Giuseppe Catapano osserva: Quello che tutti vogliono ma che nessuno fa

Expo alle porte. Nuove regole di etichettatura dei cibi. Stile di vita dell’“homo oeconomicus”.

La situazione è la solita: una generale inconsapevolezza, condita da molto disinteresse, poca attenzione, ma – come al solito – tante lamentele.

Stiamo parlando di cibo, ossia di una “religione” tutta italiana, con molti adepti e ancor più (presunti) sacerdoti. La buona cucina è anche il nostro prodotto di punta, il nostro marchio. Nonché talvolta l’oggetto di stereotipi e classificazioni un po’ fuori dal tempo.

Stiamo parlando anche di salute. Perché la salute è una delle cose più importanti nella vita di una persona e le nuove tendenze sono orientate – fortunatamente – più a prevenire, che a curare. Ciò sebbene le cd. “malattie del benessere” siano in aumento e vadano di pari passo a modernità (leggi: nuove comodità), benessere sociale (leggi: ricchezza e nuove tecnologie), crisi (leggi: risparmio).

La salute, è ormai noto, dipende molto dallo stile di vita. E lo stile di vita è la vita di tutti i giorni. Cosa mangiamo, cosa facciamo, cosa pensiamo. E fin qui, quantità. Ma esiste anche – e spesso ce ne scordiamo – la qualità: come mangiamo, come facciamo le cose, come la pensiamo. E questo è il fulcro della questione.

Spesso ce ne stiamo distrattamente stravaccati su un comodo divano di diritti, imbabolati a guardare gli specchietti per le allodole, col cervello spento. Poi quando udiamo cose che non vorremo sentirci dire, cambiamo canale. E quando non troviamo il telecomando dei diritti, perché dimenticato con disinteresse da qualche parte, ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale la scelta e di quanto ci può mancare. E se la parabola delle regole non va, ci sentiamo perduti e iniziamo a starnazzare al call center della giustizia, rivendicando questo o quel diritto.

Io, io, io. Mio, mio, mio. Voglio, voglio, voglio. Posso, posso, posso.

Il “devo” sta lentamente scomparendo, per andare a far compagnia al congiuntivo, alle buone maniere… e a una vita salutare.

Il diritto alla salute è codificato nella costituzione (art.32), nel senso di sanità. Ma più o meno vagamente identificato con un diritto al benessere. Poi tante carte dei diritti inalienabili qui, dichiarazioni dei principi fondamentali là. Ma non sta scritto da nessuno parte che l’alimentazione è un diritto fondamentale. Eppure è uno dei pochi, essenziali, presupposti per la vita.

Ma cos’è l’alimentazione?

Le alghe liofilizzate e le polveri proteiche di cui si nutrono gli astronauti sono “alimentazione”, certo. Come lo è il cibo spazzatura pieno di conservanti, coloranti, antiossidanti e tante altre – troppe – cose artificiali messeci dentro.

No. Il diritto all’alimentazione non è un mero diritto a nutrirsi, solo per sopravvivere. Dovrebbe essere un reale diritto a mangiare cibi naturali e sani. Ma non esiste neppure un vero e proprio diritto al cibo. Esistono – in materia – due tipi di interpretazione delle carte fondamentali: stretta e ampia. La stretta ci dice che che chiunque ha diritto a procurarsi il cibo senza ostacoli da parte di terzi. L’ampia vorrebbe ravvisare un diritto a che lo Stato (ossia la collettività) provveda quando una persona non sia in grado di procurarselo. Ma nella realtà del Diritto, non esiste nulla di tutto ciò. Poi c’è la Carta di Milano, che si ripromette di sottoporre all’ONU la tematica in parola.

Nessuno però parla della qualità del cibo.

Sì, certo, c’è il Bio. Ma il Bio (o “Organic”, come viene chiamato all’estero), non è per forza non trattato. Sono ammesse deroghe. Il vero Bio era quello che mangiavano i nostri nonni …ed era a km zero, era fast ed era food (più buono e veloce di un pomodoro appena colto è difficile).

Ma il fatto è che non è solo il modo in cui viene coltivato o allevato il cibo. È tutto l’insieme. Guardiamoci attorno ed iniziamo ad aprire gli occhi: ogni singola persona, ogni giorno, avvelena il luogo dove vive ed avvelena se stessa.

Non si può vivere come San Francesco, è vero, e non si può vivere fuori dal mondo. Ma un po’ di consapevolezza non farebbe male. Ancora una volta è inutile puntare il dito verso le aziende, perché inquinano, i petrolieri, perché bloccano l’avvento delle auto elettriche, le mafie perché sotterrano i rifiuti tossici. I cattivi non sono (solo) sempre gli altri.

Le aziende, i petrolieri, persino le mafie, inquinano per noi: ogni singolo capo di vestiario che indossiamo costa migliaia di litri d’acqua e cicli e cicli di lavorazione chimica, con i relativi residui. I prodotti che usiamo (detersivi, detergenti, trucchi ecc.) costano tonnellate di scarti chimici, di immissioni aeree. Avete mai letto le etichette del contenuto dei deodoranti?! ..sveliamo un mistico segreto: la pelle assorbe.

Le acque grigie (ossia lo scarto di quando laviamo i piatti, facciamo il bucato e laviamo noi stessi), sono scarti chimici. E non svaniscono quando scendono nel lavandino. Dove pensate che vadano a finire?!

Quando buttiamo il sale per le strade per evitare che si formi il ghiaccio, dove pensate finisca?! …e pensare che i romani lo usarono simbolicamente per non far crescere più nulla, quando rasero al suolo Cartagine. Un litro d’olio dei nostri fritti, buttato nel lavandino o nel wc, contamina circa un milione di litri d’acqua. Un milione! È la quantità d’acqua consumata in media da una persona occidentale (e ne consuma tanta una persona occidentale) in 14 anni.

Quando non abbiamo voglia di fare la raccolta differenziata, quando buttiamo le pile distrattamente nell’indifferenziata, quando gettiamo un mozzicone, una gomma da masticare, una cartaccia per terra, avveleniamo il terreno nel quale coltiviamo il nostro cibo (di qualità).

Il terreno nel quale pascolano gli animali che alleviamo. E ciò se va bene. Perché se no vengono nutriti forzosamente negli allevamenti intensivi (buttare un occhio su Youtube per capire cos’è un allevamento intensivo), con farine animali (ad esempio di pesce cd. spazzatura: ossia il pescato non commerciabile. Che poi è fondamentalmente l’abc delle nostre faune protette). Animali che comunque vengono bombardati di vaccini, antibiotici, ormoni e chi più ne ha (e ne hanno, fidatevi), ne metta (e ce ne mettono, fidatevi).

Ci piace la carne in scatola, bella rossa. Peccato che quando facciamo il bollito in casa è marrone. Ma un po’ di conservanti, di coloranti, di accrescitivi di sapidità, di antiossidanti, di ormoni, di metalli pesanti, cosa saranno mai!? Manco mettessero benzina nei nostri cibi …già: come l’olio di palma (presente ovunque), che viene usato anche come carburante e a cui coltivazione è alla base della deforestazione amazzonica. A proposito di deforestazione: sul nostro territorio – e non abbiamo l’estensione della Russia –, ogni anno costruiamo una nuova Milano. Ogni metro quadrato cementificato, è un metro quadrato in meno di San Marzano, vitigno autoctono, ulivi e tanto altro.

Suvvia, tutta questa moda del naturale: non si può può vivere da malati per morire da sani! Che poi i morti non si decompongono nemmeno più per quanti conservanti mangiamo. Hai voglia a parlare di miracoli. Esiste un filmato in rete, che mostra un hamburger di una famosa catena, aperto dopo anni (anni!!!): è ancora intonso. Lo è sì, ma solo alla vista. Ed è quello che accade col cibo che ingeriamo tutti i giorni.

Ma l’importante è spendere poco, mangiare qualcosa di gustoso, bello, pronto e veloce, avere tante comodità, non fare sforzi e non porsi problemi troppo grandi. Tanto “lo fanno tutti”.

Gli antichi dicevano che siamo ciò che mangiamo. Speriamo avessero torto.

…ma comunque c’è il Bio che ci salva, no!? E chi è che salva il Bio?

La verità è che la libertà è scelta consapevole e la consapevolezza deriva dall’educazione e dalla cultura, così come i diritti derivano dal sacrificio di ognuno e dall’etica del rispetto, dell’adempiere ai propri doveri.

Poi certo, potremo anche forse distruggere il mondo (che, a proposito, significa “pulito”), ma tanto quando c’è la salute c’è tutto…

Giuseppe Catapano: Così si contesta la cartella Equitalia notificata con PEC

La notifica della cartella di Equitalia effettuata con posta elettronica certificata (PEC) doveva togliere ogni possibilità di impugnazioni per vizi formali da parte dei contribuenti? E invece non sarà così. Perché anche la comunicazione con l’email certificata ha i suoi lati deboli e si presta ai consueti escamotages. La notizia viene dalla Commissione Tributaria di Grosseto che, con un recente provvedimento, ha accolto il ricorso di un contribuente.

Il processo telematico non è infallibile anche quando, dall’altro lato, c’è l’agente per la riscossione. E questo perché se Equitalia non riesce a dimostrare che l’originale della cartella esattoriale, per come prodotta in giudizio davanti al giudice, corrisponde perfettamente al messaggio a suo tempo inviato con Pec al contribuente, la notifica si considera nulla.

Il contribuente ha gioco facile se contesta la regolarità della notifica. Infatti, in tal modo, egli scarica la prova contraria sulla controparte. Per cui sarà l’agente della riscossione a dover necessariamente dimostrare che, invece, la comunicazione è avvenuta correttamente. E, a tal fine, dovrà, oltre che produrre i documenti in causa, provare la conformità fra la copia cartacea della cartella depositata in giudizio e l’asserita copia digitale dell’atto spedita telematicamente. Non potrà invece limitarsi a depositare una comunicazione interna in cui si afferma che il messaggio originale è incluso in allegato e spiega come fare per aprirlo.

Insomma, l’Agente per la riscossione deve documentare la corrispondenza fra il messaggio originale e quello trasmesso via Pec: se non assolve all’onere probatorio deve rinunciare alla pretesa riscossione.

Inoltre anche la cartella telematica deve essere redatta in conformità al modello ministeriale: non può quindi essere un estratto o avere una forma diversa solo perché il mezzo di comunicazione prescelto è l’email. L’atto deve essere identico a quello che sarebbe stato inviato in formato cartaceo.

Giuseppe Catapano scrive: Condanna alle spese processuali anche in caso di vittoria parziale

L’accoglimento parziale della domanda processuale non giustifica la condanna alle spese processuali. Lo ha detto la Cassazione in una recente sentenza.

Importantissimo il chiarimento della Suprema Corte che ha trovato, nella pronuncia in commento, l’occasione per sottolineare la distinzione tra:

– accoglimento parziale della domanda processuale: si ha quando il convenuto si limita a difendersi dalla pretesa dell’attore perché la ritiene eccessiva o solo in parte fondata. In questo caso, se il giudice accoglie solo in parte la domanda dell’istante non ricorre una ipotesi di “soccombenza reciproca”;

– soccombenza reciproca: si ha in caso di una pluralità di pretese contrapposte, presentate da entrambe le parti, l’una rivolta contro l’altra in modo reciproco. In pratica, ricorre tale ipotesi quando il giudice rigetta una parte delle domande di un soggetto e, contemporaneamente, anche una parte delle domande dell’altro soggetto.

Ebbene, solo nel caso di soccombenza reciproca (seconda ipotesi) si può avere la compensazione delle spese legali (secondo, cioè, la logica per cui ognuno paga il proprio avvocato).
Invece, l’accoglimento non integrale della domanda (prima ipotesi) può invece portare a una vittoria totale sul fronte delle spese processuali, salvo che si sia violato il dovere di lealtà e probità in processo.

Dunque, ai fini della condanna alle spese processuali, l’accoglimento parziale della domanda è cosa ben diversa dalla soccombenza reciproca e solo quest’ultima può portare alla compensazione delle spese, mentre nel primo caso si può arrivare a una condanna a pagare l’avvocato in favore della parte che si è vista accogliere solo in parte le proprie richieste.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 19 febbraio – 3 aprile 2015, n. 6860
Presidente Ceccherini – Relatore Lamorgese
Svolgimento del processo
Equitalia ha proposto opposizione allo stato passivo del Fallimento M.A. che escludeva il privilegio dei crediti ammessi. I1 Tribunale, in data 3 ottobre 2008, ha ammesso il privilegio solo per una parte dei crediti e ha condannato Equitalia a pagare la metà delle spese processuali in favore del Fallimento, compensandole nel resto.
Equitalia ricorre per cassazione sulla base di un motivo illustrato da memoria. La Curatela del Fallimento, cui il ricorso è stato notificato, non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Nell’unico motivo di ricorso, Equitalia denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per essere stata condannata alle spese processuali, per la metà, in favore della controparte, pur essendo stata accolta la sua originaria domanda, seppure parzialmente.
Il Tribunale, con statuizione non censurata in questa sede, ha compensato le spese per la metà, ma ha poi condannato la parte vittoriosa, seppur parzialmente, al pagamento della restante metà delle spese in favore dell’altra parte (che era comunque soccombente).
Il ricorso è fondato, essendo stato violato il principio secondo cui la parte che, all’esito finale della lite risulti vittoriosa per effetto dell’accoglimento anche non integrale della sua domanda, non può subire la condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte soccombente, salva l’ipotesi della trasgressione al dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. (Cass. n. 1743/1996, n. 2653/1994, n. 2493/1986). il Tribunale avrebbe potuto compensare integralmente le spese ma, avendole compensate in parte, avrebbe dovuto porre a carico del Fallimento soccombente le spese di Equitalia la cui domanda era stata parzialmente accolta. La condanna di Equitalia a pagare parte delle spese in favore dell’altra parte non trova giustificazione nel principio della soccombenza reciproca che non è ravvisabile nel caso di riduzione anche sensibile della somma richiesta con la domanda giudiziale, poiché il suddetto principio sottende una pluralità di pretese contrapposte, rigettate dal giudice a svantaggio di entrambi gli istanti, mentre la resistenza del convenuto alla pretesa attorea perché eccessiva o comunque solo in parte fondata, anche quando trova successo nella statuizione del giudice che accolga
solo in parte la domanda, non per questo si trasforma in pretesa (riconvenzionale) rispetto alla quale sia ravvisabile nell’attore una posizione di reciproca soccombenza (Cass. n. 12629/2006, n. 2124/1994).
In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata è cassata e, decidendo nel merito, la Curatela è condannata a corrispondere ad Equitalia la restante parte delle spese del giudizio di merito (ferma la compensazione per la restante metà), nonché per intero alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida le spese di Equitalia relative al giudizio di merito in complessivi P­2350,00, oltre accessori, che pone per la metà a carico del Fallimento M.A., compensate nella restante metà; condanna il Fallimento alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in £ 1500,00, di cui £ 1300,00 per compensi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Giuseppe Catapano informa: Se l’atto di pignoramento non indica la quota del debitore

L’atto di pignoramento deve sempre indicare i beni del debitore che vengono sottoposti ad esecuzione forzata. Così, allo stesso modo, nel caso in cui il soggetto esecutato sia titolare solo di una quota del bene da espropriare, il pignoramento dovrà indicare con esattezza la suddetta quota di proprietà del debitore. Ebbene, che succede se il creditore dimentica di indicare tale dato? L’atto si considera nullo?

La risposta è stata fornita da una recente sentenza della Cassazione. Secondo la Corte, quando il pignoramento ha ad oggetto beni appartenenti solo in quota all’esecutato, l’atto che non indichi la misura di tale quota è ugualmente valido a condizione che essa si possa ricavare, comunque, con chiarezza, dalla nota di trascrizione. Infatti, se la reciproca interazione tra l’atto di pignoramento e la nota consente di escludere ogni incertezza sull’identificazione del bene sottoposto a esecuzione forzata, il debitore non può opporsi e chiedere la nullità dell’atto di pignoramento.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 15 dicembre 2014 – 3 aprile 2015, n. 6833
Presidente Salmè – Relatore De Stefano
Svolgimento del processo
1. – L’espropriazione immobiliare iscr. al n. 178/04 r.g.e. del tribunale di Santa Maria Capua Vetere – intentata da D.L.P. e D.N.C. in base a sentenza di condanna, emessa nei confronti di M.A. e confermata in appello, al pagamento di Euro 18.850,68 (oltre interessi legali dal 9.1.92) e di successivo precetto di pagamento di Euro 41.411,89 – fu dal g.e. dichiarata improseguibile, con ordinanza dep. il 29.1.09, per due ragioni: perché la debitrice era titolare anche (oltre alla metà di indiscussa sua proprietà) di una quota di 3/18 del bene staggito, pervenutale per successione mortis causa, riguardo alla quale non v’era prova di accettazione dell’eredità; e perché nell’atto di pignoramento non era indicata alcuna quota della comproprietà della debitrice, nonostante essa fosse indicata nella nota di trascrizione in 12/18.
Seguì, anche nei confronti della interventrice Equitalia Polis spa, opposizione agli atti esecutivi dispiegata – con ricorso dep. il 26.3.09 -dai creditori: ma questa, costituitasi l’esecutata e neppure in tale sede contestata la propria qualità di erede, fu rigettata dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza n. 2532 del 9.9.11.
Per la cassazione di quest’ultima, ricorrono oggi, affidandosi ad un complesso motivo su più profili, D.L.P. e D.N.C. , mentre delle intimate resiste con controricorso la sola M. : la quale, per la pubblica udienza del 15.12.14, deposita altresì memoria, in uno a documentazione sul dispiegamento di un giudizio da parte dei ricorrenti nei suoi confronti successivamente alla pronunzia della gravata sentenza.
Motivi della decisione
2. – La controversia ha ad oggetto almeno due questioni:
– la ritualità di un atto di pignoramento immobiliare privo – a differenza della nota della sua trascrizione – dell’indicazione dell’esatta quota di proprietà, in capo al debitore, del bene staggito;
– le modalità di aggressione esecutiva di un bene, appartenente già in quota al debitore, una ulteriore quota del quale è pervenuto a lui iure hereditatis.
2.1. Le rationes decidendi della gravata sentenza di rigetto della dispiegata opposizione avverso l’ordinanza di improseguibilità della procedura esecutiva immobiliare sono almeno due:
– sussistenza di un vizio del pignoramento per carenza di indicazione della quota pignorata, vizio non sanabile con la nota di trascrizione, a sua volta nulla per difformità dai titolo trascritto e perché la quota effettivamente di pertinenza della debitrice (9/18) non era neppure quella indicata nella nota (12/18);
– mancanza di prova di valida accettazione di eredità, da parte dell’esecutata, della quota di 3/12 del bene, a lei pervenuta per successione ereditaria legittima del marito.
2.2. I ricorrenti formulano un unitario motivo, dalla seguente rubrica: “Violazione di legge. Omessa e/o erronea interpretazione delle norme. Omessa e/o erronea applicazione della legge ai fatti di causa, dedotti e provati. Omessa e/o erronea interpretazione dei fatti, del comportamento delle parti e dei documenti allegati. Violazione di legge per erroneità, carenza, contraddittorietà ed illogicità della pronuncia di rigetto dell’opposizione”.
Nonostante il carattere unitario della formulazione del motivo, tuttavia, essi contestano partitamente – e quindi in modo complessivamente idoneo – le rationes decidendi suddette, evidenziando, poi, con separate titolazioni almeno tre ordini di argomentazioni:
– che “il giudice di prime cure ha rigettato la proposta opposizione ritenendo nulla la trascrizione, ex art. 2665 c.c., per difformità dei dati tra l’atto di pignoramento e la nota di trascrizione”;
– che “il giudice ha considerato nullo l’atto di pignoramento poiché in esso non era stata indicata l’esatta quota di comproprietà oggetto di pignoramento, non bastando che questa specificazione fosse stata effettuata nella nota di trascrizione;
– che “il giudice ha rigettato l’opposizione ritenendo non provata la qualità di proprietaria di soli 3/18 rispetto ai 12/18 pignorati, benché sui 9/18 non sorgesse alcun dubbio di titolarità in capo alla debitrice, per essere il bene stato acquistato in regime di comunione ordinaria nel 1960 dalla stessa debitrice assieme al marito, deceduto nel 1999 (rispetto al quale, per l’appunto, sarebbero stati in discussione 3/18 caduti in successione)”: pure in quel contesto dolendosi della mancata valorizzazione, ad opera del giudice dell’esecuzione prima e dell’opposizione poi, di elementi atti a concretare l’accettazione tacita ed assicurare la continuità delle trascrizioni.
2.3. Dal canto suo, la controricorrente, nel controricorso, condivide le argomentazioni della gravata sentenza:
– in punto di incertezza della titolarità, in capo alla debitrice, della qualità di proprietaria, con serio conseguente rischio di non continuità delle trascrizioni immobiliari quale effetto della prosecuzione dell’esecuzione immobiliare: e tanto per essere i beni pignorati caduti in successione ereditaria e per mancare la prova di un valido titolo di acquisto trascritto in favore dell’esecutata;
– in punto di nullità del pignoramento per mancata indicazione, nel medesimo, della quota pignorata in danno dell’esecutata, in difformità dalla nota di trascrizione, nella quale invece essa era indicata nei 12/18, con conseguente nullità della trascrizione anche ai sensi dell’art. 2665 cod. civ.; e sostenendo comunque l’erroneità della nota, essendo tre dei dodici diciottesimi ivi indicati a lei pervenuti solo per successione ereditaria, ma senza alcuna prova di accettazione dell’eredità.
2.4. La stessa controricorrente, con la memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., suffragata da documentazione, sostiene poi il venir meno dell’interesse dei ricorrenti alla pronunzia sul ricorso, dipendente dal dispiegamento – in tempo successivo alla sentenza gravata – di una actio interrogatoria volta a conseguire la fissazione di un termine all’odierna intimata per accettare l’eredità.
3. – Per l’evidente priorità logica, va esaminata dapprima la questione proposta per ultima.
3.1. In disparte i seri dubbi sulla ritualità della produzione della documentazione in uno alla memoria depositata in prossimità dell’udienza di discussione, riguardo alla quale non consta il rispetto dell’art. 372 cod. proc. civ., il dispiegamento di una mera actio interrogatoria per l’interpello dei chiamati all’eredità in ordine all’accettazione di quella del loro dante causa non rileva ai fini della complessa problematica delle modalità di aggressione esecutiva di un bene che si assume pervenuto all’esecutato iure hereditatis.
3.2. Sul punto, assai di recente (Cass. 26 maggio 2014, n. 11638) questa Corte è intervenuta in materia, concludendo che, in materia di espropriazione immobiliare, qualora sia sottoposto a pignoramento un diritto reale su un bene immobile di provenienza ereditaria e l’accettazione dell’eredità non sia stata trascritta a cura dell’erede – debitore esecutato, si prospetta questa alternativa:
– se il chiamato all’eredità ha compiuto uno degli atti che comportano accettazione tacita dell’eredità, il creditore procedente può richiedere, a sua cura e spese, la trascrizione sulla base di quell’atto, qualora esso risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata od accertata giudizialmente, anche dopo la trascrizione del pignoramento, ripristinando così la continuità delle trascrizioni ai sensi e per gli effetti dell’art. 2650, co. 2, cod. civ., purché prima dell’autorizzazione alla vendita ai sensi dell’art. 569, cod. proc. civ.;
– se, invece, il chiamato all’eredità ha compiuto uno degli atti che comportano accettazione tacita dell’eredità ma questo non sia trascrivibile, perché non risulta da sentenza, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, ovvero se si assume che l’acquisto della qualità di erede sia seguito ex lege ai fatti di cui agli artt. 485 o 527 cod. civ., non risultando questo acquisto dai pubblici registri, la vendita coattiva del bene pignorato ai danni del chiamato presuppone che la qualità di erede del debitore esecutato sia accertata con sentenza; anche in tal caso dovendo reputarsi possibile che tanto intervenga pure dopo il pignoramento, ma prima della vendita.
3.3. Può bastare in questa sede un integrale richiamo all’ampia ed esaustiva motivazione della richiamata pronunzia di questa Corte, che il Collegio condivide in toto, per rilevare – da un lato – come l’actio interrogatoria non è – se non altro, di per sé sola – la specifica azione di accertamento dell’avvenuta accettazione, anche tacita, dell’eredità e – dall’altro lato – come gli sviluppi dell’azione ordinaria in concreto intentata dagli odierni ricorrenti e secondo le conclusioni da loro formulate possano condurre proprio, in armonia con la ricostruzione operata da Cass. 11638/14, a quell’accertamento di intervenuto subentro, senza soluzione di continuità, del chiamato nella posizione di erede e quindi nella titolarità del bene, accertamento reputato possibile appunto fino a prima della vendita.
3.4. Pertanto, va escluso che i creditori, con quella, abbiano visto venir meno il loro interesse alla pronunzia avverso la declaratoria di chiusura anticipata del processo esecutivo, adottata – per quanto si verrà a rilevare – in difformità dai principi espressi dalla richiamata Cass. 11638/14; e va escluso pure che essi siano incorsi in condotte processuali incompatibili con il dispiegamento del presente ricorso: avendo essi comunque dispiegato attività volta, se non altro nelle loro intenzioni e impregiudicato l’esame dell’idoneità degli effetti con quella conseguibili e della loro tempestività rispetto all’eventuale riattivazione della procedura, a superare la situazione di incertezza sull’avvenuta accettazione dell’eredità, cioè a proseguire proprio nell’esecuzione, in conformità con le indicazioni di questa Corte.
4. – Va ora esaminata la prima questione, relativa alla nullità del pignoramento per mancata indicazione, in esso, dell’esatta quota pignorata: al riguardo dovendo escludersi che la stessa potesse, nella concreta fattispecie in esame, essere dichiarata.
4.1. È ben vero che anche di recente questa Corte (Cass. 26 agosto 2014, n. 18249) ha ribadito come l’atto di pignoramento sia invalido se dal suo complesso, nonostante non rilevi più ex se l’indicazione di tre confini, non si escluda l’assoluta incertezza sul bene che ne è oggetto (cfr., tra le più recenti, Cass., ord. 31 gennaio 2014, n. 2110).
È infatti elemento essenziale per la stessa funzionalità del processo esecutivo che il bene sia compiutamente e con certezza identificato fin dal pignoramento, al fine di garantirne la successiva circolazione – che si fonda sulla sua descrizione come operata appunto con l’atto iniziale della procedura espropriativa – come connaturata alle finalità del processo esecutivo (sulla problematica v., di recente, le generali considerazioni riassuntive di Cass. 8 febbraio 2013, n. 3075, ovvero di Cass. 7 novembre 2013, n. 25055; sul ruolo viepiù rilevante del dato identificativo catastale, v. pure Cass. 21 maggio 2014, n. 11272).
Ed è anche vero che il creditore non può pretendere di rimettere a successivi interventi, perfino ufficiosi, la specificazione dell’oggetto dell’azione esecutiva, specificazione che incombeva invece esclusivamente a lui, a cui favore era concessa la facoltà di aggredire l’altrui patrimonio, fin dal momento in cui si era indotto ad avvalersene.
Tanto si risolverebbe nella sollecitazione di veri e propri poteri esplorativi, sempre vietati – se non altro nell’attuale assetto ordinamentale, per essere invece ammessi solamente nella fase di individuazione dell’oggetto delle future espropriazioni, ai sensi dei commi quarto e seguenti dell’art. 492 cod. proc. civ. e, ora dell’art. 492-bis cod.proc. civ. (e degli artt. 155-bis e seguenti disp. att. cod. proc. civ., tutti come introdotti dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modif. in I. 10 novembre 2014, n. 162) – nel processo esecutivo già iniziato.
4.2. E tuttavia l’assoluta peculiarità del caso di specie sta in ciò, che la sicuramente sussistente lacuna del pignoramento, riferita all’esatta quota di pertinenza della debitrice esecutata, è stata colmata non già con una successiva distinta attività – e tanto meno ufficiosa – ma con quella, pressoché logicamente contestuale, della trascrizione della relativa nota, ove il vizio era emendato.
Per il principio di conservazione degli atti del processo (che può forse oggi ricondursi a quello più generale di economia processuale e, secondo attenta tesi ermeneutica, alla regola del giusto processo in tempi ragionevoli di cui al nuovo art. 111 Cost.), di certo applicabile anche a quello esecutivo, non può allora condividersi, perché basata su di una considerazione atomistica degli elementi del processo, se non eccessivamente rigorosa o formalistica, la conclusione del giudice del merito sull’irrilevanza della completezza della nota di trascrizione rispetto al viziato atto che ne era l’oggetto, soprattutto se si considera l’assolvimento delle rispettive funzioni in dipendenza della loro considerazione come un atto complesso o comunque quali atti tra loro interattivi e in grado di influire in modo reciproco o bidirezionale.
4.3. Non è questa la sede per affrontare ex professo la questione, assai dibattuta tra gli interpreti, sul ruolo della nota di trascrizione nella struttura del pignoramento immobiliare: basti qui ricordare che essa ha la fondamentale funzione di rendere opponibili ai terzi, a tutela della funzionalità dell’intera procedura e dell’efficacia dei suoi atti anche a tutela dell’aggiudicatario, i dati contenuti nel pignoramento.
Se tanto è vero, però, la nullità dell’atto di pignoramento, pure sussistente e dovuta alla carenza di indicazione della quota di spettanza del debitore comproprietario del bene staggito, non può non dirsi sanata se, come è accaduto nella specie:
– il debitore ha avuto piena contezza della stessa estensione del pignoramento, tanto da difendersi nel merito dalla tesi della aggredibilità del bene in ragione di 12/18;
– ogni eventuale terzo non è stato, nemmeno potenzialmente, indotto in errore su quale quota reclamassero di vendere i creditori procedenti, avendola la nota di trascrizione chiaramente indicata appunto in 12/18.
4.4. In altre parole, sia l’atto di pignoramento che la sua nota di trascrizione, considerati in modo unitario o complesso in ragione della complementarietà dei pur diversi destinatari e funzioni, hanno adempiuto queste ultime, sia pure reciprocamente integrandosi o interagendo.
Va così esclusa, applicando il generalissimo principio di cui al terzo comma dell’art. 156 cod. proc. civ., la pronunzia della nullità – pur in origine sussistente – dell’atto di pignoramento; e tanto in applicazione del seguente principio di diritto: in caso di pignoramento di beni appartenenti solo in quota all’esecutato, ove nel relativo atto non sia indicata la misura di quest’ultima, ma essa si ricavi con chiarezza dalla nota di trascrizione, la reciproca interazione tra i due atti consente di escludere ogni incertezza sull’identificazione del diritto assoggettato ad esecuzione; sicché non può essere dichiarata la nullità dell’atto di pignoramento in dipendenza della sua pure sussistente lacuna originaria.
5. – Rimangono allora da scrutinare le questioni relative alla ritualità della soggezione ad espropriazione di una quota – pari, nella specie, ai 3/18, quale quota dell’originario 50% facente capo al comproprietario poi defunto – del bene che potrebbe essere pervenuta alla debitrice per successione ereditaria, in relazione agli effetti di tanto su di una procedura esecutiva avente ad oggetto comunque un’ulteriore quota (della metà, cioè di 9/18) di indiscussa appartenenza alla debitrice.
5.1. La gravata sentenza esclude che, in difetto di valida trascrizione dell’acquisto mortis causa, possa essere autorizzata la vendita del bene che ne sarebbe oggetto.
Invero, essa parte da un presupposto corretto: essa (icasticamente premettendo, anche con enfasi grafica, che “per espropriare occorre indubbiamente che il bene sia di proprietà dell’esecutato”) ha bene applicato il principio di diritto per il quale spetta al giudice dell’esecuzione verificare, d’ufficio, la titolarità, in capo al debitore esecutato, del diritto reale pignorato sul bene immobile, mediante l’esame della documentazione depositata dal creditore procedente ovvero integrata per ordine dello stesso giudice ai sensi dell’art. 567 cod. proc. civ., dalla quale deve risultare la trascrizione di un titolo di acquisto in suo favore (Cass. 11638/14, cit.).
Le conclusioni in punto di improseguibilità od arresto definitivo o chiusura anticipata della vendita non possono però ritenersi corrette, alla stregua di quanto argomentato dalla sopravvenuta e qui già ricordata Cass. 26 maggio 2014, n. 11638.
5.2. Le conclusioni di quest’ultima pronunzia sono già state rammentate sopra, al punto 3.2: ed a sostegno e condivisione di quelle va reputato idoneo e sufficiente l’integrale richiamo alla relativa ampia ed esaustiva motivazione ivi sviluppata.
In entrambi i casi alternativi individuati (facoltà, per il creditore, di chiedere la trascrizione di uno degli atti che comportano accettazione tacita dell’eredità, ove esistenti; al contrario, facoltà, per il creditore, di agire per fare accertare l’intervenuta accettazione), va escluso però che possa dichiararsi improseguibile – oltretutto definitivamente, con il suo arresto o chiusura anticipati ed irreversibili – una procedura esecutiva immobiliare prima che la stessa pervenga alla vendita, dovendo solo in questo momento verificarsi se il creditore abbia o meno colmato le lacune di trascrizione evidenziate come ostative all’utile sviluppo di quella.
Tale conclusione – dalla quale non si vede motivo di discostarsi – va applicata anche alla fattispecie, sicché non correttamente la gravata sentenza ha ritenuto bene pronunziata l’improseguibilità della procedura prima della vendita per persistente carenza di prova sull’accettazione anche solo tacita di una quota del bene staggito da parte dell’esecutato.
6. – Peraltro, neppure è corretta la declaratoria di improseguibilità dell’intera procedura, attesi, ancora una volta, i caratteri assai peculiari della fattispecie.
6.1. Invero, è stato da questa Corte affermato il principio in base al quale non è invalido il pignoramento che colpisca, in luogo del diritto di cui effettivamente è titolare il debitore esecutato, un diritto di contenuto od estensione maggiore, producendosi in tal caso il solo effetto di ridurre o limitare il pignoramento stesso, ipso iure e del tutto idoneamente, al primo diritto (Cass. 14 marzo 2013, n. 6576, relativa al caso di pignoramento della piena proprietà in luogo della sola spettante proprietà superficiaria).
È ben vero, infatti, che l’oggettiva non titolarità in capo al debitore non potrebbe mai utilmente consentire l’assoggettamento a procedura esecutiva di quella porzione di diritto che al debitore non faccia capo; e tuttavia non si ha ragione di negare l’efficacia propria del pignoramento almeno per il minor diritto a lui spettante, alla duplice condizione:
– che con quell’atto di impulso del processo esecutivo non si tenda a dar luogo a diritti prima ontologicamente inesistenti, ovvero a costituirne di nuovi, sul bene oggetto di pignoramento;
– che il creditore non annetta espressamente carattere di inscindibilità al diritto da lui reso oggetto di pignoramento e quindi di indispensabilità alla soggezione alla procedura proprio di quello come da lui erroneamente individuato, tanto da insistere esclusivamente per la vendita di quest’ultimo e non di altro o minore.
In altri termini, il pignoramento c.d. in eccesso vitiatur sed non vitiat, perché è sufficiente, anche in questo caso per il principio di conservazione degli atti giuridici e soprattutto di quelli processuali, già richiamato, limitarne l’estensione e gli effetti al diritto, minore di quello ivi descritto, del quale sia effettivamente titolare il debitore.
6.2. Poiché nella specie i creditori sono ben lungi dall’insistere nel porre in vendita i 12/18 del bene, non solo prefigurando la possibilità di rinunziare alla quota di 3/18 per la quale tuttora mancherebbe prova di accettazione della relativa eredità, ma anche potendo – stando ai principi affermati sopra al paragrafo 5 – colmare tale lacuna con un’idonea attività, la circostanza che il pignoramento abbia colpito una quota del bene indiviso diversa, perché maggiore, da quella di cui risulti sicuro titolare il debitore staggito non può comportare il travolgimento dell’intera procedura, ma, a tutto concedere, di essa solo per la quota riguardo alla quale manca la prova della titolarità in capo all’esecutato.
6.3. Il motivo di ricorso è fondato quindi anche sotto questo profilo, in applicazione del seguente principio di diritto: poiché spetta al giudice dell’esecuzione verificare, d’ufficio ma fino al momento in cui potrebbe essere disposta la vendita, la titolarità, in capo al debitore esecutato, del diritto reale pignorato sul bene immobile, mediante l’esame della documentazione depositata dal creditore procedente ovvero integrata per ordine dello stesso giudice ai sensi dell’art. 567 cod. proc. civ., dalla quale deve risultare la trascrizione di un titolo di acquisto in suo favore, non è corretto estendere al minor diritto effettivamente facente capo al debitore gli effetti dell’eventuale mancanza di verifica della titolarità su di altra quota od estensione del medesimo diritto prospettata nel pignoramento, ove con questo non si possa dar luogo alla costituzione di nuovi diritti sul bene oggetto di pignoramento (e sempre che il creditore non annetta espressamente carattere di inscindibilità al diritto da lui reso oggetto di pignoramento e quindi di indispensabilità alla soggezione alla procedura proprio di quello come da lui erroneamente individuato, tanto da insistere esclusivamente per la vendita di quest’ultimo e non di altro o minore), dovendo la procedura esecutiva limitarsi al diritto od alla sua quota, minore rispetto a quella pignorata, di cui sia effettivamente titolare il debitore.
7. – Il ricorso è pertanto accolto, con cassazione della gravata sentenza che ha respinto l’opposizione all’ordinanza dichiarativa dell’improseguibilità della procedura esecutiva iscr. al n. 178/04 r.g.e. del tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, può decidersi nel merito, con definitivo accoglimento dell’opposizione ed annullamento dell’ordinanza di improseguibilità.
Poiché l’opposizione agli atti esecutivi ha – com’è indiscusso -natura di giudizio meramente rescindente, va rimessa al giudice dell’esecuzione in sede esecutiva, validamente riassunta, la valutazione della sussistenza o meno, al momento in cui sarà disposta la vendita, degli elementi a valida comprova dell’accettazione dell’eredità, da parte della debitrice esecutata, quanto alla quota di 3/18 degli immobili pignorati, con ogni successiva determinazione, non esclusa la limitazione della pronunzia di chiusura anticipata alla sola quota, rispetto al totale pignorato di 12/18, per la quale non vi fosse ancora prova valida di titolarità in capo alla debitrice o non fosse stata spontaneamente prodotta rinunzia da parte dei creditori procedenti.
Tuttavia, quanto alle spese di lite dell’intero giudizio, l’assoluta novità della questione in rapporto alla singolare peculiarità vicenda – nullità del pignoramento ed interazione con la nota di trascrizione, modalità di aggressione esecutiva di beni pervenuti al debitore iure hereditatis, titolarità del debitore su almeno altra e consistente quota dell’immobile – ed alla sopravvenienza di giurisprudenza di legittimità in termini costituisce un giusto motivo di integrale compensazione, anche con riferimento al giudizio di questa Corte regolatrice.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la gravata sentenza; decidendo nel merito, accoglie l’opposizione dispiegata dai creditori procedenti avverso l’ordinanza con cui il g.e. del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha dichiarato improseguibile la procedura esecutiva n. 178/04 r.g.e. e, per l’effetto, la annulla; compensa tra tutte le parti le spese di lite, comprese quelle del giudizio di legittimità.

Catapano Giuseppe comunica: Indennità di accompagnamento: come funziona

L’indennità di accompagnamento è una prestazione economica, pagata dall’Inps a chi, invalido civile al 100%, non è più in grado di deambulare, oppure ha necessità, per le sue esigenze personali, di una assistenza continua. Alla luce di quest’ultima precisazione, quindi, la giurisprudenza ha ritenuto di riconoscere il beneficio in commento anche in caso di malattie psichiche invalidanti, tali cioè da non consentire al malato di attendere alle proprie funzioni quotidiane della vita.

Ecco allora tutto quello che c’è da sapere su questa prestazione assistenziale.

REQUISITI

Il diritto a questa indennità non è condizionato né dall’età del richiedente, né dalla situazione economica personale o dell’eventuale matrimonio. Il diritto alla prestazione scatta, infatti, solo in presenza di uno stato di salute meritevole di questo riconoscimento. Dunque, si prescinde dal reddito e dalla presenza, in casa, del coniuge.

L’indennità, infatti, compete alle persone che abbiano ottenuto dalle commissioni mediche, previste dalla legge, il riconoscimento di una invalidità totale e permanente del 100%, accompagnata dall’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure dall’impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita (mangiare, bere lavarsi) con la conseguente necessità di una assistenza continua (leggi “Indennità di accompagnamento anche per invalidità psichica”).

SOGGETTI

In aggiunta agli invalidi civili totali, l’indennità di accompagnamento spetta anche:

– ai ciechi civili assoluti, per i quali l’importo dell’indennità è maggiorato;
– ai bambini minorenni, incapaci di camminare senza l’aiuto di una persona e bisognosi di una assistenza continua;
– alle persone affette da morbo di Alzheimer e dalla sindrome di down;
– alle persone affette da epilessia, sia a coloro che subiscono attacchi quotidiani, sia a coloro che abbiano di tanto in tanto le cosiddette “crisi di assenza”.

Per ottenere la prestazione è necessario avere la cittadinanza italiana oppure essere un cittadino dell’U.E. residente in Italia. Hanno però diritto all’indennità anche i cittadini extracomunitari presenti in Italia, a condizione, però, che siano titolari della carta di soggiorno o di un permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, e i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno.

L’indennità non è incompatibile con lo svolgimento di una attività lavorativa ed è concessa anche quando l’inabile abbia presentato la domanda per il riconoscimento dopo aver compiuto i 65 anni. In quest’ultima ipotesi, però, il diritto all’indennità è subordinato alla condizione che la persona abbia difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni dell’età: impossibilità alla deambulazione autonoma e mancanza assoluta di autosufficienza.

Non hanno diritto all’indennità di accompagnamento coloro che percepiscono indennità simili per causa di guerra, di lavoro o di servizio, ma è possibile scegliere il sussidio più conveniente.

L’importo dell’indennità di accompagnamento viene erogato in 12 mensilità e viene aggiornato ogni anno dal Ministero dell’Interno.

PROCEDURA

Dal 1° gennaio 2010 l’iter burocratico per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento si è semplificato anche per l’utilizzo delle procedure telematiche. La prima novità ha riguardato il certificato del medico curante, da allegare alla domanda di riconoscimento dell’invalidità: esso non è più cartaceo, ma solo telematico perché va compilato direttamente dal medico online sul sito internet dell’Inps.

Anche la domanda è telematica e va presentata, avvalendosi degli enti di patronato e delle associazioni degli invalidi, via internet direttamente all’Inps.

A questo punto, certificato e domanda si abbinano elettronicamente e sono inviate, sempre via internet, alla ASL dando immediatamente comunicazione all’interessato della data in cui si effettuerà la visita medica, che dovrebbe avvenire, per legge, entro 30 giorni dalla presentazione della domanda per le visite ordinarie ed entro 15 giorni dalla presentazione della domanda in caso di patologia oncologica.

Anche la fase di accertamento sanitario è semplificata perché le commissioni ASL sono integrate da un medico dell’Inps, evitando così, in caso di pareri della commissione formulati a maggioranza, i tempi necessari per il passaggio della domanda alle vecchie commissioni mediche di verifica.

I riconoscimenti dell’invalidità espressi con giudizio unanime da parte delle commissioni ASL danno, infatti, il via immediato alla fase di pagamento della prestazione.

Tutto l’iter deve comunque perfezionarsi entro 120 giorni.

Anche se le loro condizioni fisiche o psichiche sono tali da far nascere potenzialmente il diritto all’indennità di accompagnamento, questa prestazione non può essere riconosciuta a coloro che:

– sono ricoverati gratuitamente in istituto con retta a totale carico dello Stato;

– percepiscono un’analoga indennità per invalidità contratta per causa di guerra, di lavoro o di servizio, salvo il diritto di opzione per il trattamento più favorevole.

Una precisazione in più va data sul ricovero gratuito; con tale termine s’intende il ricovero con retta o mantenimento a totale carico di un ente pubblico, anche se a tale retta si aggiunga una contribuzione da parte di privati per ottenere un migliore trattamento.

Per questo motivo, l’indennità spetta quando il contributo della Pubblica Amministrazione copre solo un parte della retta di ricovero, mentre la differenza viene corrisposta da privati.

Per verificare che questa condizione sia rispettata, una vota ottenuta l’indennità, gli interessati devono ogni anno, entro il 31 marzo, inviare all’Inps una dichiarazione di responsabilità circa l’eventuale ricovero in casa di cura. In caso affermativo è necessario precisare se il ricovero medesimo è a carico dello Stato o a carico dell’invalido.

Catapano Giuseppe scrive: Fisco, ecco i reati tributari che non saranno più puniti

Se hai commesso un reato tributario perché non avevi la possibilità di pagare le tasse o perché il tuo commercialista ha sbagliato qualcosa o se, semplicemente, ti sei dimenticato o hai commesso qualche errore che l’Agenzia delle Entrate non ti ha perdonato, buone notizie in arrivo. Tra i tanti reati che non saranno più puniti per via dell’entrata in vigore del decreto legislativo sull’archiviazione per tenuità del fatto ve ne rientrano alcuni che riguardano le condotte tenute nei confronti del fisco. Si tratta, in particolare, di quei reati tributari per i quali la legge prevede sanzioni rientranti nella nuova forbice di non punibilità: ossia la pena pecuniaria e/o pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni.

Qualcuno potrebbe già storcere il naso. Si parla tanto di combattere l’evasione fiscale, prevedere pene più severe e non consentire margini di scappatoie… e invece il legislatore, da una mano toglie e dall’altra dà. Il “perdono giudiziale” e l’archiviazione del reato, infatti, potrebbe essere – conti alla mano – un incentivo a commettere condotte che, sotto l’aspetto patrimoniale, potrebbero oggi essere più convenienti alla luce delle minime conseguenze penali cui si va incontro.

Ecco, dunque, la lista dei reati che, dal 2 aprile scorso, non sono più soggetti ad alcuna pena pecuniaria o detentiva:

– dichiarazione infedele, punito con la reclusione da uno a tre anni. La legge penale, come noto, punisce chi, al fine di evadere imposte dirette o Iva, indica in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente, l’imposta evasa supera i 50mila euro e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, supera il 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a 2 milioni di euro;

– omessa dichiarazione, punito con la reclusione da uno a tre anni. La legge punisce chi non presenta le dichiarazioni, quando l’imposta evasa supera i 30mila euro;

– occultamento o distruzione di documenti contabili, punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni;

– omesso versamento di ritenute certificate e di Iva, puniti con la reclusione da sei mesi a due anni;

– indebita compensazione, punito con la reclusione da sei mesi a due anni;

– ipotesi non aggravata di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Restano invece esclusi dalla riforma, e quindi per essi continuerà ad applicarsi la regolare punizione, i seguenti reati:

– dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti

– dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

– emissione di fatture per operazioni inesistenti

– sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte nell’ipotesi aggravata.

Giuseppe Catapano informa: Accertamenti dell’Agenzia Entrate illegittimi: i giudici zittiscono il Ministro

Una cosa è certa: nel nostro Paese, ai giudici non piace che qualcuno dica loro come comportarsi. E, nel bene o nel male, questa è stata sempre la forza della magistratura. Che poi ciò trovi supporto nella Costituzione o sia solo il frutto di un orgoglio di categoria, che non ama privilegi (superiori ai propri), non ci interessa in questa sede: perché ora a pagare le spese di questa ineludibile considerazione potrebbe essere il fisco, a tutto vantaggio dei contribuenti.

Riprendiamo il discorso degli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, fatti in tutti questi anni e firmati da dirigenti che, in realtà, non erano dirigenti perché retroattivamente dichiarati decaduti, qualche settimana fa, dalla sentenza della Corte Costituzionale.

Dopo le esternazioni del Ministro dell’Economia e della Orlandi (direttrice dell’Agenzia delle Entrate) che avevano invitato i contribuenti a “non buttare soldi” in ricorsi contro gli accertamenti fiscali ritenuti illegittimi perché firmati da funzionari senza poteri (esternazioni che ci avevano lasciato esterrefatti, come scritto in “Allarme dirigenti senza poteri all’Agenzia Entrate”), arriva la secca risposta dell’Associazione Magistrati Tributari. L’AMT (giustamente) ferita da tanta “arroganza”, non ha tardato a far sentire la sua e, con un chiaro messaggio rivolto agli organi di vertice dell’Amministrazione finanziaria, ha pressappoco risposto con queste parole: “L’ultima parola spetta solo a noi giudici e, quindi, alle commissioni tributarie”. Il problema non è da minimizzare – sottolineano i rappresentanti dei magistrati – né è scontata una decisione pro-fisco. Tutt’altro. L’interpretazione della Orlandi, a detta dell’Associazione Magistrati Tributari, è frettolosa e inopportuna. “La questione della possibile illegittimità degli atti sottoscritti dai dirigenti che non avevano titolo è complessa e merita i necessari approfondimenti”, sottolineano Ennio Attilio Sepe e Daniela Gobbi, rispettivamente presidente e segretario dell’associazione. “In ogni caso non si può dare per scontato un esito che il nostro ordinamento lascia alla libera valutazione del giudice. Il diritto-dovere di pronunciarsi è solo delle commissioni tributarie, se interpellate”.

C’era da immaginarselo. E ci saremmo meravigliati se non fosse stato così. Sulla base di quali argomentazioni la Orlandi diffida gli italiani dal fare ricorso? Perché, invece di usare parole così forti (“Smettiamola di far girare sciocchezze”), non ha invece spiegato le ragioni giuridiche della propria interpretazione? Invece no: la Orlandi ha solo inviato un segnale, un avvertimento forte, più simile a una minaccia che a un consiglio. Del resto, già solo il fatto che a parlare sia proprio l’organo di vertice della controparte processuale dei contribuenti, responsabile di un comportamento che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo, perché contrario ai nostri principi democratici, la dice lunga.

Così i magistrati riaccendono le speranze dei contribuenti. E prova ne è che i professionisti hanno inserito, nei propri ricorsi contro l’Agenzia delle Entrate, la formula da noi consigliata per contestare la firma dei dirigenti “fasulli”. Alcuni, che già avevano presentato negli scorsi mesi/anni il ricorso, lo hanno fatto attraverso una memoria integrativa, trattandosi di un vizio (quello della nullità dell’atto) rilevabile in ogni stato e grado di giudizio.

Insomma, occhi puntati ora sulle Commissioni Tributarie e su cosa, davvero, decideranno i giudici: se, cioè, confermare l’interpretazione sino ad oggi data, favorevole al contribuente, oppure discostarsene e sposare un nuovo principio.

Per quanti, poi, hanno bisogno di risposte, consigliamo di andare all’approfondimento “Dirigenti delle Entrate senza poteri”.

Giuseppe Catapano scrive: Anatocismo di Equitalia: gli interessi vanno indicati in cartella

Chissà quali criteri utilizza Equitalia per calcolare gli interessi sul debito del contribuente? Se lo è chiesto più di un italiano all’arrivo della cartella esattoriale quando, vedendo sul dettaglio degli importi da corrispondere, in corrispondenza della voce “interessi”, ha trovato una cifra esorbitante.
È vero, da un lato c’è la legge che autorizza l’Agente della riscossione a chiedere un tasso del 5,14%, ossia ben cinque volte in più di quello legale (e allora, sebbene sia dura da accettare, è pur sempre la legge). Ma dall’altro lato c’è anche un principio di trasparenza, che impone a qualsiasi amministrazione di chiarire le metodologie utilizzate per determinare gli importi da chiedere ai contribuenti. Del resto, se così non fosse, chi mai potrebbe controllare che Equitalia non stia applicando il cosiddetto anatocismo? Di tanto avevamo già parlato nell’articolo “Equitalia: usura e anatocismo sulla cartella”, ma ora viene la conferma da un ulteriore giudice.

Tocca alla Commissione Tributaria Regionale di Bari  scrivere, questa volta, il principio a favore del contribuente: la sentenza (segnalataci dal dott. Francesco Cotrufo del medesimo foro), stabilisce che viola la legge l’intimazione di pagamento che riporta l’ammontare complessivo sia degli interessi che dei compensi e delle altre spese senza alcuna indicazione delle singole percentuali né delle modalità di calcolo.

È evidente, infatti, che qualora manchino tali elementi essenziali, il contribuente si trova nella impossibilità di esercitare il diritto di difesa, specie quando – come accade della maggior parte dei casi – si tratta di interessi e competenze risalenti ad oltre dieci anni addietro.

Tale importantissimo principio, quasi mai rispettato da Equitalia e dalle altre amministrazioni finanziarie, è stato più volte affermato e ribadito dalla Cassazione secondo cui l’obbligo di motivazione della cartella di pagamento deve intendersi esteso anche all’indicazione ed alla comprensione delle modalità di calcolo degli interessi e dei compensi di riscossione di cui viene intimato il pagamento, pure nel caso in cui la stessa rappresenti l’atto consequenziale di un prodromico avviso di accertamento.

Risultato: se nella cartella non è riportato lo scalare delle aliquote dei saggi di interesse applicati per ogni singola annualità, ossia dalla data del dovuto fino a quello della notifica della cartella esattoriale, l’intimazione di pagamento è nulla e può essere impugnata davanti al giudice. Chissà perché, però, tanto più i principi sono chiari e condivisi dalla giurisprudenza, tanto meno vengono rispettati dalle amministrazioni. Eppure basterebbe solo un po’ di buonsenso… Ma questo è il Paese dei ricorsi.

Catapano Giuseppe: Via al fondo microcredito: garanzia per giovani con partita iva e professionisti

I giovani imprenditori e i professionisti (o aspiranti tali), purché titolari di partita Iva da meno di cinque anni, nonché le microimprese rientranti nelle cosiddette fasce deboli, (ossia non in condizione di rivolgersi al sistema creditizio tradizionale per assenza di idonee garanzie) anche prima della presentazione della richiesta del finanziamento a un soggetto finanziatore, potranno presentare al gestore del fondo centrale per il Microcredito la richiesta di prenotazione delle somme necessarie ad ottenere una garanzia pubblica sui finanziamenti richiesti a soggetti come banche o finanziarie.

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha messo da parte un fondo di 30 milioni di euro da destinare al microcredito per giovani imprenditori e professionisti (o aspiranti tali) purché titolari di partita Iva da meno di cinque anni. Ed ora il decreto del MISE dello scorso 18 marzo 2015, che contiene le regole tecniche di funzionamento del fondo, è prossimo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Beneficiari
– lavoratori autonomi (professionisti ordinistici e non) titolari di partita Iva da meno di cinque anni e con massimo 5 dipendenti;
– imprese individuali titolari di partita Iva da meno di cinque anni e con massimo 5 dipendenti;
– società di persone, società tra professionisti, srl semplificate, società cooperative titolari di partita Iva da meno di cinque anni e con massimo 10 dipendenti.
Sono escluse le imprese che al momento della richiesta presentino, anche disgiuntamente, i seguenti requisiti:
imprese che hanno presentato istanza di fallimento e nei tre esercizi precedenti, o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, abbiano un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300mila euro oppure ricavi lordi non superiori a 200mila euro;
imprese con livello di indebitamento superiore a 100mila euro.

Limite di copertura
La richiesta può arrivare fino a 25 mila euro per ciascun beneficiario e dovrà essere presentata, in modalità online, al sito del fondo centrale (www.fondidigaranzia.it, nella sezione dedicata al “microcredito”): la stessa avrà per oggetto l’ottenimento della prenotazione delle somme necessarie alla copertura finanziaria della garanzia sui finanziamenti.
Il finanziamento non dovrà essere assistito da alcuna garanzia. Il prestito, infatti, sarà garantito per una percentuale pari all’80% dal Fondo Microcredito. I finanziamenti sono concessi dalle banche e intermediari finanziari appositamente abilitati all’esercizio di tale attività (operatori di microcredito iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 111 del Tub). L’importo è incrementabile a 35mila qualora il contratto di finanziamento preveda l’erogazione frazionata, subordinando i versamenti successivi al verificarsi delle seguenti condizioni:
– il pagamento puntuale di almeno le ultime sei rate pregresse;
– lo sviluppo del progetto finanziato, attestato dal raggiungimento di risultati intermedi stabiliti dal contratto e verificati dall’operatore di microcredito.

Come funziona
Una volta che l’aspirante beneficiario avrà presentato online la richiesta di prenotazione della garanzia, il sistema informativo del fondo gli attribuisce automaticamente un codice identificativo, assegnandogli un ricevuta dell’avvenuta prenotazione delle risorse. Il beneficiario dovrà consegnare tale ricevuta al soggetto finanziatore cui intende richiedere il finanziamento.

La prenotazione resta valida per cinque giorni lavorativi successivi alla data del suo inserimento sul sistema informativo del fondo. Entro il predetto termine, la prenotazione deve essere confermata, a pena di decadenza, dal soggetto finanziatore prescelto, che attesta di aver ricevuto dal soggetto beneficiario finale formale richiesta di finanziamento.

A tal fine, il finanziatore accederà alla sezione “microcredito” del sito internet del fondo, utilizzando il codice identificativo della prenotazione.

Se il finanziatore concederà il prestito richiesto dal beneficiario, dovrà, entro 60 giorni, inviare al gestore del fondo la relativa richiesta di garanzia. Nel caso in cui la richiesta di garanzia sia presentata oltre il predetto termine, la prenotazione decade.

L’elenco dei finanziatori
Nella sezione del sito web dedicata al “microcredito”, è riportato l’elenco dei finanziatori abilitati a operare con il fondo. La garanzia per le pmi potrà essere richiesta dal finanziatore fino a un massimo dell’80% dell’ammontare del prestito, tenuto conto di capitale e interessi.

Giuseppe Catapano osserva: Demansionamento del lavoratore e risarcimento danni

Il demansionamento (o dequalificazione professionale) consiste nell’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, o anche nella non assegnazione di alcuna mansione. In questi casi, il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danni subiti oltre all’emanazione di un vero e proprio ordine di reintegrazione nelle sue precedenti mansioni, od in altre di pari livello.

Focalizzandoci sulla richiesta di risarcimento dei danni, bisogna dire che questa può risultare molto complessa e non sempre facile da quantificare, provare e dimostrare.
Si deve subito sottolineare che sta al lavoratore dequalificato provare tutti i danni subiti.

Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:

– il danno patrimoniale (o professionale);

– il danno biologico;

– il danno esistenziale.

1 | DANNO PATRIMONIALE

Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.

2 | DANNO BIOLOGICO

Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.

3 | DANNO ESISTENZIALE

L’aspetto più problematico e sicuramente meno noto ai non addetti ai lavori è il cosiddetto “danno esistenziale” ovvero “danno alla vita di relazione”. In altri termini, il danno esistenziale è il pregiudizio che la dequalificazione od il demansionamento provoca nella sfera personale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali (ad esempio con i propri cari) che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Affinché il lavoratore possa pretendere un risarcimento per il danno esistenziale il medesimo dovrà fornire “la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso” [1]. È quindi necessario dare la prova che il demansionamento, concretamente, ha inciso in senso negativo alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita del lavoratore.

Come è evidente, la cosa non è assolutamente facile.
Anche per quanto riguarda la quantificazione non c’è ancora univocità. La quantificazione è per via equitativa e spesso è una percentuale (20%, 40% o 50%) del danno biologico. Ma è possibile che si adottino anche altri criteri soprattutto quando il danno biologico è di lieve entità e, viceversa il demansionamento si manifesti in fatti gravi o odiosi.

Tutto quanto sopra è stato recentissimamente ribadito dalla Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 20 febbraio 2015 [2].

La vicenda
La Corte d’appello di Catanzaro confermava la sentenza del Tribunale di Cosenza che aveva accolto la domanda proposta da un giornalista nei confronti della RAI Radiotelevisione Italiana spa intesa ad ottenere il risarcimento dei danni subiti nel corso del rapporto di lavoro intercorso fra le parti limitatamente al danno professionale conseguito al demansionamento subito. Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la RAI.
I primi tre motivi di ricorso, strettamente collegati fra loro, sono stati giudicati infondati dal Collegio. Infatti, dopo aver esaminato le prove testimoniali e le altre risultanze processuali, la Corte territoriale ha ritenuto con motivazione congrua e non suscettibile di alcuna revisione in sede di legittimità, che il lavoratore fosse stato ingiustamente demansionato perché, dopo essersi per anni interessato di cronaca nera e giudiziaria e poi di cronaca politica, era stato assegnato a compiti di scarsa rilevanza e del tutto estranei alla cronaca politica.

L’errore della Corte d’appello sta, invece, nel non aver fornito alcuna idonea e sufficiente motivazione sia in termini di individuazione della natura dei danni che della loro sussistenza.

Onere della prova dei danni
Il Collegio ricordava come, nel rispetto dei consolidati principi giurisprudenziali sull’onere della prova di ogni genere di danno, questo spetti al danneggiato. Anche attraverso presunzioni. Infatti, è stato affermato che in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale che ne deriva non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, della natura e delle caratteristiche del pregiudizio medesimo e che mentre il riconoscimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accettabile, il danno esistenziale, provocato sul fare non reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro rilievo la prova per presunzioni.
Per tali ragioni, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi di ricorso accolti, con rinvio alla Corte d’appello che provvederà alla liquidazione del danno e a regolare le spese del giudizio di legittimità.