Lo scorso 3 giugno 2015 il Tribunale di Torino ha affrontato un nuovo caso di violazione on-line dei diritti d’autore di cui è titolare esclusivo un produttore e distributore di opere audiovisive. Come accade ormai sistematicamente, nonostante le opere audiovisive e cinematografiche siano di regola oggetto di legittima privativa, spesso pagata a caro prezzo, esse vengono messe a disposizione del pubblico contro la volontà del titolare dei diritti su molteplici piattaforme a ridosso del loro primo sfruttamento, senza che ad oggi a tali violazioni sia possibile porre fine utilizzando gli strumenti giuridici concessi dalla legge.
Le ragioni per le quali è arduo ottenere la rimozione efficace dei file delle opere protette che vengono immesse sulla rete telematica da non disinteressati uploaders, sono essenzialmente riconducibili al fatto che l’interpretazione delle norme vigenti nel nostro Paese, impedisce la identificazione dei soggetti che commettono tali violazioni, sottraendo inoltre gli Internet Service Provider da un reale obbligo di definitiva disabilitazione dell’accesso ai file illeciti che si trovano sulle piattaforme dagli stessi gestite, anche se per essi sia stata comunicata la Notice and Take Down da parte del titolare dei diritti.
Ciò avviene soprattutto nei casi in cui la segnalazione dei file illeciti da eliminare riguardi la stringa che identifica univocamente l’indirizzo Internet di un contenuto presente sul server che lo ospita in quanto l’URL che li contraddistingue rappresenta unicamente il luogo ove i singoli specifici contenuti si trovano e non esaurisce il novero degli identici esemplari presenti su una determinata e singola piattaforma.
Avuto riguardo a quest’ultimo tema, quello della rimozione dei file illeciti, va osservato che per le piattaforme che dispongano di sistemi di identificazione delle opere su di esse presenti on-line, attraverso l’impiego dei c.d. reference file creati sulla base del materiale audiovisivo reclamato dal relativo titolare dei diritti, il Tribunale di Torino si era già pronunciato nel provvedimento dello scorso anno.
In tale caso, esso aveva affermato che un ordine del giudice volto ad impedire un nuovo caricamento di uno stesso file sui siti web, non è assimilabile e non rientra nella categoria degli “obblighi generali di sorveglianza”, come tali esclusi dall’azione dell’ISP in base alla normativa comunitaria, ma costituisce un obbligo del fornitore del servizio che è già a conoscenza della loro illecita presenza sul sito web che esso gestisce nella sua qualità di hosting provider attivo.
Nel medesimo provvedimento il Tribunale aveva osservato che non fosse necessario che i reference files venissero forniti per la verifica dell’ISP da parte dei titolari dei diritti, in quanto sarebbe stato sufficiente che il software del Content ID disponesse esso stesso dei file di confronto, al fine di identificare quelli di uguale contenuto posti in rete in violazione dei diritti d’autore.
Il medesimo ragionamento svolto nel giugno 2014 su questo specifico punto è stato seguito dal Tribunale di Torino nel caso della piattaforma francese Dailymotion, il quale ha quindi escluso che il titolare dei diritti debba provvedere ad una nuova denuncia di ogni ulteriore violazione afferente i medesimi contenuti già in precedenza segnalati, asserendo che il fornitore dei servizi on-line non può rifiutarsi di utilizzare il reference file necessario alla identificazione degli ulteriori esemplari dei file abusivi immessi in rete. Secondo questo giudice, infatti, con la denuncia – da parte dei titolari dei diritti – degli URL che conducono ai contenuti illecitamente caricati, l’Internet Service Provider ha avuto la conoscenza effettiva della violazione commessa e dispone di tutti gli elementi necessari per intervenire con la loro rimozione.
Di grande momento, nell’esame del provvedimento di cui ci occupiamo, è la parte che riguarda l’ordine impartito a Dailymotion di fornire al titolare dei diritti i dati in suo possesso utili a identificare i responsabili delle violazioni commesse con l’uploading dei file delle opere protette.
Questo tema, che concerne la discovery dei soggetti che pongono in essere violazioni attraverso la rete telematica, come è noto a chi legge, è stato al centro di una precedente vicenda, anche giudiziaria, che è durata numerosi anni.
Ci riferiamo al noto caso “Peppermint” ed alle sue evoluzioni giurisprudenziali, basate sull’applicazione delle norme della Legge Autore, che hanno dato attuazione alla c.d. Direttiva Enforcement (Dir. 2004/48/CE).
Ci riferiamo in particolare alle disposizioni di cui agli artt. 156-bis e 156-ter L.A., la prima delle quali dispone, fra l’altro, che la parte abbia fornito seri elementi dai quali si possa ragionevolmente desumere la fondatezza delle proprie domande possa ottenere “che il giudice ordini alla controparte di fornire gli elementi per l’identificazione dei soggetti implicati nella produzione e distribuzione dei prodotti o dei servizi che costituiscono violazione dei diritti di cui alla presente legge”. Proprio richiamando la suddetta ipotesi di difesa di un diritto in sede giudiziaria, il Tribunale di Roma, decidendo circa la tutela conferita ex art. 156-bis LDA, aveva avuto modo di stabilire, con provvedimento in data 19 agosto 2006, che: “L’esibizione consentita dall’art. 156-bis 1. 633/41 non è inibita da alcuna norma del D. Lgsl. 96/2003. Stabilisce infatti l’art. 24, comma 1, lettera (f), D. Lgsl. 196/2003 che il trattamento dei dati personali – con esclusione della diffusione – è consentito anche senza il consenso dell’interessato, quando sia necessario “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria””. Il Tribunale con riferimento allo specifico caso oggetto del giudizio (Peppermint) aveva aggiunto che “Tale è proprio il caso che qui ci occupa, non avendo la società ricorrente altro strumento per risalire, attraverso l’IP degli autori dell’upload, alle generalità di questi ultimi”.
Questa linea giurisprudenziale venne successivamente mutata dal Tribunale di Roma, soprattutto per l’intervento dell’Autorità per la Tutela dei Dati Personali, la quale prese parte direttamente ad alcuni dei giudizi in cui gli attori facevano istanza volta ad ottenere i dati dei soggetti che avevano immesso on-line – abusivamente – file di opere tutelate, tanto che le decisioni posteriori a quelle sopra citate in merito alla possibilità di ottenere informazioni sui soggetti coinvolti si allinearono alle richieste del Garante Privacy, in base ad una serie di decisioni uniformi, fino a giungersi all’ultima ordinanza del caso Peppermint a noi conosciuta, quella resa dal giudice Gabriella Muscolo in data 19 marzo 2008 nel caso Techland – Peppermint Jam Records / Tiscali Italia.
Nell’ordinanza in questione il magistrato di prime cure, che al tempo faceva parte delle Sezioni Specializzate in materia di P.I. presso il Tribunale di Roma, ha condotto un’interessante analisi sul fondamento giuridico delle citate norme degli artt. 156-bis e 156-ter L.A., sostenendone la piena operatività ed efficacia nel nostro ordinamento per i fini che esse si prefiggono, ma rilevando che l’art. 156-bis, comma 3, imporrebbe al giudice, nel chiedere le informazioni dai contraffattori, l’obbligo di adottare “le misure idonee a garantire la tutela delle informazioni riservate, sentita la controparte”. Secondo lo stesso giudice del Tribunale di Roma, anche la Direttiva 2001/29/CE sulla tutela del D.A. nella società dell’informazione, all’art. 9, farebbe salve – fra le molte – le norme che riguardano “la riservatezza, la tutela dei dati e il rispetto della vita privata” la cui difesa prioritaria – ad avviso di tale magistrato – si estenderebbe anche ai provvedimenti inibitori “assunti nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi” di cui all’art. 8 della medesima citata Direttiva.
A tale stregua, il Tribunale di Roma dopo avere svolto un ragionamento circa la proporzionalità delle misure da adottare per la tutela dei diritti, anche in relazione al principio di bilanciamento degli interessi tutelati (privacy e proprietà intellettuale) tracciato dalla sentenza della Corte di Giustizia nel procedimento Promusicae / Telefonica(8), ha ritenuto che nei casi in cui “l’esecuzione dell’ordine di discovery si risolvesse in una comunicazione dei dati personali dei consumatori, senza alcun consenso dei medesimi, che operano sulla rete sulla presunzione di anonimato, la misura violerebbe il diritto alla riservatezza dei medesimi e pertanto ne difetterebbe il requisito di ammissibilità”.
Di diverso tenore è il testo dell’ordinanza del giudice di Torino di cui ci occupiamo oggi, secondo il quale, invece, il bilanciamento fra i contrapposti diritti deve essere letto nel senso che: “il diritto comunitario non impone agli Stati membri di istituire un obbligo di comunicare dati personali per garantire l’effettiva tutela del diritto d’autore nel contesto di un procedimento civile, ma neppure lo vieta”. Avuto riguardo alla domanda proposta dalla ricorrente Delta TV Programs nei confronti di Dailymotion, secondo il presidente delle Sezioni Specializzate di Torino essa appare “logica, mirata e circoscritta agli autori di conclamate, circoscritte e riconosciute violazioni, per giunta penalmente rilevanti (ai sensi dell’art.171 l.d.a.), e soprattutto, in palese divergenza rispetto al caso deciso dalla Corte di Giustizia (Promusicae vs.Telefonica), considerato che qui non si tratta di acquirenti di prodotti illecitamente diffusi ma dei veri e propri autori dell’atto di violazione”. In altri termini: va chiaramente distinto il downloading dall’uploading di opere protette, costituendo il primo un’azione penalmente neutra, mentre il secondo – chiaramente connotato da scopo di lucro – appare come fatto grave e tale da mutare il bilanciamento degli interessi in gioco.
A sostegno di tale tesi, il giudice del tribunale piemontese sottolinea che, nel caso in esame, non ci troviamo di fronte ad una contrapposizione fra sfruttamento patrimoniale dell’opera e libertà di comunicazione e di espressione dei privati che riproducono abusivamente i file di opere protette per un fine personale, ma detta contrapposizione semmai riguarda “la riproduzione e diffusione a fini almeno indirettamente commerciali dell’opera in regime di concorrenza di fatto”. In altri termini, la tutela della privacy non giustifica azioni di arricchimento a danno del titolare dei diritti sulle opere protette, tanto da sacrificare totalmente il suo investimento e quello dei suoi cessionari.
Non dissimilmente da quanto recentemente deciso dal Tribunale di Torino, anche il Tribunal de Grand Instance di Strasburgo, in data 21 gennaio 2015, ha ordinato a quattro importanti service provider di fornire agli avvocati dell’associazione antipirateria ricorrente “l’identità, l’indirizzo postale, l’indirizzo e-mail delle persone titolari degli indirizzi IP riportati nel processo verbale” in atti.
Forse è troppo presto per affermare che ci troviamo di fronte ad un revirement dei magistrati di fronte al dilagare degli illeciti commessi attraverso la rete telematica, ma – questo è certo – l’attenzione al problema sta crescendo al pari della preoccupazione dei titolari dei diritti sui contenuti, i quali ultimi appartengono in misura crescente alle stesse imprese che gestiscono le piattaforme digitali di maggiore rilievo e che hanno compreso la necessità di disporne per acquisire contatti e pubblicità, in altre parole: profitto.