Il correntista può ordinare alla propria banca di non pagare l’assegno bancario che egli ha emesso, ma lo può fare solo dopo il termine di otto giorni dall’emissione dello stesso (se l’assegno è pagabile all’interno dello stesso comune) o di quindici giorni (se è pagabile in altro Comune). In pratica, se il creditore che ha in mano l’assegno (cosiddetto prenditore) si reca allo sportello per il pagamento del titolo, e lo fa entro tale forbice di tempo (8 o 15 giorni), la banca deve ottemperare al suo ordine e deve pagarlo immediatamente; allo stesso modo, se non ci sono fondi, l’assegno deve essere protestato. Al contrario, se il creditore non si è recato in banca negli 8 o 15 giorni dalla sua emissione, il traente (cioè il debitore) ha il diritto di revocare l’assegno e la banca non solo è obbligata a tenere conto della suddetta revoca disposta dal proprio cliente ma, se non lo fa, deve risarcirgli il danno. E ciò vale anche in presenza di fondi sul conto corrente. Lo ha stabilito la Cassazione, con una recente sentenza. La Corte ricorda che l’ordine del correntista, impartito alla propria banca, di non pagare un assegno già emesso ha effetto solo alla fine del termine di presentazione: otto o quindici giorni, a seconda che l’assegno si paghi su piazza (cioè nello stesso Comune) o fuori piazza (in altro Comune). La vicenda La vicenda riguardava la causa intentata da un correntista del Banco di Sicilia che chiedeva il risarcimento dei danni per l’asserito illegittimo protesto di un assegno bancario che ne avrebbe determinato il fallimento. Se nel conto non ci sono soldi L’ordine del correntista di non pagare l’assegno, impartito alla propria banca nei primi otto o quindici giorni, non può essere motivato neanche dal fatto che nel conto non vi sia sufficiente provvista per pagarlo. Se l’assegno, infatti, è “scoperto”, scatta il protesto per mancanza di fondi (salvo la procedura di insoluto a prima presentazione che impone un previo avviso per rientrare immediatamente nella scopertura di conto). Se la revoca avviene dopo il termine Diverso è il discorso se la revoca dell’assegno bancario avviene dopo il termine di 8 o 15 giorni: se il creditore non si è ancora recato in banca, quest’ultima non deve rispettare la volontà del proprio cliente. In pratica, spiega la Corte, il superamento del termine comporta solo il potere del traente di revocare l’assegno con effetto vincolante per la banca. Prima della detta scadenza la banca non deve tener conto della revoca disposta dal cliente, dovendo al contrario provvedere al pagamento se vi sono fondi disponibili, atteso che la legge mira ad assicurare un’affidabile circolazione del titolo e a garantire l’esistenza dei fondi dal momento dell’emissione dell’assegno fino alla scadenza del termine di presentazione. Che può fare il creditore Se l’assegno viene revocato, il creditore resta sempre in mano di un titolo di credito esecutivo. Questo significa che egli può: – nei primi sei mesi, agire direttamente con il pignoramento nei confronti del debitore, senza bisogno di intraprendere prima cause o ricorsi per decreto ingiuntivo. Difatti, l’assegno è già esso stesso un titolo esecutivo. Dunque, previa notifica di un atto di precetto, il creditore potrà già valersi dell’ufficiale giudiziario (attraverso un proprio avvocato) e procedere all’esecuzione forzata; – dopo la scadenza dei sei mesi, il creditore deve procedere con la richiesta di un decreto ingiuntivo (l’assegno resta infatti una promessa di pagamento scritta anche quando non è più titolo esecutivo). f
Mese: giugno 2015
Catapano Giuseppe scrive: Figlio da una relazione di fatto, va mantenuto?
Anche se nato da una relazione di fatto, ossia senza matrimonio, il figlio va sempre mantenuto da parte di entrambi i genitori: così, se il padre si fa vivo dopo diverso tempo, e riconosce il minore, la ex compagna gli può chiedere gli arretrati non corrisposti dalla nascita; è questa la sintesi di una recente sentenza della Cassazione. Assicurato il rimborso delle spese di mantenimento Secondo la Corte la madre ha sempre diritto al rimborso pro quota delle spese da lei sostenute anteriormente al riconoscimento da parte del padre. Come è noto, infatti, l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio sorge automaticamente con la nascita per il solo fatto di averli generati e rimane fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica: indipendenza che, certo, non significa un lavoro a tempo indeterminato e sicuro, ma comunque una collocazione lavorativa tale da consentirgli – anche senza certezze per il futuro – la possibilità di mantenersi da soli in modo dignitoso. Come si quantifica tale importo? Difficile, anche per il giudice, determinare a quanto ammonti il rimborso delle spese spettante al genitore che ha provveduto fin dalla nascita all’integrale mantenimento del figlio. Di certo, si tratta di un risarcimento vero e proprio per gli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento. Proprio perché per tali spese risulterebbe complessa una quantificazione nel loro preciso ammontare, per determinare le somme dovute a titolo di rimborso il giudice può ricorrere al cosiddetto “criterio equitativo”: in pratica, il magistrato determina l’importo in base a quanto gli appaia più giusto, benché svincolato da qualsiasi documento o criterio certo e prefissato.
Catapano Giuseppe osserva: Equitalia, posso impugnare la cartella se sto già pagando a rate?
Chi ha già in atto, con Equitalia, un piano di rateazione (o “rateizzazione” come in molti dicono), ossia l’impegno a pagare la cartella a rate, non perde, almeno in teoria, la possibilità di impugnarla in un momento successivo e, quindi, fare ricorso. Questo perché il pagamento del debito non comporta acquiescenza, ossia ammissione del debito stesso (il contribuente, infatti, potrebbe voler pagare solo per evitare conseguenze peggiori come il pignoramento, il fermo auto o un’ipoteca). Tuttavia le ipotesi in cui è, di fatto, possibile l’impugnazione sono minime. Vediamole qui di seguito. Vizio di annullabilità dell’atto prodromico Il contribuente non può impugnare la cartella esattoriale di Equitalia per contestare un vizio dell’atto prodromico, quello cioè notificatogli, in precedenza, dall’ente titolare del tributo o della sanzione (per esempio, la multa del Comune, un accertamento fiscale dell’Agenzia delle Entrate, una richiesta di pagamento di imposte o di contributi previdenziali dall’Inps, ecc.). Infatti, quando la contestazione riguarda il merito di tali atti amministrativi, esistono termini di legge ben precisi per impugnarli. Scaduti tali termini, gli importi non pagati vengono “iscritti a ruolo” e, solo allora, inviati ad Equitalia. Questo significa che se il vizio è relativo all’atto notificato a monte della riscossione, il ricorso non è più possibile per decorrenza dei termini. Vizio di annullabilità della cartella di Equitalia Il contribuente non può impugnare la cartella esattoriale di Equitalia dopo 60 giorni dalla sua notifica per i vizi meno gravi, quelli cioè che danno luogo ad annullabilità della cartella stessa: è il caso, per esempio, di una cartella che calcoli in modo errato gli interessi o che venga inviata a un soggetto che non è l’effettivo debitore o, ancora, che riporti delle somme non dovute. Alla luce di ciò, poiché il procedimento di richiesta e accettazione della rateazione avviene, di norma, in tempi non immediati, potrebbe essere che, anche in questo caso, siano decorsi i suddetti 60 giorni e quindi sia venuta meno la possibilità di impugnare la cartella esattoriale davanti al giudice. Se però il termine dei 60 giorni non è ancora compiuto, bisogna porre attenzione a un’altra circostanza. Se si vuol far valere un vizio di notifica dell’atto, è bene sapere che, presentando ricorso, lo si sana. Ci spieghiamo meglio. Se il contribuente vuol contestare il fatto che il postino abbia consegnato la cartella a un soggetto che non era un familiare convivente (come richiede il codice), non potrebbe andare dal giudice sostenendo di non aver mai ricevuto tale atto, proprio perché, se lo fa nei termini, significa comunque che ne ha preso visione e, dunque, che ne è venuto in possesso. Insomma, così facendo, sconfesserebbe sé stesso. Questo concetto viene espresso dalla giurisprudenza con il principio secondo cui tutte le volte in cui l’atto, benché viziato, raggiunge (in un modo o nell’altro) il suo scopo non è più impugnabile e il vizio si sana. Si pensi ancora al caso in cui il contribuente riceva una notifica presso la Casa Comunale e, tuttavia, l’agente postale non gli invii la seconda raccomandata per informarlo di aver tentato invano la notifica. Anche qui, il ricorso contro l’errore del postino sanerebbe il vizio. In tutti questi casi, insomma, non rileva tanto la “forma” della procedura di notifica, quanto piuttosto il risultato definitivo: se il destinatario è venuto a conoscenza della cartella (a prescindere dalle modalità concrete) non c’è più possibilità di fare ricorso. In questi casi, non resterebbe altro da fare che attendere la successiva mossa di Equitalia (per esempio, un pignoramento, un’ipoteca o un fermo) e solo allora, “cadendo dalle nuvole”, contestare il mancato ricevimento della cartella. Ovviamente, però, se si è chiesto la rateazione del debito, Equitalia non avvierà mai le procedure esecutive e, quindi, non ci sarà neanche possibilità di fare ricorso. Vizio di nullità dell’atto prodromico o della cartella di Equitalia Non resta che verificare la possibilità di ricorrere contro la cartella esattoriale per vizi di nullità assoluta, ossia di inesistenza dell’atto prodromico (quello cioè con la pretesa fiscale vera e propria) o della successiva cartella. In questo caso, il decorso dei termini per l’impugnazione non è più un ostacolo in quanto, secondo la nostra legge e la giurisprudenza costante, la nullità assoluta è insanabile: in altre parole, il vizio può essere fatto valere in ogni stato e grado del procedimento, oltreché essere rilevabile d’ufficio, senza termini massimi. Non c’è quindi una scadenza per impugnare un atto firmato da un soggetto che, in verità, non aveva i poteri per firmalo; per contestare la notifica fatta da un corriere privato e non da un soggetto a cui la legge attribuisce tale potere; o, ancora, per rilevare che la cartella esattoriale o la pretesa fiscale era priva del suo contenuto minimo per venire in esistenza (per esempio, l’indicazione del responsabile del procedimento). Dunque, solo in questo caso è possibile il ricorso nonostante sia stato già avviato un piano di rateazione del debito.
Giuseppe Catapano informa: Come aggiungere il cognome della madre a quello del padre
Ad oggi una coppia di genitori sposati può trasmettere al proprio figlio solo il cognome paterno; al momento della registrazione della nascita presso lo stato civile, infatti, al bambino viene assegnato il solo cognome del padre (salvo ovviamente ci si trovi in situazioni nelle quali è nota solo la madre del neonato). È tuttavia possibile, al fine di garantire effettivamente la parità di diritti tra uomo e donna, tra madre e padre, chiedere in un momento successivo o il cambio di cognome del figlio (sostituendo al cognome paterno quello materno), o l’aggiunta del cognome della madre a quello del padre. LA RICHIESTA La relativa domanda deve essere presentata al Prefetto della Provincia del luogo di residenza del figlio o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. La domanda deve essere presentata da entrambi i genitori e accompagnata dalla seguente documentazione: – marca da bollo da € 16,00 – dichiarazione sostitutiva di certificazione per ciascun genitore, attestante il luogo e la data di nascita, la residenza e lo stato di famiglia ovvero i relativi certificati – fotocopia di un documento di identità di entrambi i genitori (solo se la dichiarazione sostitutiva di certificazione di cui al punto 1 è inviata per posta) – eventuale documentazione utile a sostenere le motivazioni della richiesta – dichiarazione di assenso degli eventuali cointeressati, accompagnata dalla fotocopia di un documento di identità Inoltre la richiesta deve essere specificamente motivata. La giurisprudenza ha considerato valide giustificazioni alla richiesta di aggiunta del cognome materno, ad esempio, la presenza di un forte legame affettivo tra madre e figlio; l’appartenenza della madre ad una famiglia famosa e il conseguente particolare vantaggio per il figlio nell’ereditare il suo cognome. La richiesta può essere presentata personalmente dai genitori e dagli stessi sottoscritta alla presenza dell’impiegato addetto a riceverla, oppure può essere spedita a mezzo posta, unitamente alla fotocopia dei rispettivi documenti di identità. PROCEDIMENTO Il Prefetto, ricevuta la richiesta, valuta le ragioni che la giustificano ed i documenti allegati. Se la richiesta appare meritevole di considerazione, i genitori vengono autorizzati con decreto del Ministro dell’Interno a far affiggere all’albo pretorio del comune di nascita e del comune di attuale residenza un avviso contenente una “riassunto” della domanda. L’affissione ha durata di 30 giorni. Decorso tale termine senza che nessuno si sia opposto, i genitori dovranno presentare in Prefettura una copia dell’avviso di affissione ed una relazione da parte del competente addetto comunale che attesta l’avvenuta affissione e la sua durata. Il Prefetto, valutata la regolarità dell’affissione e valutate le eventuali opposizioni, emana un decreto con cui concede l’aggiunta del cognome materno a quello paterno. RECLAMO Se il Prefetto ritiene invece di non accogliere l’istanza dei genitori, essi possono proporre – avverso il relativo decreto di rigetto – ricorso giurisdizionale al T.A.R entro 60 giorni dalla notifica, oppure ricorso straordinario al Capo dello Stato entro 120 giorni dalla notifica.
Catapano Giuseppe informa: Mattarella, l’Italia torna a crescere. Dare sostegno alle pmi
“Nello scenario di cambiamento, nel quale emergono progressivamente i primi segnali positivi, l’Italia sta tornando a crescere”. E’ quanto ha affermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato all’assemblea annuale di Confesercenti in corso in queste ore a Genova. “Anche dal commercio e dal turismo, pur in un clima ancora prudente per la spesa delle famiglie, si affacciano le prime tendenze incoraggianti”, ha sottolineato il capo dello Stato. Secondo Mattarella, “il sistema delle imprese italiane, se opportunamente sostenuto in questo delicato momento di ripresa, potrà valorizzare la sua vocazione creativa e innovativa e la sua preziosa tradizione di alta qualità”. Il presidente ha poi sottolineato che “le piccole e medie imprese italiane hanno subito più di altri gli effetti di lunghi e difficili anni di crisi, con ripercussioni gravi e con sacrifici davvero straordinari”. Nel suo messaggio all’assemblea nazionale di Confesercenti, Mattarella ha poi espresso “vivo apprezzamento per il livello di attenzione e di impegno che la confederazione riserva alla lotta contro il racket e l’usura al fianco e a difesa delle imprese vittime dei soprusi e delle intimidazioni delle realtà criminali”, ha concluso.
Catapano Giuseppe: Pensioni, figli e figliastri
In Italia ci sono oggi 22 milioni di lavoratori che versano contributi previdenziali all’Inps e venti milioni e ottocentomila trattamenti previdenziali (17 milioni di pensioni e oltre 3 milioni di prestazioni assistenziali). Nella drammatica vicinanza di questi due numeri c’è l’esplosività di una materia in grado come nessun’altra di dissestare i conti pubblici. Non è un caso se dal 1992 al 2011 si sono succedute ben sei riforme previdenziali.
Adesso si sente spesso ripetere che i conti sono in ordine, il sistema è in equilibrio, non c’è bisogno di alcun’altra riforma previdenziale. Non credeteci.
Difficile che un sistema possa rimanere in equilibrio quando si avvicina sempre più al rapporto 1/1, cioè un pensionato per ogni lavoratore dipendente. Tanto più se pretende di rispettare il principio dei diritti quesiti, cioè in pratica l’intangibilità di trattamenti ai quali non è corrisposto un adeguato versamento di contributi. Difficile che le giovani generazioni possono sostenere ancora a lungo il peso di assegni previdenziali molto più generosi di quelli che loro riceveranno quando andranno a loro volta in pensione.
Le ultime riforme hanno operato gradualmente il passaggio da un sistema retributivo a uno contributivo, ma in modo molto graduale. E senza cancellare una serie molto numerosa di privilegi che ancora sono presenti e che costano quasi tre miliardi ogni anno all’Inps. Il tema è dettagliato nella tabella pubblicata sul numero di ItaliaOggi sette in edicola da oggi. Al primo posto dei “duri a morire” ci sono, naturalmente, i benefit che intascano i politici, che spesso riescono a sommare un’aspettativa non retribuita che consente però un versamento figurativo di contributi previdenziali e un vitalizio, in pratica una doppia pensione. Si tratta di oltre duemila soggetti, che costano alle casse dell’Inps circa dieci milioni di euro l’anno.
Altra categoria coccolata da mamma Inps è quella dei dipendenti di comuni, province e regioni. I benefit pensionistici dei dipendenti di enti locali, sanitari, ufficiali giudiziari, costano ogni anno 427 milioni. Poi ci sono i dipendenti dello Stato (ministeri, scuola, università, magistrati) che intascano un bonus annuale di 410 milioni. Infine i militari e le forze dell’ordine, vezzeggiati con privilegi previdenziali pari a 330 milioni l’anno. L’omaggio al gentil sesso costa invece all’Inps un miliardo l’anno: è questa infatti la somma che risparmierebbe se fossero allineati tra maschi e femmine i requisiti per andare in pensione.
Altre categorie alle quali l’Istituto di previdenza concede ancora qualche regalino sono artigiani e commercianti (costo 115 milioni l’anno) e i lavoratori dello sport e dello spettacolo (100 milioni l’anno). Ci sono poi una miriade di micro rendite di posizione: 20 milioni per i dipendenti del settore marittimo, altrettanto per quelli dell’Enav, 17 milioni per i dipendenti delle ferrovie dello stato, e così via elencando per una decina almeno di categorie.
Non è quindi del tutto vero che, dopo le ultime riforme, il sistema è in equilibrio e non ha bisogno di altre riforme. Restano molti colli da spianare e valli da colmare. Ma soprattutto, fino a quando non si metterà mano seriamente almeno ai più scandalosi diritti quesiti e non si invertirà la tendenza che vede aumentare il numero dei pensionati e diminuire quello dei lavoratori, non c’è nessun possibilità che il sistema possa trovare un equilibrio stabile. Inutile illudersi. La prossima riforma previdenziale potrebbe essere dietro l’angolo.
Catapano Giuseppe: L’IRAP E’ SEMPRE DOVUTA DALLE SOCIETA’
L’agenzia delle entrate ricorre contro il rimborso IRAP proposto da una società di persone che asseriva di non possedere un’autonoma organizzazione in quanto preponderante era il lavoro personale. La sentenza della corte di cassazione è lapidaria: ove ci sia una società o un associazione anche di natura professionale essa è in re ipsa assoggettabile all’imposta regionale per le attività produttive. La conclusione a cui pervengono i giudici di ultima istanza è che ,se accolta la tesi del contribuente, allora verrebbe minata la nozione di impresa che, ai fini questa imposta, deve essere definita come lavoro individuale. Inoltre tale decisione derivava dall’esatta interpretazione dell’arresto della corte costituzionale numero 156. Secondo tale interpretazione il motivo per non essere assoggettati a tale imposta era il dover dimostrare di non possedere un autonoma organizzazione, e nel nostro caso il termine di evitare l’imposizione era stata evidenziata nell’assenza di collaboratori esterni e dipendenti. Evidentemente elemento non sufficiente per le forme societarie.
Catapano Giuseppe: VERIFICA SU UNA ‘SRL’, VICINA LA SCADENZA PER L’ACCERTAMENTO: NULLO COMUNQUE L’AVVISO EMESSO PRIMA DEL TERMINE DI 60 GIORNI
“Avviso di accertamento” in materia di Iva nei confronti di una ‘srl’. Ma l’operato del Fisco viene messo in discussione dai giudici tributari, i quali sostengono la “nullità” dell’“avviso” poiché emesso “prima che fosse decorso il termine dilatorio di 60 giorni”, termine “decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni”.
E ora la visione delineata nelle Commissioni tributarie è condivisa anche dai giudici della Cassazione.
Definitiva, quindi, la “nullità” dell’“avviso di accertamento”. Irrilevante, secondo i giudici, il richiamo difensivo, da parte del Fisco, alla “circostanza secondo cui sarebbe stata imminente la scadenza del termine per l’emanazione dell’accertamento”. Tale situazione, sottolineano i giudici, non è assolutamente “idonea a giustificare il mancato rispetto del termine dilatorio”.
Giuseppe Catapano informa: Stagisti e tirocinanti e obblighi per la sicurezza sul lavoro
Ci si chiede spesso se coloro che svolgono stages o tirocini formativi all’interno di una azienda rientrino, ai fini dell’applicazione della legge sulla sicurezza sul lavoro, nel percorso formativo dettato dall’Accordo Stato-Regioni sulla formazione dei lavoratori, dirigenti e preposti? La risposta è si. La definizione di lavoratore ai fini dell’applicazione del decreto legislativo sopra citato è contenuta nello stesso decreto legislativo. Infatti, il lavoratore è la: “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”. Lo stesso articolo, così come modificato da una legge successiva, indica comunque anche coloro che sono da considerarsi equiparati ai lavoratori, ed in merito precisa che: “Al lavoratore così definito è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso; l’associato in partecipazione …; il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento …; l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione; i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile; il lavoratore di cui al decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni”, Dalla semplice lettura della norma è facile osservare che fra gli equiparati ai lavoratori il legislatore ha voluto specificatamente inserire gli stagisti ed i tirocinanti. È chiaro quindi che, nell’ipotesi in cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano stages o tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto a osservare tutti quegli obblighi previsti dalla legge sulla sicurezza nei confronti dei lavoratori, e sarà tenuto anche per questi casi ad adempiere agli obblighi formativi connessi alla specifica attività svolta. Agli stagisti ed ai tirocinanti in definitiva, ai sensi dell’Accordo Stato-Regioni sulla formazione dei lavoratori, dirigenti e preposti, deve essere impartita una formazione generale della durata di 4 ore ed una formazione specifica della durata di 4, 8 o 12 ore a seconda del settore di attività al quale appartiene l’azienda ed a seconda della fascia di rischio, basso, medio o alto, nella quale è inserita l’attività dell’azienda medesima. In tal senso si è espresso anche il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nella risposta ad un quesito allo stesso formulato in data 1/10/2012. Nel fornire tale risposta, infatti, il Ministero del Lavoro, dopo aver ribadita la equiparazione, degli stagisti e dei tirocinanti con i lavoratori, ha concluso sostenendo che, nel caso in cui presso un’azienda o uno studio professionale siano presenti soggetti che svolgano stage o tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare tutti gli obblighi di legge necessari a garantire la salute e la sicurezza degli stessi e, quindi, adempiere gli obblighi formativi connessi alla specifica attività svolta.
Catapano Giuseppe: Mobbing, anche il comportamento dei colleghi può portare alla condanna
Si definisce “mobbing” il comportamento consistente in una serie di atti (anche se singolarmente considerati eventualmente leciti) che hanno lo scopo di perseguitare un lavoratore per emarginarlo, colpirlo e spingerlo, ad esempio, a presentare le dimissioni o il trasferimento o altro. Il mobbing, in altre parole, non è che un processo sistematico e voluto di cancellazione della figura del lavoratore che viene portato avanti attraverso una continua sottrazione di mezzi essenziali per lavorare ed attraverso un continuo deterioramento dei rapporti interpersonali che sono necessari al lavoratore per svolgere la sua normale attività lavorativa. Si deve trattare di una condotta – considerata nel suo complesso – lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore, dignità da intendersi sotto l’aspetto morale, psicologico, fisico o sessuale. Quando questo comportamento è realizzato dal datore di lavoro (o comunque da un superiore) nei confronti di un dipendente prende anche il nome di “bossing” (o “mobbing verticale”). Quando questa pratica è realizzata da alcuni lavoratori nei confronti di un loro collega, il fenomeno viene anche definito “mobbing orizzontale”. Esempi sono quelli in cui la possibilità di relazionarsi coi colleghi è limitata: al lavoratore vengono più volte cambiate le mansioni, ma la maggior parte delle volte deve fare lavori in cui il contatto con i colleghi è ridotto al minimo. Altri esempi sono quelli in cui il lavoratore è costretto a fare lavori umilianti, in relazione alla sua condizione sociale e personale e piuttosto disparati. Nonostante sia un valido lavoratore che ottiene degli ottimi risultati, il lavoro non viene mai premiato, ma il più delle volte viene giudicato in maniera sbagliata e offensiva. Ancora, sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o, l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet). Perché sussista il mobbing, quindi, non è sufficiente un singolo atto ma è necessaria una pluralità di situazioni. Questi comportamenti devono essere tutti finalizzati alla persecuzione del lavoratore per ottenerne le dimissioni, a prescindere dal fatto che l’obiettivo venga o meno raggiunto. Il lavoratore vittima di mobbing può maturare delle vere e proprie patologie, fisiche o psichiche, che possono essere indennizzate attraverso una richiesta di risarcimento dei danni, nei confronti dell’azienda datrice, sia che siano state perpetrate dal datore di lavoro o dai superiori e, talvolta, anche dai colleghi.