Catapano Giuseppe scrive: Riscossione esattoriale fino a 5 anni dalla cancellazione dal registro imprese

Arriva la prima sentenza della Cassazione che chiarisce la portata applicativa della nuova norma contenuta nel decreto Semplificazioni, norma che porta da un anno a cinque il termine entro cui il fisco, a partire dalla data di cancellazione dell’azienda dal registro delle imprese, può bussare alla porta della società estinta e pretendere ugualmente il pagamento del debito.

Oggi, dicevamo, la Suprema Corte ha stabilito un importante chiarimento: la norma in commento non ha portata retroattiva: pertanto, l’amministrazione finanziaria potrà valersi del più ampio termine dei cinque anni solo a condizione che l’istanza di cancellazione dal registro delle imprese sia pervenuta dopo il 13 dicembre 2014.

Dunque, il differimento quinquennale (operante nei soli confronti dell’amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione, con riguardo a tributi o contributi) degli effetti dell’estinzione della società si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese (richiesta che costituisce il presupposto di tale differimento) sia presentata dopo l’entrata in vigore del Dl Semplificazioni (cioè il 13 dicembre 2014 o successivamente).

Vale a dire l’amministrazione finanziaria ha più tempo per riscuotere i suoi crediti solo nei confronti di società, di capitali e di persone, il cui liquidatore ha fatto istanza di cancellazione dopo il 13 dicembre 2014, giorno di entrata in vigore della nuova norma.

Come cambia la responsabilità della società
Per via della riforma approvata l’anno scorso, dunque, gli effetti dell’estinzione della società, qualora derivi però da una cancellazione dal registro delle imprese disposta su richiesta, è differito per cinque anni, decorrenti dalla richiesta di cancellazione, ma tale differimento vale solo per il settore tributario e contributivo. In altre parole, per esempio, se a bussare alla porta della società è una banca, per il mancato pagamento di un mutuo, la richiesta non potrà più essere rivolta alla persona giuridica ormai estinta; e questo vale per qualsiasi altro creditore privato. Diverso, invece, il discorso quando a dover riscuotere è il fisco. In tale ipotesi, infatti, lo Stato ha ben cinque anni di tempo per presentarsi “a casa” della ex società e pretendere – nonostante la cancellazione dal registro delle imprese – il pagamento del debito erariale.

Questo significa che l’estinzione intervenuta durante tale periodo non fa venir meno la “validità” e l’efficacia sia degli atti di liquidazione, di accertamento, di riscossione relativi a tributi e contributi, sanzioni e interessi, sia degli atti processuali afferenti a giudizi concernenti detti tributi e contributi, sanzioni e interessi (si pensi, ad esempio, a un appello contro una decisione di una CTR favorevole al contribuente).

In più, spiega ancora la Cassazione il differimento degli effetti dell’estinzione non opera necessariamente per un quinquennio, ma per l’eventuale minor periodo che risulta al netto dello scarto temporale tra la richiesta di cancellazione e l’estinzione.

La riforma è stata anche oggetto di una importante circolare dell’Agenzia delle entrate secondo cui la possibilità di riscuotere i crediti delle società estinte per cinque anni varrebbe anche per quei casi in cui l’istanza sia stata presentata prima del 13 dicembre 2014. Secondo, infatti, l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, il decreto semplificazioni avrebbe effetti retroattivi, applicandosi a tutte le società, a prescindere dalla data di estinzione.

La Cassazione, invece, si schiera dalla parte del contribuente e dice “no” all’interpretazione retroattiva. Una importante sentenza che, certamente, non mancherà di far discutere.

Catapano Giuseppe informa: COME OTTENERE SUBITO PIN D’ACCESSO AI SERVIZI ONLINE DELLE ENTRATE E CERTIFICAZIONE UNICA DELL’INPS SENZA ALCUN COSTO. AGENZIA DELLE ENTRATE E INPS INFORMANO SUL MODO MIGLIORE PER AFFRONTARE LE PROSSIME SCADENZE FISCALI

Abilitarsi a Fisconline e ottenere la password e il Pin per utilizzare i servizi telematici dell’Agenzia, incluso il 730 precompilato, è semplice e gratuito. La richiesta può essere effettuata online, per telefono o in un qualsiasi ufficio territoriale delle Entrate, in modo da garantire a tutti i cittadini la possibilità di scelta sulla base delle proprie esigenze. Per quanto riguarda la Certificazione Unica dei redditi, i pensionati e gli assistiti Inps possono riceverla facilmente e gratuitamente sia online, sul sito dell’Inps, se dispongono del codice Pin rilasciato dall’ente previdenziale, sia presso i patronati. Presso Caf e altri intermediari specializzati la procedura è altrettanto semplice, ma in alcuni casi a pagamento.

Codice Pin dell’Agenzia delle Entrate: ecco come ottenerlo gratuitamente – I contribuenti che vogliono accedere a tutti i servizi online dell’Agenzia, compresa la dichiarazione precompilata, possono richiedere gratuitamente il Pin e la password personali sia online, tramite il sito internet dell’Agenzia, sia recandosi presso un ufficio delle Entrate, anche tramite soggetto delegato, oppure per telefono. Se la richiesta è effettuata dal diretto interessato presso un ufficio dell’Agenzia, viene rilasciata la prima parte del codice Pin e la password di primo accesso; la seconda parte del Pin potrà essere subito prelevata dal contribuente direttamente via internet. A garanzia degli utenti, in caso di richiesta online, per telefono, o tramite soggetto delegato, la procedura prevede che la prima parte del Pin sia rilasciata immediatamente, mentre la seconda parte, con la password di primo accesso, sia inviata per posta presso il domicilio del contribuente registrato in Anagrafe tributaria.

Certificazione unica senza costi, online – Per i pensionati, oltre che per i lavoratori che hanno ottenuto nel 2014 una prestazione di sostegno al reddito da Inps (cassintegrati, disoccupati, etc.) il modello di Certificazione Unica, necessario per la presentazione della dichiarazione dei redditi, è disponibile online sul sito istituzionale dell’Inps, alla voce “Servizi al cittadino”. Per questo servizio è necessario avere il Pin. Per chi non è dotato di Pin, la Certificazione Unica 2015 può essere richiesta a costo zero presso i patronati. E’ possibile ottenere lo stesso certificato anche presso i Caf e gli altri intermediari autorizzati, ma alcuni di questi fanno pagare il servizio. In seguito ad un incontro fra il presidente dell’Inps e la Consulta Nazionale dei Caf si è stabilito che tutti i Caf che appartengono alla Consulta Nazionale offriranno la possibilità di ottenere la Certificazione Unica a titolo gratuito.

Catapano Giuseppe informa: INDENNITÀ PER SPESE DI VIAGGIO: ‘VIA LIBERA’ AL RIMBORSO DELL’IRPEF PER IL MEDICO

Somme riconosciute al medico come “indennità per spese di viaggio sostenute per lo svolgimento dell’incarico presso gli ambulatori esterni al Comune di residenza”. E tali cifre vanno catalogate come ‘rimborsi spese’ a tutti gli effetti, e quindi non sono soggette a “trattenute Irpef”.
Vittoria definitiva per il contribuente, che vede riconosciuto dai giudici della Cassazione il proprio diritto ad ottenere il “rimborso dell’Irpef”, relativamente al periodo 2001-2003. Illegittime, quindi, le “trattenute” operate dal Fisco.
Su questo fronte già i giudici tributari regionali avevano riconosciuto che “le corresponsioni a fronte delle spese di viaggio effettivamente sostenute, siccome parametrate ai chilometri effettivamente percorsi, debbano considerarsi alla stregua di ‘rimborsi spese’, non assimilabili alle retribuzioni e perciò non assoggettabili ad imposta”.
E ora tale visione è condivisa dai giudici della Cassazione, i quali evidenziano che “il ‘rimborso spese’ è determinato”, in questo caso, “non con criterio forfetario, e perciò sganciato dall’effettivo esborso sostenuto dal prestatore d’opera, ma con specifica parametrazione rispetto al chilometraggio effettivamente percorso ed al costo del carburante di tempo in tempo rilevato, sicché non vi è dubbio che l’indennità di cui si tratta assolva alla concreta funzione di ripristinare il patrimonio del prestatore d’opera depauperato per causa degli esborsi effettivamente sostenuti nell’interesse dell’amministrazione datrice di lavoro”.

Giuseppe Catapano: ASSEGNO MENSILE ALLA MOGLIE SEPARATA, L’UOMO PROVVEDE PAGANDOLE LE RATE DEL MUTUO: LEGITTIMA COMUNQUE LA DEDUZIONE

“Assegni” da corrispondere alla “moglie separata”. L’uomo non può certo evitare questo obbligo, però può scegliere una modalità alternativa di versamento, cioè “non corrispondere” alla donna “mensilmente” la somma fissata, pari a oltre 1.800 euro, bensì provvedere al “pagamento” di quasi 19mila euro per “rate di mutuo e spese che sarebbero state” comunque “a carico della coniuge”.
Opzione assolutamente legittima, quella dell’uomo, non solo di fronte alla moglie, ma anche di fronte al Fisco.
Su questo fronte, difatti, è evidente, sanciscono i giudici di Cassazione dando torto al Fisco, la “legittimità della deduzione” operata dall’uomo rispetto alle “somme versate” a favore della moglie.
Decisiva è la constatazione che “le somme corrisposte dal contribuente, in vece e per conto della coniuge separata, ad estinzione di ratei del mutuo a quest’ultima intestato, non ebbero importo maggiore dell’ammontare dell’assegno di mantenimento determinato dal provvedimento giudiziale adottato nel procedimento di separazione personale tra i coniugi”. Di conseguenza, è corretto ritenere “legittimamente fungibile, come modalità di adempimento dell’obbligo alimentare solitamente attuata a mezzo della diretta corresponsione dell’assegno periodico, quella che consiste nell’accollo dell’obbligazione pecuniaria gravante sul coniuge, che in tal modo ne resta sollevato”.

Giuseppe Catapano comunica: BRESCIA MONTICHIARI, IL CEMENTO INVECE DELLE ALI

Bernardo Caprotti, classe 1925 e ben portati ha una visione: accorpare un’intera area di 44 chilometri quadrati, pari a un terzo della Città di Milano, e farne l’Aeroporto Intercontinentale del Nord Italia. L’area scelta dall’ex imprenditore del tessile convertito dai Rockefeller alla Grande Distribuzione già alla fine degli anni ’50, è quella in cui attualmente vi sono già due aeroporti, quello civile di Brescia Montichiari, e quello militare di Ghedi. Nel mezzo e tutt’intorno vi sono strade, ferrovie, autostrade, alta velocità, abitazioni e terreni privati.

Un po’ più in là c’è la città di Brescia. Il progetto, che non stima ne i costi ne chi li dovrebbe sopportare, parte dal postulato che la pianura padana è una “macro regione isolata ove 28 milioni di abitanti sono privi di collegamento con il resto del mondo“ (cito testualmente). Circa le cause, lo studio si limita a evidenziare che l’aeroporto di Milano Malpensa è sottoutilizzato perché scomodo e non baricentrico rispetto alla macro regione padana, che l’aeroporto di Milano Linate è piccolo e ha una brutta aerostazione, mentre quelli di Bergamo Orio al Serio e Verona Villafranca vengono considerati solo come tempi di collegamento con questa nuova visione. Perché è cosi che Caprotti la definisce. Ed è vero.

Poi Caprotti inserisce in questa vasta area, al posto dei due aeroporti civile e militare esistenti, delle strade, delle ferrovie, delle autostrade e delle abitazioni e dei terreni privati, l’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle così e com’è oggi. E siccome l’una figura rientra nell’altra, la visione si è completata con l’evidenza che il nuovo Aeroporto Intercontinentale del Nord farà felici 30/40 milioni di abitanti che miracolosamente si trasformano in passeggeri, tutti finalmente serviti dal nuovo aeroporto ove qualsiasi compagnia aerea sarebbe disposta a farne il proprio hub (cito testualmente). Egregio architetto Honoris Causa Bernardo Caprotti, guardi che gli aeroporti non volano! E non trasportano nessuno. L’aeroporto Charles de Gaulle, così come tutti gli altri che Ella cita, il Dallas Fort Worth, Londra Heathrow, il New York JFK o quelli di Dubai e Abu Dhabi, sono nati e si sono sviluppati nel tempo assieme al vettore aereo di riferimento.

Non è il cemento che fa arrivare gli aerei. È il contrario. Air France si è sviluppata assieme allo Charles de Gaulle, Delta Airlines si è sviluppata assieme al Fort Worth, British Airways si è sviluppata assieme a Heathrow, Pan Am e TWA hanno fatto crescere il JFK, le compagnie aeree Emirates ed Etihad stanno facendo crescere gli aeroporti di Dubai e Abu Dhabi. Alle sviluppo delle infrastrutture va accompagnato lo sviluppo delle industrie di servizio che danno proprio quella prestazione per cui sono state progettate e costruite. Oggi si può costruire di tutto, la tecnica è matura. Si potrebbe ipotizzare un doppio canale navigabile che dal Tirreno e dall’Adriatico conduca navi verso un mega porto avanti a Brescia, tipo Rotterdam o Anversa, se per questo.

Se proprio vuole dare un contributo importante, efficace e serio allo sviluppo del trasporto aereo, caro architetto Honoris Causa Bernardo Caprotti, faccia nascere e sviluppi una compagnia aerea realmente padana, realmente forgiata con l’incommensurabile e inimitabile determinazione dei Capitani d’Industria di questa vasta e produttiva regione, che fino ad ora ha tralasciato proprio questo settore. Sono gli aerei che volano, è la Compagnia Aerea che da il servizio e che, se è gestita da abili manager, e consolidata da forti azionisti, crescendo fa crescere l’aeroporto. Non il cemento, le ali.

Giuseppe Catapano osserva: Gli angeli in cielo ed i morti per terra: che poi non sono due cose, sono la stessa

Che sia di risurrezione o di liberazione, che sia cristiana oppure ebraica, che la si chiami Pasqua oppure Pèsach, che la si offici tra rami di ulivo benedetti o pani non lievitati, essa è il tempo di celebrare due cose: la primavera ed il “passare oltre”, che poi non sono due cose, sono la stessa.

Nell’Esodo Dio “passò oltre” vedendo sugli stipiti il sangue di agnello, e l’angelo sterminatore si astenne dal riversarne dell’altro, dal riversarne di umano.

La Pasqua è il tempo della rinascita: della resurrezione in vita. Altra cosa è la nascita, altra e più sacra cosa sono i bambini.

La risurrezione in vita presuppone che la nostra esistenza possa più o meno gradualmente essersi assimilata in tutto e per tutto all’Oltretomba. Pietosamente fingiamo il nostro stupore: in realtà l’Ade, in vita, l’abbiamo più volte incontrato.

olo che mai avremmo pensato di sopravvivergli, come invece è stato. È stata la Pasqua, ogni volta. Dopo una sofferenza immane.

Garissa, Nord Est del Kenya, all’alba odierna. Miliziani armati penetrano in un campus studentesco e chiedono a studenti e professori: «Sei cristiano o musulmano». Nel primo caso se ti va bene ti tengono ostaggio con le armi alla tempia. Se ti va meno bene fanno fuoco. Se ti va male ti tagliano la testa.

Venti già i morti e 70 i feriti ed oltre 500 i probabili ostaggi.

Gli assassini sono degli Shabaab, jihadisti somali, che è da quando il Kenya inviò truppe contro di loro in Somalia che ritengono di poter fare, che ritengono di dover fare i dispensatori di morte divina, gli angeli sterminatori.

Forse è tempo di smettere di distinguere il cielo e la terra. E così si smetterà di contare due volte: gli angeli in cielo ed i morti per terra. Che poi non sono due cose, sono la stessa.

Giuseppe Catapano scrive: Avvocati e decreto ingiuntivo sulla parcella: vale la dimora, non la residenza

Conta più la dimora effettiva che la residenza. Così, l’avvocato che deve chiedere un decreto ingiuntivo nei confronti del proprio ex cliente moroso non può rivolgersi al tribunale del luogo di residenza anagrafica di quest’ultimo, bensì a quello relativo alla dimora effettiva. A chiarirlo è stata la Cassazione con una recente ordinanza.

Questa volta la Suprema Corte non parla di foro del Consiglio dell’Ordine dell’avvocato creditore (leggi “Competenza territoriale e decreto ingiuntivo dell’avvocato”). Qui, invece, viene richiamato il codice del consumo che, a detta dei giudici, regolamenta il contratto tra professionista e cliente.
Ai sensi di quest’ultimo corpo normativo – si legge in sentenza – la nozione di residenza va intesa in senso non formale, cioè corrispondente alle risultanze dei registri anagrafici, bensì sostanziale, quale luogo di dimora abituale.

La localizzazione della dimora va effettuata sulla scorta di elementi obiettivi quali, per esempio (come nel caso di specie) la risalente conoscenza dello stesso avvocato dell’abituale dimora del cliente, la numerosa corrispondenza reciprocamente inviata e ricevuta dalle parti, nonché il luogo di lavoro.

In definitiva, secondo la Corte, laddove il codice del consumo richiama, come foro competente, quello di residenza del consumatore bisogna intendere l’effettiva dimora anche se in apparente conflitto con la residenza anagrafica.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 14 gennaio – 30 marzo 2015, n. 6333
Presidente bianchini – Relatore Manna
In fatto
D.F.M.E. proponeva opposizione al decreto emesso dal Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Montevarchi, col quale su ricorso dell’avv. M.G. le era stato ingiunto il pagamento della somma di Euro 44.146,60, a titolo di corrispettivo per prestazioni professionali svolte in relazione a varie controversie. A sostegno dell’opposizione, la preliminare eccezione d’incompetenza del giudice che aveva emesso il decreto ingiuntivo, competente essendo il Tribunale di Milano, luogo quest’ultimo di effettiva sua dimora, nonché la continenza della causa con altra, previamente instaurata dalla D. innanzi a quest’ultimo foro, per l’accertamento di profili di responsabilità professionale dell’avv. M. .
Questi resisteva e contestava la dedotta incompetenza.
Con ordinanza del 18.2.2014 il Tribunale dichiarava la propria incompetenza per territorio, competente essendo il Tribunale di Milano, e revocava il decreto ingiuntivo opposto, assorbita la questione di continenza. Osservava il giudice aretino che, soggiacendo il rapporto contrattuale dedotto a base della domanda al D.Lgs. n. 206/05 (codice del consumo), la nozione di residenza doveva essere intesa in senso non formale, cioè corrispondente alle risultanze dei registri anagrafici, bensì sostanziale, quale luogo di dimora abituale, in base all’art. 43 c.c.. Nella specie, proseguiva, era pacifico che la D. , sebbene anagraficamente residente in (omissis) , dimorava abitualmente e da anni a (…), ove ella aveva anche la sua sede di lavoro presso la Sopraintendenza ai Beni Culturali. Osservava, inoltre, che a (…) la D. aveva ricevuto la corrispondenza inoltratale dall’avv. M. , corrispondenza che, invece, precedentemente inviata al luogo di residenza anagrafica non era stata ritirata.
Proposto regolamento di competenza da parte dell’avv. M. e attivato il relativo procedimento camerale, il Procuratore Generale nel rassegnare le proprie conclusioni scritte ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c. ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il ricorrente, cui sono state comunicate le conclusioni del Procuratore Generale, ha depositato memoria e prodotto documenti.
D.F.M.E. non ha svolto attività difensiva.
In diritto
1. – Il Procuratore Generale osserva che l’ordinanza impugnata è conforme al principio affermato da questa Corte Suprema, secondo cui in tema di controversie tra consumatore e professionista, l’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, (c.d. Codice del consumo) va interpretato nel senso che la residenza del consumatore, cui la norma ha riguardo, è quella che lo stesso ha al momento della domanda e non quella che egli aveva al momento della conclusione del contratto, ma sull’individuazione del corrispondente foro esclusivo ivi previsto incide l’accertamento, devoluto al solo giudice del merito, del carattere fittizio dello spostamento di residenza del consumatore, compiuto per sottrarsi al radicamento della controversia o anche, come nella specie, dell’eventuale non coincidenza della residenza anagrafica (che instaura una mera presunzione) con quella effettiva (principio affermato dalla S.C. per il caso di accertata abituale dimora, cioè della vita lavorativa e familiare degli attori, in un luogo non ricompreso nel circondario del tribunale corrispondente a quello della loro residenza anagrafica) (Cass. n. 23979/10).
Ritiene, quindi, che il giudice di merito abbia rilevato sulla base di elementi obiettivi, quali la risalente conoscenza dello stesso avv. M. dell’abituale dimora della D. in (…), la numerosa corrispondenza reciprocamente inviata e ricevuta dalle parti, nonché il luogo di lavoro della stessa D. sito in (…), che la residenza anagrafica non coincideva con quella effettiva, cioè con la dimora abituale, e che di conseguenza resta superata la presunzione semplice derivante dai dati anagrafici.
2. – Tali conclusioni devono ritenersi condivisibili, non essendo, invece, fondate, le ragioni di segno opposto svolte dalla parte ricorrente.
Infatti, la circostanza che in (omissis) la D. sia proprietaria di due immobili, stipuli i relativi contratti di locazione, intrattenga un rapporto di c/c ed abbia il suo domicilio fiscale, non vale a dimostrare che ella mantenga ivi anche la sua residenza abituale. Si tratta, invero, di elementi di fatto che dimostrano come in (omissis) si localizzi il centro degli interessi economici della D. , vale a dire il domicilio di lei; ma ciò non dimostra che tale luogo coincida anche con quello di residenza, ossia di dimora abituale.
Né vale in senso opposto il fatto che la notificazione a mezzo posta del regolamento di competenza sia avvenuta con successo in (omissis) e che, per contro, non sia andata a buon fine quella tentata in via (omissis) . Si tratta di fatti successivi alla proposizione della domanda giudiziale, che nulla se non le mere asserzioni di parte ricorrente accreditano come espressivi di una situazione esistente già a detta epoca.
3. – Il ricorso va dunque respinto.
4. – Nulla per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
5. – Ricorrono le condizioni previste dall’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Catapano Giuseppe: Come ottenere la sospensione della cartella Equitalia

Equitalia può procedere ad esecuzione forzata decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella anche se il contribuente ha già presentato ricorso al giudice.

Per evitare, però, che, in presenza di apparenti situazioni di necessità e di illiceità della cartella, il contribuente possa subire un danno irreparabile, è possibile ottenere la sospensione dell’esecutività del titolo (la cartella o un accertamento immediatamente esecutivo).

Esistono diverse forme e modi per ottenere la sospensione dell’esecuzione forzata, utilizzabili in tempi e modi diversi a seconda della fase in cui si trova la procedura di riscossione. Ecco, in sintesi, le chance che si profilano per il contribuente.

1 | ISTANZA AL GIUDICE

L’istanza è subordinata al fatto che il contribuente abbia presentato (o intenda presentare) ricorso al tribunale contro la cartella o l’accertamento esecutivo. Insomma: solo se si procede per la via giudiziale, con l’impugnazione dell’atto, si può chiedere anche (nell’atto stesso o con successiva istanza) la sospensiva dell’esecutività del titolo. Infatti, la semplice impugnazione non ne sospende automaticamente gli effetti e, pertanto, Equitalia, può procedere all’esecuzione forzata anche se pende un ricorso. Ecco perché, di norma, insieme al ricorso, si presenta anche istanza di sospensione.
Se il giudice accoglie l’istanza, l’Agente della riscossione non potrà procedere a effettuare pignoramenti.

Come si procede
Il ricorrente che abbia impugnato l’atto, se teme che l’esecuzione di quest’ultimo possa determinargli un danno grave e irreparabile, può chiedere al giudice, la sospensione in via cautelare di tale atto, mediante la proposizione di una istanza motivata.

È necessario che il ricorso illustri al giudice la sussistenza di tali presupposti:

– il pericolo di un danno grave e irreparabile che deriverebbe dall’esecuzione dell’atto impugnato (i giuristi lo chiamano “periculum in mora”);

– la fondatezza del ricorso sulla base di un’analisi sommaria (i giuristi lo chiamano “fumus boni iuris”).

A questo punto il giudice fissa una udienza solo per decidere in merito alla sospensiva e, con successiva ordinanza, decide se accogliere o rigettare la richiesta.

Cosa si intende per “pericolo di danno grave e irreparabile”?
Il danno grave e irreparabile va inteso, ovviamente, in relazione alle condizioni soggettive del contribuente.

Ecco alcuni esempi. I giudici hanno ritenuto sussistente il pericolo di un danno grave e irreparabile quando:

– l’esecuzione dell’atto mette a repentaglio diritti primari della parte e non è verosimilmente più eliminabile in futuro: per esempio, se l’esecuzione forzata dell’atto determina una vera e propria situazione di insolvenza da rendere indispensabile il ricorso a procedure liquidatorie (per le aziende) o da ridurre il contribuente in stato di povertà;

– c’è il pericolo di dover ricorrere all’improvviso smobilizzo di beni patrimoniali senza la possibilità di fissare condizioni di vendita adeguate e di individuare idonea controparte;

– l’eccessiva esposizione bancaria di un’impresa non consente di far fronte al pagamento di quanto dovuto, con conseguente rischio di pignoramento ed asportazione dei beni aziendali e con ripercussioni gravi sulla situazione occupazionale dei dipendenti;

– l’importo in contestazione è molto elevato e i tempi per l’eventuale rimborso sono molto lunghi;

– l’importo oggetto dell’accertamento è molto elevato in ragione della natura dell’attività esercitata dalla società;

– risulta provata in atti una forte esposizione debitoria nei confronti del sistema bancario che impedisce al contribuente, di attingere ulteriormente allo stesso per pagare il debito con l’erario.

Così, per esempio, è stata decretata la sospensione di un avviso di accertamento che comportava un danno grave e irreparabile in base alla sola entità della pretesa erariale, il cui pagamento poteva essere effettuato solo ricorrendo a mezzi straordinari, come l’alienazione del proprio patrimonio immobiliare.

Ed ancora il pesante pregiudizio economico che può derivare a un pensionato dall’accertamento anche di poche migliaia di euro non è assolutamente comparabile con quello più che lieve che subirebbe una spa accertata per la stessa somma.

2 | ISTANZA ALL’ENTE IMPOSITORE

Il contribuente può sempre rivolgersi all’ente impositore – quello cioè, titolare del tributo di cui si chiede il pagamento (per esempio Inps, Agenzia delle Entrate, ecc., ma anche Regione e Comuni) – proponendo una istanza in autotutela.
In questo caso, in quanto espressione del potere di autotutela, l’ufficio che ha emesso l’atto può sospenderne l’esecuzione anche d’ufficio, e in assenza di istanza del contribuente, qualora questo appaia illegittimo o infondato.

Presupposti
I presupposti sono gli stessi visti per l’istanza davanti al giudice:
– presentazione di un ricorso fondato;
– danno grave e irreparabile.

L’amministrazione finanziaria ha una maggiore discrezionalità rispetto al giudice in merito all’eventuale accoglimento o rigetto dell’istanza.

Come si procede
Chi ha ricevuto la notifica di una cartella di pagamento o un avviso di accertamento esecutivo e che lo abbia tempestivamente impugnato può richiederne la sospensione in tutto o in parte con istanza presentata alla Direzione Provinciale o Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’accertamento o che ha formato il ruolo.

L’istanza deve essere redatta in carta semplice e va motivata indicando, nel dettaglio, la sussistenza dei presupposti per la sospensiva. Bisogna poi allegare copia delle cartelle di pagamento e del ricorso presentato al giudice competente.

3 | ISTANZA A EQUITALIA

Il contribuente può chiedere direttamente a Equitalia l’immediata sospensione della riscossione nei seguenti casi:

– il diritto di credito azionato era prescritto o decaduto prima che il ruolo fosse stato reso esecutivo;

– l’ente impositore ha emesso un provvedimento di sgravio del credito;

– l’ente creditore ha concesso la sospensione amministrativa;

– il credito è stato in tutto o in parte annullato o sospeso in giudizio;

– è stato effettuato pagamento prima della formazione del ruolo;

– qualsiasi altra causa di non esigibilità del credito.

Come si procede
L’istanza va presentata entro 90 giorni dalla notifica della cartella con raccomandata a.r., in via telematica o con consegna allo sportello. I moduli sono già prestampati da Equitalia.
L’istanza sospende automaticamente l’esecuzione.

Equitalia, entro 10 giorni, trasmette all’ente impositore l’istanza del debitore. Se, nei 60 giorni successivi, l’ente impositore trasmette ad Equitalia lo sgravio, il contribuente non deve più alcunché. Diversamente, quest’ultimo comunica a Equitalia la correttezza della richiesta di pagamento e la cartella torna ad essere esecutiva.

Se invece Equitalia non fornisce risposta al contribuente entro 220 giorni dalla presentazione dell’istanza, i crediti in oggetto sono annullati automaticamente.

Catapano Giuseppe informa: Fondo e vincolo non salvano la casa per i debiti volti a mantenere la famiglia

Non serve blindare la casa col fondo patrimoniale o il vincolo di destinazione se il debito è già sorto. Opporre, infatti, l’impignorabilità dell’immobile al creditore, il quale agisce in esecuzione forzata per recuperare un pagamento insoluto, potrebbe essere molto difficile. Infatti, in entrambi i casi, il debitore deve riuscire a dimostrare che il creditore conosceva l’estraneità del proprio credito ai bisogni della famiglia. A ricordarlo è il tribunale di Reggio Emilia con una recente sentenza

Ma procediamo con ordine.

Simile, ma non identico al fondo patrimoniale, è il cosiddetto vincolo di destinazione: un istituto che consente a chiunque di destinare beni immobili (o mobili registrati) a un interesse meritevole di tutela (interesse da indicare nell’atto). Tale vincolo, che può durare massimo 90 anni o tutta la vita del beneficiario, rende impignorabile l’immobile nei confronti dei creditori, salvo che il debito sia stato contratto per mantenere la famiglia. In tutti gli altri casi, i creditori non potranno né ipotecare, né pignorare la casa del debitore.

Ma attenzione: se il debitore vuol blindare la casa dalle aggressioni del creditore, deve riuscire a dimostrare che quest’ultimo era consapevole del fatto che il debito non era stato contratto per esigenze essenziali della famiglia. In mancanza di questa prova, non c’è ostacolo che tenga. Valgono, insomma, le stesse regole previste dal codice civile per il fondo patrimoniale, istituto con il quale c’è analogia. Diversamente, sarebbe troppo facile sfuggire alle proprie responsabilità patrimoniali.

In ogni caso, l’interesse da tutelare, oggetto del vincolo di destinazione apposto sull’immobile, deve essere meritevole: in pratica, l’interesse del disponente deve risultare prevalente su quello dei terzi estranei, destinati a essere sacrificati. La parte, quindi, deve indicare, nell’atto di destinazione, le specifiche (e non generiche) ragioni che l’hanno indotta a optare per quel particolare vincolo, evidenziando i motivi per i quali la separazione patrimoniale costituisca l’extrema ratio o comunque lo strumento più indicato per garantire al nucleo familiare quel minimo di tutela che l’ordinamento le riconosce.

Per esempio: non si può considerare un interesse meritevole di tutela il vincolo di destinazione della casa affinché la stessa sia strumentale alle “esigenze di residenza” della famiglia. Né potrebbe esserlo quello rivolto a garantire un futuro stabile ai figli fino a quarant’anni (i giovani – si spera – raggiungono prima l’indipendenza economica). Così, se le motivazioni sono generiche, meglio optare per un fondo patrimoniale che non richiede, invece, finalità di questo tipo e può essere disposto anche senza una specifica causa.

Catapano Giuseppe osserva: PEC valida anche senza firma elettronica: basta la ricevuta di consegna

Per inviare istanze o richieste alla pubblica amministrazione attraverso una email di posta elettronica certificata (cosiddetta PEC) non è necessario avere anche la firma digitale.
Il chiarimento proviene da una recente sentenza del Tar Campania.

Il classico esempio potrebbe essere la domanda di partecipazione a un bando per una gara o a un finanziamento o, ancora, a un concorso pubblico per un posto di lavoro nell’amministrazione.

La richiesta inoltrata dal cittadino non deve essere firmata digitalmente con il relativo dispositivo: è sufficiente, per garantire la certezza legale, la semplice PEC. E ciò perché l’email di conferma di “invio” e “avvenuta ricezione”, generata automaticamente dal gestore dell’account di posta certificata, è più che sufficiente a dimostrare l’autenticità della comunicazione proprio come se fosse una raccomandata a.r., anche in assenza della firma digitale.

Spesso nei bandi di concorso, nelle manifestazioni di pubblico interesse e nei moduli d’istanza è richiesta espressamente la firma digitale, pena l’inammissibilità della domanda: una pratica che, stando alla sentenza in commento, sarebbe illegittima perché assolutamente non necessaria ai fini di garantire la genuinità dell’invio e a provare l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione telematica.

PEC e firma digitale sono due cose completamente diverse. Se la PEC funziona come una raccomandata a.r., e quindi garantisce la fede pubblica dell’invio, della ricezione e della data della comunicazione, la firma digitale invece serve solo ad attribuire la paternità giuridica di un documento al suo autore (proprio al pari di una firma su un contratto).

La firma elettronica non è sempre necessaria. Lo è solo quando la legge espressamente richiede di collegare un documento al soggetto che lo ha inviato mediante posta elettronica certificata. In tali casi se il gestore del sistema di posta certificata, una volta che il titolare della casella invia mediante essa un documento informatico, attesta che la trasmissione del documento è correttamente avvenuta, ciò sostituisce a tutti gli effetti la firma elettronica del documento inviato.

Dunque, da oggi, se un bando per un concorso o un finanziamento dovesse richiedere che le domande vengano inoltrate tramite PEC e firma digitale, il ricorso al giudice per far annullare questa inutile duplicazione potrebbe essere più che fondato.

Del resto è quanto disposto dal codice dell’amministrazione digitale : il riconoscimento delle credenziali di accesso e soprattutto l’invio della PEC richiedendo la ricevuta completa di avvenuta consegna sostituisce la firma elettronica. Ricordiamo che la ricevuta completa di avvenuta consegna, sottoscritta con la firma del gestore di posta elettronica certificata del destinatario, emessa dal punto di consegna al mittente nel momento in cui il messaggio è inserito nella casella di posta elettronica certificata del destinatario, contiene tutti i dati di certificazione ed il messaggio originale.

Tar Campania, sez. III, sentenza 8 gennaio – 10 marzo 2015, n. 1450
Presidente Guadagno – Estensore Graziano
Fatto e diritto
1.1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato e depositato, il Comune di Terzigno impugna i provvedimenti in data 11.4.2014 con i quali la Regione Campania, decidendo sulle istanze di riesame dal medesimo presentate avverso il provvisorio inserimento nell’elenco delle istanze non ricevibili, è stata confermata la motivazione di esclusione della domanda prodotta dall’Ente per la realizzazione di progetti di recupero integrato ambientale e paesaggistico (P.I.R.A.P.) nel periodo dall’1.8.2013 all’11.10.2013, Misura 313, finalizzato al miglioramento della sentieristica comunale relativamente a quattro sentieri.
La gravata esclusione è stata disposta poiché le quattro domande in questione non sarebbero state firmate dal richiedente.
1.2. Alla Camera di Consiglio del 24.7.2014 dedicata alla trattazione dell’incidente cautelare, la Sezione accoglieva la domanda di sospensiva motivando diffusamente il fumus boni iuris del ricorso con Ordinanza cautelare n. 1283 del 25.7.2014.
Si costituiva la Regione Campania con decreto di incarico prodotto il 9.7.2014 di poi depositando il 25.11.2014 una relazione istruttoria della competente UOD ed altri documenti.
Il Comune ricorrente produceva memoria per il merito il 6.12.2014 unitamente ad altri atti.
Alla pubblica Udienza dell’8 gennaio 2015 sulle conclusioni delle parti il gravame p stato ritenuto in decisione.
2.1. Deve il Collegio confermare la delibazione di fondatezza dell’azione già funditus tratteggiata nella sede monitoria, rilevando la fondatezza dell’unico motivo di ricorso, con il quale il Comune di Terzigno, rubricando violazione e falsa applicazione del bando relativo al P.S.R. Campania 2007 – 2013, violazione del D.Lgs. n. 82/2005 ed eccesso di potere sotto tutti i profili sintomatici, lamenta che gli impugnati quattro decreti reiettivi delle domande di riesame non abbiano tenuto conto di tutte le argomentazioni svolte dall’Ente locale, nelle quali si evidenziava che la volontà di partecipazione del medesimo alla misura per cui è causa, risultava idoneamente espressa mediante la sottoscrizione tradizionale della nota denominata “istanza di finanziamento”, con la quale si trasmetteva alla Regione, oltre al formulario di presentazione, il progetto esecutivo e ben 7 documenti allegati, tutti regolarmente firmati dal Sindaco p.t., legale rappresentante dell’Ente.
I punto di diritto inoltre il Comune esponente deduce la violazione dell’art. 65 comma 1, lett. c) del D.lgs. 7.3.2005 n. 82 nella parte in cui sancisce che l’invio mediante posta elettronica certificata di istanze e dichiarazioni a un’amministrazione è da considerarsi valido ad ogni effetto di legge, anche in assenza della firma digitale, qualora le relative credenziali di accesso siano state rilasciate, previa identificazione del titolare, e ciò si attestato dal gestore del sistema nel messaggio o in un suo allegato.
Nel caso di specie, dalla produzione versata i atti emergerebbe che la documentazione inerente l’istanza di finanziamento, nonché quest’ultima, è stata inviata dal Comune alla Regione a mezzo pec ed è stata riscontrata dall’Ente regionale mediante una ricevuta completa.
2.2. Ritiene il Collegio che appare risolutiva la soluzione del punto di diritto in ordine all’invocata idoneità della trasmissione delle istanze di ammissione a finanziamento mediante impiego del sistema della posta elettronica certificata a surrogare la stessa sottoscrizione delle domande medesime.
Orbene, come esattamente deduce il Comune ricorrente, il quadro normativo vigente distingue lo strumento di comunicazione costituito dalla posta certificata, dall’impiego della firma digitale, che è uno strumento che permette di attribuire la paternità giuridica di un documento al suo autore.
In materia, tuttavia, rileva il Collegio che l’ordinamento contempla a determinate condizioni, la coincidenza e la sovrapposizione di ambedue gli strumenti al fine di collegare un documento al soggetto che lo ha inviato mediante posta elettronica certificata, la quale presuppone e postula che il titolare della relativa casella sia stato previamente identificato e gli siano state rilasciate le credenziali identificatrici, personali ed incedibili.
In tali casi se il gestore del sistema di posta certificata, una volta che il titolare della casella invia mediante essa un documento informatico, attesta che la trasmissione del documento è correttamente avvenuta, ciò sostituisce a tutti gli effetti la firma elettronica del documento inviato.
Invero, l’art. 65 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, recante il testo del codice dell’amministrazione digitale, dispone che “Le istanze e le dichiarazioni presentate per via telematica alle pubbliche amministrazioni e ai gestori dei servizi pubblici ai sensi dell’articolo 38, commi 1 e 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, sono valide: c-bis) ovvero se trasmesse dall’autore mediante la propria casella di posta elettronica certificata purché le relative credenziali di accesso siano state rilasciate previa identificazione del titolare, anche per via telematica secondo modalità definite con regole tecniche adottate ai sensi dell’articolo 71, e ciò sia attestato dal gestore del sistema nel messaggio o in un suo allegato”.
A maggior chiarimento della riportata norma, l’art 61 del D.P.C.M. 22 febbraio 2013, recante regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme elettroniche avanzate, qualificate e digitali
stabilisce che “L’invio tramite posta elettronica certificata di cui all’art. 65, comma 1, lettera c-bis) del Codice, effettuato richiedendo la ricevuta completa di cui all’art. 1, comma 1, lettera i) del decreto 2 novembre 2005, recante «Regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata» sostituisce, nei confronti della pubblica amministrazione, la firma elettronica”.
Il procedimento delineato dalle norma in analisi è stato correttamente eseguito dal Comune di Terzigno, che ha allegato relativamente a tutte e quattro le domande di finanziamento inviate alla Regione mediante p.e.c., i messaggi di ricevuta completa rilasciata dalla Regione stessa. I docc. 12,14,16 e 18 sono infatti le ricevute in questione, attestanti che “l’operazione di invio è stata eseguita con successo”.
Operazione di trasmissione della domanda di contributo e relativa documentazione, che surroga, dunque, a tutti gli effetti, in forza degli artt. 65, comma 1, lett. c-bis) del d.lgs. n. 82/2005 e 61, D.P.C.M. 22.2.2013, la sottoscrizione della domanda mediante firma elettronica.
Illegittimamente quindi la Regione ha ritenuto non sottoscritte le istanze di ammissione al finanziamento che sono state conseguentemente giudicate irricevibili.
3. A conferma, inoltre, di quanto delibato in sede cautelare, va anche rimarcato che l’eventuale mancata sottoscrizione del modulo di domanda da parte del legale rappresentante del Comune è idoneamente surrogata anche dalla sottoscrizione dal medesimo soggetto (Vicesindaco) apposta sulle quattro note, denominate “istanza di finanziamento”, con le quali l’Ente ricorrente trasmetteva, oltre al formulario di presentazione della domanda, il progetto esecutivo e ben 7 documenti ad esso allegati, tutti regolarmente sottoscritti dal legale rappresentante dell’Ente.
Ebbene, non è chi non veda che tutte le firme, apposte su otto documenti per ciascuna delle 4 domande di contributo, per un totale di 32 sottoscrizioni, sono più che idonee ad attribuire la paternità delle istanze al Comune di Terzigno.
Dal che un ulteriore profilo di illegittimità degli impugnati provvedimenti, che vanno pertanto, in accoglimento del ricorso in scrutinio, annullati.
Le spese seguono l’ordinario criterio della soccombenza, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla i quattro decreti regionali impugnati.
Condanna la Regione Campania a pagare al Comune i Terzigno le spese di lite, che liquida in € 1.500,00 oltre accessori di legge e rimborso del contributo unificato.
Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.