esempio, se, prima del licenziamento, non viene formalmente contestata la condotta del lavoratore) al lavoratore spetta un risarcimento pari ad una mensilità stipendio per ogni anno di lavoro, ma comunque in misura non inferiore a 2 mensilità né superiore a 12.

Infine, in caso di imprese che abbiano alle loro dipendenze meno di 15 dipendenti, il risarcimento è previsto nella misura di una mensilità per ogni anno di lavoro e comunque non superiore a 6 mensilità.

Come si può facilmente intuire, dunque, la misura del risarcimento predeterminata per legge varia a seconda delle ragioni – illegittime – per cui il licenziamento è stato intimato. Il risarcimento sarà maggiore nelle ipotesi giudicate più gravi, come nel caso del licenziamento discriminatorio.

In alcuni casi, poi, è previsto che il risarcimento sia ridotto se il lavoratore ha nel frattempo trovato altra occupazione lavorativa; in altri casi ancora – ad esempio nel licenziamento disciplinare, determinato cioè dalla condotta del lavoratore – il risarcimento è ridotto anche se il lavoratore avrebbe potuto trovare un altro impiego.

Va detto, inoltre, che il lavoratore può ottenere un risarcimento in misura superiore a quanto stabilito dalla legge.

In questo caso, il lavoratore però dovrà rigorosamente indicare il danno ulteriore – rispetto a quello meramente economico – subito (tale può essere il danno alla professionalità o all’immagine) e fornire prova del danno (se il licenziamento ha influito negativamente nella percezione, ed esempio, da parte di possibili futuri datori di lavoro, della persona del lavoratore; ciò può essere dimostrato con testimoni oppure provando opportunità lavorative sfumate a causa del licenziamento) e della sua quantificazione.

Giuseppe Catapano: All’incontro di mediazione non si delega l’avvocato

Tribunale di Milano: necessaria la presenza personale della parte accompagnata dall’avvocato.

La-mediazione-si-puo-fare-anche-su-Skype-o-Hangouts-liberta-di-scelta-dell-organismo-per-le-parti-400x270Si delega l’avvocato solo per la causa in tribunale, ma non per l’incontro preliminare davanti all’organismo di mediazione: se, infatti, al tavolo delle trattative non si siede anche il cliente personalmente, la partecipazione alla mediazione si considera come non avvenuta e la parte ne paga le conseguenze a livello processuale (leggi “Mediazione: per l’assenza multa elevata”). Un orientamento, questo, inaugurato qualche mese fa dal Tribunale di Firenze e ora sposato anche dal foro di Milano in una recente ordinanza.

L’interpretazione, in verità, va ormai consolidandosi in numerosi tribunali italiani: l’orientamento dei giudici è quello di fare in modo che il tentativo di mediazione sia effettivo, il che solo la presenza personale del cliente lo può garantire. Questo al fine di evitare che il tentativo di conciliazione si trasformi in un inutile espediente burocratico che aggravi la posizione delle parti senza offrire ulteriori opportunità compositive.

La mediazione, dunque, potrà considerarsi effettivamente svolta dalle parti solo se queste saranno personalmente presenti davanti al mediatore e, come impone la legge, assistite dai rispettivi avvocati per il raggiungimento dell’accordo.

Giuseppe Catapano: Mediazione anche se la causa ha per oggetto diritti indisponibili

All’interno dello stesso giudizio possono convivere interessi disponibili, come quelli di natura economica, e interessi indisponibili: il giudice deve guardare il cuore della controversia e non la sua qualificazione formale.

mediazione-si-va-avanti-anche-senza-la-controparte-370x230Anche in un procedimento che abbia ad oggetto diritti indisponibili ci può essere spazio per la mediazione delegata dal giudice in corso di causa. Con una ben motivata ordinanza, infatti, il Tribunale di Milano chiarisce come la mediazione sia un istituto con una potenziale area di operatività che va ben oltre le controversie aventi ad oggetto (principale) diritti disponibili. Per comprendere, però, il provvedimento è necessario raccontare la vicenda.

La vicenda

Una causa di nullità di matrimonio per bigamia, i coniugi discutevano sulle conseguenze patrimoniali che la sentenza avrebbe dovuto comportare per entrambi. Senonché il marito decedeva in corso del giudizio e al suo posto si costituivano gli eredi. Chiaro, allora, l’interesse di questi ultimi a portare avanti la causa solo per scopi di natura economica.

Nello stesso giudizio, diritti disponibili e indisponibili

La presenza di un diritto indisponibile nel procedimento civile non esclude la co-presenza di diritti del tutto disponibili e, quindi, negoziabili, come, nel caso di specie, quelli di natura economica degli eredi sul patrimonio del parente defunto.

Non si deve, allora, guardare “coi paraocchi” alla natura della causa per come registrata all’atto dell’iscrizione a ruolo, ma al cuore vero della controversia, agli interessi in gioco tra le parti. E, nel caso di specie, non vi è dubbio che il centro della lite sia rappresentato dagli interessi economici (pienamente disponibili) delle parti e che la questione processualmente pregiudiziale di natura indisponibile (e, cioè, lo status) altro non sia (diventata) che l’occasione per discutere del patrimonio.

L’eventuale accordo sulla parte disponibile del processo può infatti avere poi ricadute sui procedimenti in generale: infatti, la composizione del conflitto spegne l’interesse delle parti per la procedura giudiziale che, può, a questo punto, essere oggetto di atti dispositivi anche indiretti (negozi processuali si pensi al caso della parte attrice che rinuncia alla domanda giudiziale avente ad oggetto diritti indisponibili).

Ben può allora il giudice, almeno per gli aspetti disponibili della controversia (quelli di natura economica) rinviare le parti davanti all’organismo di mediazione per tentare una conciliazione.

Giuseppe Catapano: Autotutela, l’atto illegittimo deve essere sempre annullato

Annullamento degli atti fiscali emessi dall’Agenzia delle Entrate e delle altre amministrazioni: il contribuente può presentare ricorso contro il diniego; istanza anche oltre i termini per il ricorso giudiziale.

Autotutela-atto-illegittimo-deve-essere-sempre-annullato-370x230Chi ha esperienza di richieste di sgravi o di annullamento di atti palesemente illegittimi si sarà scontrato, più di una volta, contro l’ottusa cecità di alcune amministrazioni che, pur dinanzi ai più palesi vizi, sono spesso solite rigettare le istanze del contribuente, invitando questi a “proporre ricorso presso le competenti sedi”. Il che è come dire “Non vogliamo fare retromarcia, se non davanti all’ordine del giudice. Anche a costo di essere condannati alle spese processuali”. Un vero atto di spregio nei confronti del cittadino e una palese negazione del principio di collaborazione tra fisco e contribuente. Una collaborazione che, evidentemente, viene intesa dalla P.A. solo in senso unilaterale (a proprio vantaggio). Così, il malcapitato, nonostante l’atto amministrativo sia macchiato delle più evidenti illiceità, è costretto, per ottenere tutela, a sobbarcarsi i costi e i tempi di un giudizio in tribunale.

Le ultime circolari del direttore dell’Agenzia delle Entrate stanno però invitando sempre più spesso le sedi territoriali a tenere conto delle istanze del cittadino presentate attraverso il ricorso in autotutela: strumento che consente a quest’ultimo di farsi ascoltare dagli uffici quando ritiene di avere subito un’ingiustizia. E ciò senza bisogno di dover chiedere l’intervento del giudice.

Per una giusta autotutela – sottolinea il direttore dell’Agenzia delle Entrate – gli uffici devono ricordarsi della regola non scritta, ma sempre valida, del buon senso. Insomma, bisogna dire addio ai formalismi inutili, è necessario ascoltare di più i cittadini ed evitare inutile contenzioso. Contenzioso che potrebbe solo aggravare ulteriormente l’erario con inutili spese processuali. Gli uffici, invece di cercare evasioni inesistenti, devono rispettare i cittadini, soprattutto quelli leali che fanno il loro dovere.

Addirittura, sottolinea l’Agenzia delle Entrate è necessario adottare atti di autotutela non solo su richiesta del contribuente, ma, se ne sussistono i presupposti, anche d’iniziativa dello stesso ufficio per assicurare adeguati canoni di buona amministrazione.

L’autotutela diventa quindi un vero e proprio dovere per la pubblica amministrazione, un’ammissione di colpa che deve vincere l’arroganza oltranzista di alcuni dirigenti, arroccati su posizioni che, a volte, sembrano più una “presa di posizione” inutile e priva di riscontro pratico.

Non solo. Al cittadino devono essere garantite due tutele:

– innanzitutto la possibilità di presentare il ricorso in autotutela anche a scadenza dei termini per agire in tribunale. Non perché ormai il contribuente è decaduto dall’azione l’ufficio se ne deve approfittare per portare avanti la sua pretesa, benché illegittima. Anzi, se l’atto è palesemente nullo esso va comunque annullato, anche se divenuto “definitivo”, ossia non più impugnabile. L’Amministrazione, infatti, deve garantire l’imparzialità e il buon andamento, al di là degli interessi di parte, propri piuttosto dei soggetti privati e non di quelli pubblici;

– il secondo punto, consequenziale al primo, è che deve essere consentito al cittadino ricorrere al giudice contro il diniego di autotutela. Se l’amministrazione respinge immotivatamente la richiesta di sgravio o annullamento di un atto, il contribuente può fare ricorso al tribunale contro il dissenso. Fino ad oggi questa possibilità era stata interdetta perché il diniego di autotutela non rientra nell’elenco degli atti contro i quali la legge dice che si può ricorrere al giudice (elenco da sempre ritenuto tassativo). Oggi, invece, la Cassazione ha superato questa interpretazione formalista. Il contribuente può quindi presentare ricorso contro il diniego di annullamento in autotutela, a condizione che l’atto del quale si chiede l’annullamento contenga una “compiuta pretesa tributaria”. Infatti, così come il Fisco ha il diritto di chiedere le imposte, i contribuenti hanno il diritto di contestare la pretesa tributaria.

L’unico caso in cui l’autotutela non può essere pronunciata è che esista una sentenza definitiva (“passata in giudicato”) a favore dell’ufficio.

Cosa succede dopo l’annullamento in autotutela?
L’atto sbagliato che viene annullato dall’amministrazione implica l’obbligo per l’amministrazione di restituire i soldi eventualmente già versati dal contribuente.

Giuseppe Catapano: Separazione e tradimento, le chat con l’amante sono prove valide?

Infedeltà: le prove del tradimento ottenute violando le regole sulla privacy non sempre sono utilizzabili nella causa di separazione per provare l’addebito.

Separazione-e-tradimento-le-chat-con-amante-sono-prove-valide-370x230Come si fa a provare il tradimento del coniuge? Di certo, non sarà quest’ultimo ad autodenunciarsi. È chiaro, quindi, che, di norma, per dimostrare l’infedeltà coniugale ci debba sempre essere una certa “forzatura” dell’altrui privacy. Tema tutt’altro che raro, posta peraltro la fioritura di numerose agenzie investigative specializzate nel ramo matrimoniale.

Il problema, però, viene dopo: possono essere poi utilizzate le prove ottenute in modo “irregolare”, ossia violando la riservatezza altrui? Si pensi al pedinamento, alla fotografia indiscreta puntata sull’auto del soggetto tallonato, alla lettura di nascosto degli sms ricevuti sul cellulare o, infine, al virus inserito nel computer del coniuge che consenta di leggere le altrui email o le chat. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma le sentenze sembrano essere non tutte coerenti tra loro.

Il report dell’investigatore potrebbe essere una prova sufficiente dell’infedeltà altrui, a condizione però che non venga contestato dalla controparte processuale. Così le foto scattate dallo 007 bastano a fondare una pronuncia di addebito nella causa di separazione a condizione che colui contro il quale sono prodotte dimentichi di contestarne espressamente la genuinità (si legga a riguardo il recente precedente del Tribunale di Milano in “Contro i tradimenti basta il detective”).

Se, invece, il rapporto investigativo viene contestato, allora si può correre ai ripari chiamando a testimoniare lo stesso detective che ha effettuato i pedinamenti e che potrà dichiarare, davanti al giudice, di aver visto il soggetto in questione durante frequentazioni clandestine e in atteggiamenti compromettenti con l’amante (leggi “Investigatori: testimonianza in giudizio necessaria”).

Non c’è, infatti, alcuna lesione della privacy a carico del coniuge pedinato dallo 007: le dichiarazioni di quest’ultimo ben possono valere come prova testimoniale.

A confermare il fatto che i dati ottenuti attraverso la lesione della altrui privacy sono ugualmente utilizzabili in processo, se serve per far valere un proprio diritto, sono anche due sentenze di recente pubblicazione e che, per certi versi, possono destare una certa preoccupazione. La prima è del Tribunale di Torino e risale a due anni fa: secondo il giudice piemontese ben si può violare l’altrui account di posta elettronica, frugare e sgraffignare tra le email ricevute, crearne una copia e produrle poi in causa a prova del tradimento del coniuge (leggi: “Attenzione a sms ed email”).

Dello stesso tenore, poi, una più recente pronuncia, questa volta della Corte di Appello di Trento secondo cui è consentito chiamare in causa, come testimone, il soggetto che, di nascosto, abbia letto gli sms compromettenti arrivati sul cellulare del fedifrago.

Non la pensa allo stesso modo il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, per il quale tutte le volte in cui si viola la privacy altrui si commette illecito, anche se ciò è necessario per procurarsi le prove in un giudizio di separazione. Tali prove, acquisite in modo illegittimo, non possono entrare in causa. I messaggi privati inviati con i social network sono assistiti dalla tipica tutela che protegge tutte le conversazioni segrete e private: esse possono essere assimilate a forme di corrispondenza privata, e come tali devono ricevere la massima tutela sotto il profilo della loro divulgazione.

A metà strada, invece, sembra porsi la recente sentenza del Tribunale di Livorno: in tema di separazione dei coniugi – si legge nel provvedimento – le chat con il presunto amante non sono producibili in giudizio, soprattutto se intercorse quando la crisi è già in atto. Le chat – conclude il giudice – sono “la versione contemporanea delle relazioni epistolari di un tempo e pertanto soggiacciono agli stessi vincoli di segretezza, a meno che non siano strettamente necessarie al giudizio”. Ma cosa intende dire, il giudice, con la frase “strettamente necessarie al giudizio”? Per comprenderlo bisogna leggere i fatti di causa: nella vicenda di specie, era risultato che il tradimento fosse intervenuto quando già la crisi dei coniugi era intervenuta e, pertanto – secondo l’insegnamento pacifico dei giudizi – era del tutto irrilevante ai fini dell’addebito (l’infedeltà è infatti motivo di addebito solo quando sia l’unica ed esclusiva causa della crisi di coppia, e non solo l’effetto di una crisi già sussistente).

Dunque, il tribunale di Livorno ha rigettato la prova perché “irrilevante” ai fini del decidere. Sembra così di intravedere la possibilità di una decisione opposta qualora i fatti fossero andati diversamente e la dimostrazione del tradimento fosse stata davvero l’ago della bilancia per stabilire la sussistenza dell’addebito o meno.