Pioggia’ di “cartelle di pagamento” per il contribuente, che deve poi subire anche una “iscrizione ipotecaria” da parte di ‘Equitalia’.
Tutto irregolare, però, sanciscono ora i giudici della Cassazione. Fatale, per il Fisco, è la “omessa notificazione dell’intimazione ad adempiere”.
Bisogna tener presente, difatti, spiegano i giudici, che “l’amministrazione, prima di iscrivere ipoteca, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che può essere fissato in trenta giorni – perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto”. Di conseguenza, quando, come in questo caso, “l’iscrizione di ipoteca” non è “preceduta dalla comunicazione al contribuente”, essa è da ritenere “nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il ‘contraddittorio endoprocedimentale’, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo”.
Ciò conduce a sancire la vittoria del contribuente, che vede annullata definitivamente ab origine la “iscrizione ipotecaria” emessa da ‘Equitalia’.
Giorno: 23 aprile 2015
Giuseppe Catapano informa: CREDITO PER CONTRIBUTI PREVIDENZIALI, ASSISTITO DA IPOTECA: ‘VIA LIBERA’ ALLA RICHIESTA DI AMMISSIONE DI ‘EQUITALIA’ NEI CONFRONTI DEL FALLIMENTO
Procedura di fallimento per la società. E a entrare in gioco è anche il “credito per contributi previdenziali, assistito da ipoteca” vantato da ‘Equitalia’.
Ebbene, è da accogliere la richiesta di “ammissione del credito”, sanciscono ora i giudici della Cassazione. Corrette, ab origine, le pretese avanzate da ‘Equitalia’.
Per i giudici, bisogna tener presente che la normativa, da un lato, “attribuisce efficacia di titolo esecutivo al ‘ruolo’ – vale a dire, l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute – formato dall’Ufficio finanziario ai fini della riscossione a mezzo concessionario, così consentendo la formazione del detto titolo sulla base di un atto della stessa amministrazione, senza la necessità di ulteriore vaglio da parte dell’autorità giudiziaria”, e, dall’altro, riconosce “l’idoneità del titolo, rappresentato dal ‘ruolo’, a costituire in sé titolo per l’iscrizione di ipoteca sugli immobili del debitore, e quindi a determinare una garanzia reale a favore del creditore in ragione di provvedimento autonomamente emesso dall’amministrazione, senza contraddittorio preventivo e senza il controllo successivo da parte del giudice”.
Ci si trova di fronte, dunque, a una “ipoteca che tutela il credito in ragione della sua peculiare natura e qualità”, poggiata, com’è, sulla “esistenza di un titolo esecutivo costituito da un atto amministrativo”.
Di conseguenza, non è condivisile, in questa vicenda, l’ipotesi della “revocabilità dell’ipoteca” vantata da ‘Equitalia’ e la “assimilazione, sul piano della disciplina normativa, a quella giudiziale”.
Catapano Giuseppe scrive: L’IPOTECA ISCRITTA SUGLI IMMOBILI DEL DEBITORE E DEI COOBBLIGATI AL PAGAMENTO DELL’IMPOSTA
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. nn. 7868/014. 3397/013, 3232/012), cui il collegio intende dare continuità, l’ipoteca iscritta ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. n. 602/73 sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell’imposta, pur non essendo qualificabile come ipoteca legale – dal momento che l’iscrizione non ha luogo automaticamente su specifici beni oggetto di negoziazione al fine di garantire l’adempimento di obbligazioni derivanti da un’operazione di trasferimento della proprietà, ma richiede un’iniziativa del creditore e non presuppone un preesistente atto negoziale – neppure è riconducibile all’ipoteca volontaria, posto che la sua iscrizione prescinde dal consenso del proprietario del bene gravato, od a quella giudiziale, cui la accomuna la subordinazione dell’iscrizione ad un’iniziativa del creditore fondata su un titolo esecutivo precostituito e la finalità di garantire l’adempimento di una generica obbligazione pecuniaria, ma dalla quale si differenzia per la natura del titolo che ne costituisce il fondamento, non rappresentato da un provvedimento giurisdizionale, ma da un atto amministrativo. Si tratta, in definitiva, di figura autonoma, non agevolmente inquadrabile in alcuna delle categorie previste dal codice civile, e perciò non rientrante nel disposto dell’art. 67 I. fall., a norma del quale sono assoggettabili a revocatoria le sole ipoteche volontarie o giudiziali.
Giuseppe Catapano informa: CONTI CORRENTI PASSATI AI ‘RAGGI X’, MA SENZA AUTORIZZAZIONE ALL’ESECUZIONE DELLE INDAGINI BANCARIE: VALIDO, COMUNQUE, L’AVVISO DI ACCERTAMENTO
“Avviso di accertamento”, sui fronti Irpef ed Irap, ‘consegnato’ al contribuente, alla luce della “analisi di alcuni conti correnti, i quali evidenziavano alcune movimentazioni, in entrata ed in uscita, prive di adeguato riscontro documentale”.
Ma, secondo i giudici tributari regionali, l’azione del Fisco è illegittima. Fatale la “mancata produzione” – sottolineata dal contribuente – “sia in primo, sia in secondo grado, dell’autorizzazione del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate all’esecuzione delle indagini bancarie”. Ciò costituisce, secondo i giudici, “inosservanza degli oneri di allegazione e prova gravanti sull’ufficio” nonché “difetto di motivazione dell’atto impositivo”.
Tale visione, però, viene completamente demolita dai giudici della Cassazione. Questi ultimi, accogliendo le obiezioni mosse dall’Agenzia delle Entrate, ribadiscono che “la mancata esibizione” alla persona interessata “della autorizzazione all’espletamento delle indagini bancarie non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite dall’ufficio o dalla Guardia di Finanza, potendo l’illegittimità essere dichiarata soltanto nel caso in cui dette movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell’autorizzazione, e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente”. Ciò perché “l’autorizzazione ha una preminente funzione organizzativa, secondo uno schema riconducibile alla ‘delega-autorizzazione’, nel quale la valutazione rimessa al titolare dell’ufficio ‘delegante’ si esaurisce nella modalità di attuazione della competenza attribuita in vista del perseguimento del medesimo interesse pubblico”, quindi “essa ha in definitiva carattere endoprocedimentale, meramente preparatorio, inserito nella fase della iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, e più specificamente quale condizione di legittimazione dell’ufficio locale all’esercizio di taluni poteri ispettivi ricompresi nelle competenze amministrative di controllo e verifica delle dichiarazioni presentate e dei versamenti eseguiti dai contribuenti e dai sostituti d’imposta nonché di vigilanza sull’osservanza degli obblighi stabiliti dalle disposizioni tributarie”.
Di conseguenza, la “autorizzazione” non integra “un elemento costitutivo degli effetti del provvedimento impositivo, rimanendo estranea alla valutazione dei ‘presupposti di fatto e delle ragioni di diritto’ che fondano la pretesa tributaria, perché non provvede alla cura di uno specifico interesse, ma coincide col generale interesse all’esercizio della funzione pubblica di controllo fiscale, né dispone della sfera giuridica di terzi”.
Legittime, perciò, le obiezioni mosse dall’Agenzia delle Entrate, anche tenendo presente che non è stato “dedotto alcun concreto pregiudizio” per il contribuente.
Ciò conduce a riaffidare nuovamente la vicenda all’esame dei giudici tributari regionali.
Catapano Giuseppe osserva: UN PAESE DIVISO IN DUE
Lunedì 13 aprile “La Stampa” dedica un articolo allo studio di Confartigianato che compara i tassi di disoccupazione delle 20 regioni italiane con quelli registrati nei paesi dell’unione.
Il tasso più basso è quello, indovinate un po’, della provincia autonoma di Bolzano che riesce a far meglio della sua madrepatria d’elezione, la Germania, e dei suoi cugini d’Oltralpe, gli austriaci. Insomma la Locomotiva d’Europa è una zona culturalmente omogenea dove si parla tedesco. Quello che in qualche modo stupisce è che tutto il nord (Emilia compresa) presenta tassi che sono ampiamente sotto il 10% o lo superano di poco.
Le ultime posizioni di questa classifica sono occupate, anche qui con scarsa sorpresa purtroppo, da regioni del Sud: Sardegna Puglia Campania Sicilia e Calabria con tassi ben superiori al 20%. Chiudono la classifica comparata Regioni-UE Spagna e Grecia.
A supporto dei dati, un commento che tenta di spargere un po’ di ottimismo, fa notare come la tendenza negli ultimi mesi sia di recupero delle quote di occupati. Bisogna tener presente che, negli ultimi 6 anni, il Sud ha perso un numero di occupati superiore di due volte e mezzo circa rispetto a quelli del Nord.
Quali siano le ricette per colmare questa schizofrenia occupazionale non è compito di questa piccola rubrica metterle in campo, visto che illustri legioni di economisti si stanno applicando dai tempi di Camillo Benso conte di Cavour. I suoi moderni epigoni tra gite in felpa geograficamente connotate, profluvi di cinguettii roboanti e passeggiate con un barboncino bianco, non sembrano cavalli su cui puntare una posta elevata.
Una rappresentazione plastica della divisione del paese è data anche dai crolli che hanno interessato nei mesi e nei giorni scorsi alcuni tratti autostradali.
Si è cominciato con il crollo del viadotto della Salerno-Reggio Calabria con tanto di camion conficcato nel pilone del viadotto (e purtroppo pure un morto); poi il viadotto del rifacimento di un tratto della Palermo-Agrigento e l’altro giorno il crollo sulla Catania-Palermo.
Ieri, in Sardegna sprofonda la sede stradale in un tratto iniziale della nuova 554 che da Cagliari porta sulla costa Est, definita sbrigativamente “la strada per le località turistiche”. Mentre scrivo queste righe i siti d’informazione riportano la notizia delle dimissioni del Presidente di ANAS. Le conseguenze di questi crolli sono gravissime. Sicuramente mettono ancora una volta alla luce il modo rapace con cui si costruiscono le infrastrutture in italia: “gare” di appalto al ribasso, varianti in corso d’opera, dilatazione di tempi e costi, subappalti e adesso viene anche fuori costruzioni approssimative o colpevolmente al risparmio.
Quindi, indignazione, indagini lunghe e laboriose, campagne mediatiche, processi lunghi e prescrizioni certe per responsabilità indefinite. Quello che rimane è che parti del territorio nazionale, già disagiate, diventano meno raggiungibili. Una strada a scorrimento veloce come quella che da Cagliari porta a Villasimius non serve solo a rendere più semplice l’arrivo sulle spiagge ma a far viaggiare merci e persone in modo più rapido in una regione dove non ci sono autostrade e dove non esiste praticamente una rete ferroviaria. Lo stesso dicasi per la Sicilia.
Il crollo sulla Palermo-Catania raddoppia il tempo di percorrenza tra i due capoluoghi dell’isola. E anche qui merci e persone viaggiano su gomma. La Salerno-Reggio Calabria è un monumento alla mala gestione (a partire da un percorso che dal mare sale a più di mille metri di altitudine) e forse i miei nipoti la vedranno finita, ma non ne sarei certo.
Si parla di anni per rimettere in sesto le vie di comunicazione. Anni. Per tornare al punto di partenza di una situazione che era già indegna. L’Unione Europea, la scorsa settimana, ha sanzionato l’Italia perché non prevede nel suo ordinamento il reato di tortura, in relazione ai fatti del G8 di Genova. Per questi crolli andrebbe forse introdotto il reato di procurato sottosviluppo.
Catapno Giuseppe informa: Quanto meno sia possibile, annunciare
Non c’è bisogno di attendere il dibattito a Palazzo Madama sul Def del 23 di aprile per capire che il tesoretto da 1,6 miliardi con cui Matteo tenta postremamente di fare l’incantatore non ci condurrà più in alto e meno infaustamente di quanto fecero le ali incerate al groppone con Dedalo «il sagace fugibondo dal carceroso claustro» – così nell’Hypnerotomachia Poliphili – e con suo figlio giovinetto Icaro.
Scrive Fabrizio Forquet sul “Sole”:
«Con dati occupazionali che restano al minimo storico e una produzione industriale che continua a deludere, dovrebbe essere chiaro a tutti che è tempo di serietà e non di distrazioni. Tanto meno di armi di distrazioni di massa per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dai nodi veri dell’economia e dell’azione di governo.
È allora opportuno che il governo spari nel dibattito pubblico la questione del “tesoretto”? E c’è davvero un “tesoretto” da spendere nelle pieghe del nostro bilancio pubblico? La risposta è no, no secco, su entrambe le domande.»
Leggiamo nel Grande libro dei giochi di prestigio: «Il prestigiatore deve annunciare quanto meno sia possibile il giuoco che sta per presentare. In tal modo otterrà di sorprendere invece di essere sorpreso».
E invece tu, quante volte, Matteo, hai detto: «Troveremo le risorse?»
Catapano Giuseppe comunica: Importazione di beni e servizi senza applicazione dell’imposta sul valore aggiunto
Una sola dichiarazione d’intento presentata in Dogana per più operazioni. La lettera con cui gli esportatori abituali manifestano la volontà di effettuare acquisti o importazioni di beni senza applicazione dell’IVA potrà essere trasmessa alle Dogane per una serie di operazioni nel periodo di riferimento o, in alternativa, per ogni singola operazione e con la specifica dell’importo. Lo chiarisce la risoluzione 38/E dell’Agenzia delle Entrate, che spiega come con l’entrata in vigore della nuova procedura di trasmissione telematica delle dichiarazioni d’intento, prevista dal Decreto Semplificazioni – D.Lgs. n. 175/2014 (in “Finanza & Fisco” n. 32/2014, pag. 2467) – e con la condivisione della banca dati contenente le lettere d’intento inviate alle Entrate, ora nella disponibilità dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, vengono meno i motivi che fino ad oggi avevano impedito che, analogamente a quanto previsto per gli acquisti di beni e servizi da fornitori/prestatori nazionali, una dichiarazione d’intento possa riguardare anche diverse operazioni doganali d’importazione. Naturalmente, a condizione che le suddette operazioni non superino un determinato ammontare da utilizzarsi nell’anno di riferimento.
Cosa cambia nelle istruzioni
Dunque, prosegue la risoluzione, è da ritenersi superato l’orientamento assunto dall’Amministrazione finanziaria in passato e riportato nelle istruzioni del nuovo modello predisposto per la compilazione delle dichiarazioni d’intento, in cui si precisava che “nel caso di importazioni di beni la dichiarazione d’intento deve essere presentata in dogana per ogni singola operazione specificando il relativo importo”. Ne deriva quindi che per le operazioni di importazione l’operatore potrà compilare il campo 1 o, in alternativa, il campo 2 del modello di dichiarazione d’intento, in quest’ultimo caso inserendo l’importo corrispondente all’ammontare della quota del proprio plafond IVA che presume di utilizzare all’importazione nel periodo di riferimento.
Il modello aggiornato, con le istruzioni e le relative specifiche tecniche, sarà reso disponibile, nei prossimi giorni, sul sito dell’Agenzia delle Entrate (www.agenziaentrate.gov.it).
Catapano Giuseppe scrive: La negoziazione assistita e il risarcimento danni da circolazione di veicoli
Come ormai noto, il D.l. 132/2014, convertito in L. n. 162/2014 ha introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto della negoziazione assistita, rendendone l’esperimento obbligatorio in determinate ipotesi normativamente previste dall’art. 3 del decreto in oggetto.
E’ proprio il predetto articolo che giunge a stabilire che chi attualmente intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli deve, tramite il suo avvocato, invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita: l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è quindi condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Rispetto a tale ipotesi si pone però una questione relativa all’individuazione delle parti che necessariamente dovranno prendere parte alla procedura di negoziazione, poiché nulla sembra dire in modo espresso il legislatore.
La Legge 24 dicembre 1969, n.90, articolo 18, (applicabile ratione temporis, oggi abrogato e trasfuso nell’art. 144 cod. ass.) stabilisce che nel giudizio proposto dalla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell’assicuratore del responsabile debba essere convenuto anche il responsabile civile. Per constante ed unanime orientamento giurisprudenziale (così come ricordato dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. III, sent. 2 dicembre 2014, n.25421) “il “responsabile” di cui è menzione nella Legge n.990 del 1969, articolo 18, (ovvero, oggidì, nell’art. 144 cod. ass.) è unicamente il proprietario del veicolo che ha causato il danno, di cui all’articolo 2054, comma 3, c.c.: solo questi, infatti può essere agevolmente individuato in base ai pubblici registri” ( si veda sempre in tal senso ex permultis, Sez. 3, sent. n. 11885 del 22/05/2007, Rv. 597644; Sez. 3, sent. n. 2665 del 08/02/2006, Rv. 591196; Sez. 3, sent. n.1976 del 24/021998, Rv. 512982). Pertanto, pare opportuno traslare tale principio anche in relazione alla procedura di negoziazione assistita, coinvolgendo, quale parti necessarie, tanto il responsabile civile, quanto la relativa società assicurativa.
Occorre però sottolineare come, sebbene il responsabile civile risulti essere litisconsorte necessario, la mancata sottoscrizione dell’accordo raggiunto a seguito della convenzione di negoziazione assistita da parte di quest’ultimo non appare essere necessaria ai fini di una validità sostanziale dello stesso. Non si può infatti trascurare come la necessità di rendere edotto il responsabile civile dell’avvio di un giudizio nei suoi confronti, così come (analogamente) dell’avvio di una procedura di negoziazione assistita rispetto ad un sinistro ad esso riconducibile, non ne imponga poi la necessaria partecipazione. Quanto sostenuto trova conferma nella prassi, che spesso vede il concludersi di vertenze inerenti a sinistri con la sottoscrizione di atti di transazione da parte delle sole imprese assicurative coinvolte e del danneggiato. A ulteriore riprova è poi sufficiente rinviare a ciò che avviene nel caso di ricorso alla procedura di risarcimento diretto ex art. 149 cod. ass., rispetto alla quale il responsabile civile non risulta nemmeno essere litisconsorte necessario.
Così come rilevato infatti dal Tribunale di Torino, con sentenza del 04/01/2013 ai sensi dell’art. 149 cod. ass., nel caso di risarcimento diretto il danneggiato deve rivolgere la richiesta di risarcimento “all’impresa che ha stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato” (c.1) e “in caso di comunicazione dei motivi che impediscono il risarcimento diretto, ovvero nel caso di mancata comunicazione di offerta o di diniego di offerta entro i termini previsti dall’art. 148 o di mancato accorso, il danneggiato può proporre l’azione diretta di cui al’art. 145, c.2, nei soli confronti della propria impresa assicuratrice …”(c.6). In virtù della predetta normativa, il Tribunale è quindi giunto ad evidenziare come “la necessità di evocare in giudizio il responsabile del danno è prevista dall’art. 144 del d.lgs. n.209/2005, al terzo comma, ma solo per il caso di azione diretta nei confronti “dell’impresa di assicurazione del responsabile civile”, con la conseguenza che il responsabile del danno non è litisconsorte necessario nel caso di azione ex art. 149 D.lgs. 209/2005″. Tale interpretazione trova peraltro conferma anche nella motivazione della sentenza n. 180/2009 della Corte Costituzionale la quale, riferendosi all’espressione ” il danneggiato può proporre l’azione diretta di cui all’art. 15, c.2, nei soli confronti della propria impresa di assicurazione”, è giunta a sostenere che ” l’oggetto della perifrasi non è tanto il rapporto, che con riguardo alla proposizione di un’azione, il legislatore vuole instaurare a favore di un soggetto, quanto l’azione stessa che è individuata nei confronti (e nei soli confronti) di un determinato soggetto, che è l’assicuratore del danneggiato”.
Proprio sulla base di tale pronunce, e solo relativamente alle ipotesi di indennizzo diretto, appare corretto individuare quali uniche parti necessarie entro la procedura di negoziazione assistita il danneggiato e la Compagnia Assicurativa di quest’ultimo. Tuttavia, come noto, la procedura di risarcimento diretto ex art. 149 cod.ass. prevede che l’impresa assicuratrice del danneggiato anticipi il risarcimento del danno, salvo poi ottenere da parte dell’impresa assicuratrice del responsabile civile un conguaglio forfetario secondo le regole stabilite dalla Convenzione tra Assicuratori per il Risarcimento Diretto (c.d. CARD), alla quale entrambe le compagnie devono aver aderito. Tale aspetto rende consigliabile la notifica dell’accordo raggiunto all’esito della procedura di negoziazione assistita anche al responsabile civile e alla sua assicurazione, avendo gli stessi un interesse mediato alla risoluzione della controversia. Si ricorda poi, a tale proposito che l’art. 149 cod. Ass. introduce per il danneggiato soltanto la facoltà di rivolgere la richiesta risarcitoria alla propria impresa di assicurazione, residuando comunque, anche laddove sussistano i presupposti per la procedura di indennizzo diretto, la possibilità di attivare la procedura ordinaria prevista dall’art. 148 cod. ass.
Catapano Giuseppe informa: Occhio al refuso, ignoto ed eroico revisore del Def
A presiedere il rinviato Consiglio dei Ministri che dovrà approvare il Documento di Economia e Finanza del 2015, il cosiddetto “Def”, sarà alle 20 il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il professore di economia politica Claudio De Vincenti, classe 1948, già viceministro allo Sviluppo economico del governo in carica.
Va da sé che oggi fosse l’ultimo giorno possibile per la presentazione del Def, ma è ormai assodato che ci piace il brivido dell’ultimo minuto, o anche dell’ultimo secondo, come dimostrano i lavori per l’Expo.
Pare il Tesoro stamattina avesse già il testo del documento stampato, ma la riunione delle 11 non si è tenuta. Ufficialmente per avere il tempo di togliere «doppioni e inesattezze». Che in 9 ore, tra una twittata e l’altra, è già tanto se fai una semplice correzione bozze.
La dovuta stima verso i soggetti istituzionali coinvolti mi impedisce di credere che a poche ore dal termine della sua presentazione vi fossero nel principale documento di programmazione economico-finanziaria nazionale doppioni e inesattezze. Oppure posso scegliere di crederlo, ma a questo punto dovrei riporre troppa, disumana stima nell’ignoto revisore bozze e salvatore della patria dell’ultim’ora.
No. Più semplice, più occamiano pensare che con i numeri esposti il Governo non avrebbe avuto margine per interventi di finanza pubbica nel corso di quest’anno. Per essere più chiari: per blandire gli elettori in vista delle prossime regionali.
E allora eccoti che basta prevedere una crescita dello 0,9 anziché dello 0,7 per cento che spunta un “tesoretto” da 1,5 miliardi. Da spendere tutto per il welfare, con un bel decretone.
Ragazzi: ma si governa così? Pare di sì. Siamo tutti pasciuti e contenti.
E allora occhio al refuso ignoto revisore. Ne va dell’onore della nostra tanto amata quanto turlupinata Italia.
Giuseppe Catapano osserva: IL LIBRO DELLE BUONE INTENZIONI E IL “TESORETTO” ELETTORALE? QUI LA RIPRESA È TROPPO DEBOLE E LA SVOLTA ECONOMICA NON SI VEDE
Rieccolo. Puntuale come nient’altro in Italia, ecco a voi il “tesoretto”. Già, quando si approssimano delle elezioni spunta sempre una riserva di risorse – di solito figlie della contabilità, e quindi virtuali – che il governo di turno usa per incrementare la già debordante spesa pubblica, per finalità che si definiscono sociali ma che in realtà sono elettorali.
Anche l’attuale esecutivo, ahinoi, non si è sottratto all’atavica abitudine italica, e alla vigilia delle regionali ha sventolato sotto il naso degli elettori un miliardo e mezzo da spendere “a fin di bene”. Soldi che emergono dalle cifre del Def – il documento di programmazione economica che, da sempre, è il libro delle buone intenzioni dei governi – varato venerdì sera da Renzi con un’abile regia di attese e informazioni fatte filtrare ad arte. Quelle risorse, che si dice diventeranno 6,5 miliardi l’anno prossimo, non sono altro che il margine che il governo intende tenersi – giustamente – tra il deficit reale (2,5% del pil) e quello programmato (2,6%), sempre che la previsione di crescita del prodotto lordo di sette decimi di punto venga poi rispettata. L’Europa ci ha infatti concesso di stare un pochettino più larghi nel deficit corrente – in cambio della promessa di riforme strutturali e ponendo comunque il vincolo che eventuali “buchi” verranno coperti nel 2016 con ben 16 miliardi di tasse in più – e noi ci prendiamo tutto il margine. E lo 0,1% del pil fa appunto 1,5 miliardi. Renzi non ha specificato come saranno spesi, rimandando la decisione a più avanti, ma ha fatto trapelare dai suoi che a beneficiarne sarà il welfare, e segnatamente qualche voce di spesa sociale a favore dei “nuovi poveri”. Di fatto, un prolungamento ad altri fasce di popolazione, i cosiddetti incapienti, degli 80 euro già distribuiti l’anno scorso.
Siamo pronti a scommettere che tutta l’attenzione sarà rivolto a questo benedetto “tesoretto”. Si discetterà se i soldi ci sono davvero o meno, se è opportuno usarli così visto che gli 80 euro non hanno prodotto un centesimo in più di consumi e quindi non sono serviti a spingere la ripresa, oppure ci si lamenterà che quanto concesso ai poveri è poca cosa e che bisognerebbe fare molto di più. Noi, invece, ci sottraiamo a questo inutile dibattito. Preferiamo andare a guardare quanto è successo fin qui alla nostra economia e cercare di capire cosa potrà accadere da oggi in avanti. Insomma, crediamo sia meglio analizzare la politica economica nel suo insieme, per i risultati che ha dato e per quelli che, a invarianza di linea, potrà dare. Per farlo non servono i numeri del Def, ma quelli della congiuntura. I quali dicono che dopo sette di recessione in cui abbiamo perso oltre 10 punti di ricchezza nazionale, abbiamo bruciato un quarto della produzione industriale e abbiamo seppellito il 15% del nostro manifatturiero – un risultato che è meno peggio solo di quello della Grecia – ora è in atto una ripresa, ma che essa è labile, a macchia di leopardo e tutta appoggiata alle sole esportazioni, tanto da restare lontana, come peraltro era prima della crisi mondiale, da quella media europea (per non parlare di quella americana). Ora, il fatto che si stimi una crescita dello 0,7% nel 2015 e del doppio nei tre anni successivi – realistico il primo numero, un po’ meno il secondo – ci dice come, bene che vada, prima del 2022 non sarà recuperato quanto perso nella lunga stagione recessiva. Troppo, per disincagliare il Paese dal declino in cui è finito. Si dice (come ha fatto il ministro Padoan) che la stima inserita nel Def è prudente, e che in realtà la nostra ricchezza potrebbe aumentare del 2% l’anno. A parte che anche in questo caso ci vorrebbero cinque anni per tornare ai livelli (invero poverelli) del 2007, e che sarebbe la prima volta nella storia repubblicana che le previsioni governative si rivelano sbagliate per difetto, certo, è vero, potremmo crescere di due punti all’anno. Anche di tre, considerato che mai ci sono state, come ora, condizioni congiunturali così favorevoli: euro, tassi e petrolio bassi, liquidità senza limiti. Quindi non solo potremmo, ma dovremmo. Eppure non sta succedendo e, senza interventi forti, non succederà. Perché anche il governo Renzi, in perfetta continuità con quelli Monti e Letta, ha di fatto adottato una politica che non va al cuore dei problemi i fondo della nostra economia, lasciati in eredità – drammaticamente – dagli esecutivi che si sono succeduti nel corso della Seconda Repubblica. Carico fiscale complessivo eccessivamente alto: Renzi dice che le tasse non aumenteranno, ed è bene, ma non basta, serve ridurle drasticamente. Spesa pubblica abnorme, non solo per quantità ma soprattutto per composizione (tutta corrente e improduttiva, nulla in conto capitale per investimenti): Renzi dice che sarà tagliata, ma intanto un anno se n’è andato senza che sia stato fatto. Finanza pubblica ancora zavorrata dal debito: Renzi nel Def scrive che da qui al 2018 l’indebitamento scenderà di nove punti rispetto al pil, ma ammesso che sia vero, comunque non è sufficiente.
Non sappiamo se il presidente del Consiglio, di fronte a questi rilievi, ci iscriva d’imperio nel registro dei gufi, ma vorremmo che fosse chiaro che non ci sentiamo affatto all’opposizione di questo che continuiamo a ritenere l’unico governo possibile, e non solo per mancanza di serie alternative. Solo che vorremmo da un uomo di rupture come Renzi – e che ci volesse una rottura con il passato crediamo non ci sia italiano che non lo pensi – maggiore coraggio. Glielo abbiamo sommessamente consigliato fin dal primo giorno, e continuiamo senza alcuna iattanza a ricordarglielo.
Servono scelte più radicali. Serve un piano di abbattimento del debito sotto il 100% del pil, una riduzione forte del carico fiscale per le imprese e un piano di investimenti, pubblici e non. Servono cioè 600-700 miliardi. E un progetto paese in testa. Impossibile? No. O meglio, paradossalmente i soldi si possono anche trovare, tra patrimonio pubblico da monetizzare, spesa corrente da tagliare e capitali internazionali da intercettare. Sono le idee su che paese si vuole costruire su cui nutriamo seri dubbi, visto il tasso di populismo che inquina l’interrelazione tra sistema politico, media, mondo culturale e opinione pubblica. Ma non disperiamo.