Se hai subito il sequestro amministrativo dell’auto in conseguenza di violazioni come la guida in stato di ebbrezza o alterata dalla droga, o magari un diverso provvedimento di confisca amministrativa o penale, non devi pagare il bollo auto. Tuttavia, perché ciò venga formalizzato, è necessario che la pubblica amministrazione abbia richiesto al P.R.A. l’annotazione del vincolo. Se non lo ha fatto, non ti resta che la carta del ricorso al giudice di pace che va sotto il nome di “perdita di possesso” (in questo caso, l’automobilista otterrà una sentenza del magistrato che dichiarerà che questi non è più possessore del mezzo e, quindi, non più tenuto al pagamento del bollo auto). A spiegare tutto ciò è una recente circolare dell’ACI che costituisce una vera e propria guida per le annotazioni al PRA (per scaricare la circolare e leggere la relativa guida clicca su “Sequestro auto: con trascrizione al PRA niente bollo”). In presenza di violazioni gravi del codice della strada che comportano il sequestro del mezzo spetta, di norma, alla Prefettura chiedere al PRA l’annotazione del vincolo amministrativo. Ma se la pubblica amministrazione non si attiva subito e, nel frattempo, continuano ad arrivare le richieste di pagamento del bollo, tocca al cittadino procedere presso il giudice di pace e richiedere la cosiddetta perdita del possesso. Fatto ciò, l’interessato dovrà recarsi al Pra e qui fare istanza per la trascrizione della suddetta perdita di possesso per indisponibilità del veicolo. Tutto ciò vale sia nell’ipotesi che si tratti di un sequestro penale, giudiziario o amministrativo, specifica l’Aci. Sul fermo amministrativo dell’auto – per esempio, conseguente al mancato pagamento di una cartella esattoriale di Equitalia – la circolare spiega quali formalità burocratiche sono necessarie per sospendere il vincolo e a ridurne l’importo. Resta escluso dall’annotazione al Pra il fermo amministrativo dei veicoli disposto per violazione del codice della strada.
Giorno: 2 marzo 2015
Giuseppe Catapano informa: Contestazione Agenzia Entrate: verbale e avviso al contribuente di farsi assistere dall’avvocato
“Hai diritto di farti assistere da un avvocato”: una frase che va bene nei film polizieschi, nei procedimenti penali più delicati e finanche prima di effettuare la prova con l’alcoltest. Ma non di certo al momento in cui il personale dell’Agenzia delle Entrate redige il verbale di contestazioni nei confronti del contribuente. E questo perché si tratta di un atto che non ha alcuna valenza processuale, ma solo amministrativo: dunque non presuppone l’obbligo di avviso al soggetto sottoposto a verifica fiscale della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. È quanto affermato dalla Cassazione in una sentenza di ieri. La Cassazione ricorda che il verbale di constatazione, redatto da personale della Guardia di Finanza o da funzionari degli uffici finanziari, è solo un documento “extraprocessuale” di natura amministrativa e, in quanto tale, è acquisibile ed utilizzabile a fini di prova. Questa sua caratteristica di atto non processuale comporta una importante conseguenza per il contribuente. Se, in generale, la legge impone che, prima di compiere atti di particolare rilevanza, la polizia giudiziaria avverte l’indagato della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia (allo scopo di consentirgli, pur nell’imminenza di atti urgenti di polizia, di usufruire dell’assistenza di un difensore), ciò non vale in caso di presenza del personale dell’Agenzia delle Entrate. Quest’ultimo, infatti, non può essere considerato alla pari della polizia giudiziaria, ma solo personale di tipo “amministrativo”. Per cui, posto che l’avviso all’indagato della possibilità di farsi assistere da un avvocato presuppone un’attività svolta dalla polizia giudiziaria nei suoi confronti, tale obbligo non scatta in caso di verbale di verifica fiscale. Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 30 gennaio – 23 febbraio 2015, n. 7930 Presidente Mannino – Relatore Ramacci Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Viterbo, con ordinanza del 24/7/2014 ha parzialmente accolto le istanze di riesame proposte nell’interesse di M.E. e M.C. , determinando in Euro 4.581.904,37 (anziché 6.214.652,90) il valore dei beni da sequestrare in funzione di confisca ed in relazione al decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale medesimo il 23/6/2014 in relazione ai reati di cui agli artt. 4 e 11 d.lgs. 74/2000. Avverso tale pronuncia i predetti propongono separati ricorsi per cassazione, aventi identico contenuto. 2. Con un primo motivo di ricorso deducono la violazione degli artt. 114 disp. att. cod. proc. pen. e 356 cod. proc. pen. in ragione del fatto che, nel redigere il verbale di constatazione, i funzionari dell’Agenzia delle Entrate non avrebbero dato l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore, non sottraendosi tale atto alle disposizioni di legge. Aggiungono che l’insorgenza dell’obbligo che si assume violato sarebbe coincisa con la richiesta di esibizione della documentazione fiscale ed il contestuale accertamento del suo occultamento, fatto che configura l’elemento materiale del reato di cui all’art. 10 d.lgs. 74/2000. 3. Con un secondo motivo di ricorso denunciano la violazione di legge, rilevando che il Tribunale avrebbe erroneamente affermato la legittimità del disposto sequestro sui beni della società “AD MAIORA s.r.l.” sul presupposto che la stessa avesse esclusivamente operato al fine di mascherare le utilità degli indagati, in quanto le movimentazioni sui conti correnti avrebbero avuto, quale scopo primario, quello di trasferire dai conti correnti della “GOLDEN GROUP s.p.a.” provviste transitate sui conti correnti della suddetta s.r.l. e della “1 GOLDEN GROUP s.p.a.”, per essere poi posti nella diretta ed immediata disponibilità sia di M.C. , amministratrice di entrambe, che di M.E. . Osservano, a tale proposito, che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici del riesame, la società “AD MAIORA” sarebbe soggetto del tutto estraneo agli illeciti tributari contestati e non sarebbe stata inattiva fino ad epoca recente, essendo stata costituita nel 2008 ed avendo quale oggetto la locazione di immobili propri che effettivamente possedeva, in numero di sette, in diverse località. 4. Con un terzo motivo di ricorso deducono la violazione di legge lamentando l’errato calcolo del valore reale dei beni effettuato dai giudici del riesame sulla base di una nota dell’Agenzia delle Entrate prodotta dal Pubblico Ministero la quale, in violazione dell’art. 2709 cod. civ., si fonderebbe su una utilizzazione parziale della documentazione acquisita. Insistono, pertanto, per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi. In data 14/1/2015 depositavano in cancelleria una memoria difensiva ad ulteriore sostegno delle loro ragioni. Considerato in diritto 1. Entrambi i ricorsi sono inammissibili. Va rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che questa Corte (Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008 dep. 2009), Ceragioli e altri, Rv. 242523; Sez. 3, n. 6218 del 17/4/1997, Cetrangolo, Rv. 208633; Sez. 3, n. 4432 del 10/4/1997, Cosentini, Rv. 208030; Sez. 3, n. 1969 del 21/1/1997, Basile, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6251 del 15/5/1996, Caruso, Rv. 205514) ha già avuto modo di prendere in considerazione la natura del “verbale di costatazione” redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari, rilevando che esso è qualificabile come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e, in quanto tale, acquisibile ed utilizzabile ai fini probatori ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen.. Si è anche osservato che non si tratta di un atto processuale, poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207); né può essere qualificato quale “particolare modalità di inoltro della notizia di reato” (art. 221 disp. att. cod. proc. pen.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi. Si è tuttavia precisato che, nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorre, però, procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., con la conseguenza che la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. La richiamata disposizione stabilisce che “quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”. A tale proposito questa Corte ha pure osservato (Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948) come, dalla semplice lettura della norma, emerga che essa presuppone, per la sua applicazione, un’attività di vigilanza o ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative e la sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell’attività medesima e solo in tal caso è richiesta l’osservanza delle disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quanto altro necessario per l’applicazione della legge penale. Nella medesima decisione si è fatto anche rilevare come la disposizione, che va letta in relazione anche al successivo art. 223, relativo alle analisi di campioni da effettuare sempre nel corso di attività ispettive o di vigilanza ed alle garanzie dovute all’interessato, abbia lo scopo evidente di assicurare l’osservanza delle disposizioni generali del codice di rito dal momento in cui, in occasione di controlli di natura amministrativa, emergano indizi di reato, ricordando anche quella giurisprudenza secondo la quale presupposto dell’operatività della norma non è l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 cod. proc. pen., quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005 (dep. 2006), Cacace, Rv. 233330; Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291) e precisando che la conseguenza della eventuale inosservanza delle disposizioni del codice di rito è una nullità di ordine generale di cui all’art. 178 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), (Sez. F, n. 38393 del 27/07/2010, Persico, Rv. 248911). Si tratta di principi che il Collegio condivide e dai quali non intende discostarsi e che devono comunque essere presi in considerazione per risolvere la questione prospettata dai ricorrenti e concernenti la sussistenza o meno dell’obbligo di cui all’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. con riferimento all’attività di accertamento svolta dal personale dell’Agenzia delle Entrate. 2. La risposta non può che essere negativa. In tal senso depone, in primo luogo, la natura dell’atto come individuata dalla menzionata giurisprudenza. Va inoltre rilevato che l’avviso previsto dall’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. ha lo scopo di consentire all’indagato, pur nell’imminenza di atti urgenti di polizia, di usufruire dell’assistenza di un difensore e, a tale scopo, impone alla polizia giudiziaria di dare avviso del diritto all’assistenza del difensore quando procede al compimento di alcuno degli atti indicati dall’articolo 356 cod. proc. pen.. L’articolo stabilisce infatti testualmente che “nel procedere al compimento degli atti indicati nell’articolo 356 del codice, la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”. Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che essa presuppone un’attività svolta dalla polizia giudiziaria nei confronti di un soggetto già sottoposto ad indagini. Va rilevato, a tale proposito, che la questione concernente l’attribuzione o meno di funzioni di polizia giudiziaria al personale dell’Agenzia delle Entrate è dibattuta in dottrina, ove in alcuni casi è esclusa ed in altri è riconosciuta, richiamando il disposto degli artt. 30 e 31 legge 7 gennaio 1929 n. 4 e 57, comma 3 cod. proc. pen., mentre la giurisprudenza di questa Corte l’ha espressamente esclusa (Sez. 1, n. 13494 del 09/03/2011, Tamberlich, Rv. 249856). Prescindendo tuttavia da tale qualificazione, appare evidente che, nell’ambito di un’attività ispettiva fiscale, quale quella effettuata nella fattispecie, il soggetto sottoposto a verifica non riveste la posizione di persona sottoposta alle indagini ed, inoltre, detta attività non rientra tra quelle indicate dall’art. 356 cod. proc. pen. che l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. espressamente richiama. In altre parole, la disposizione in esame impone l’avviso del diritto all’assistenza del difensore solo ed esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati dall’art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli articoli 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell’articolo 353 comma 2. Si tratta di una elencazione tassativa, come si desume dal puntuale richiamo ai singoli atti elencati. È appena il caso di osservare, inoltre che un’ulteriore conferma potrebbe rinvenirsi in quanto disposto dall’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, il quale prevede specifici diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, tra le quali figura (comma 2) il diritto di essere informato, tra l’altro, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria. Da ciò consegue che, considerata la natura di documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa del verbale di constatazione redatto dal personale dell’Agenzia delle Entrate, esso non presuppone l’obbligo di avviso al soggetto sottoposto a verifica fiscale della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. Il motivo di ricorso è, pertanto, manifestamente infondato. 3. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso. I giudici del riesame hanno correttamente richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Sez. U, n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, Rv. 258646. Conf. Sez. 3, n. 18311 del 6/3/2014, Cialini, Rv. 259102). Effettuato tale richiamo, hanno evidenziato come, dalle risultanze investigative, sia emerso che le movimentazioni sui conti correnti di alcune società avrebbero avuto, quale scopo finale, esclusivamente quello di trasferire dai conti correnti della “GOLDEN GROUP s.p.a.” risorse economiche transitate sui conti correnti della “AD MAIORA s.r.l.” e della “1 GOLDEN GROUP s.p.a.” per essere poi posti nella diretta ed immediata disponibilità degli indagati, riconoscendo così che la “AD MAIORA s.r.l.” costituisce lo schermo fittizio delle attività e delle disponibilità dei ricorrenti. Sulla base di alcuni elementi di fatto, puntualmente indicati, il Tribunale ha dunque escluso la fondatezza delle censura difensiva concernente la legittimità del sequestro sui beni della società “AD MAIORA s.r.l.”. A tali rilievi i ricorrenti oppongono una propria versione dei fatti, affermando che la suddetta società, diversamente da quanto rilevato dagli accertatori, era stata sempre attiva e svolgeva una propria attività, dovendosi escludere il ruolo di società schermo attribuitole dagli inquirenti. Si tratta, tuttavia, di argomentazioni in fatto che non possono avere ingresso in questa sede, non avendo questa Corte accesso agli atti né potendo procedere ad una valutazione autonoma dei dati fattuali già considerati dai giudici del riesame. 4. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il terzo motivo di ricorso, che pure non supera la soglia dell’ammissibilità, in quanto articolato interamente in fatto, con richiami ad atti del procedimento allo scopo di evidenziare supposti errori nella ricostruzione contabile effettuata dall’Agenzia delle Entrate e riprodotte in una nota depositata dal Pubblico Ministero in sede di riesame. È di tutta evidenza che la verifica dell’esattezza del calcolo non può essere effettuata in questa sede di legittimità. 5. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Catapano Giuseppe informa: Delibere di approvazione bilancio: impugnazione entro un anno
Le cause per ottenere la dichiarazione di nullità e annullabilità di delibere dell’assemblea della società riguardano anche le delibere di approvazione del bilancio. È quanto si evince dalla riforma del codice civile di recente approvazione. La regola generale prevede che l’azione di nullità si possa intraprendere entro il termine massimo di tre anni. Al contrario, l’azione di annullamento va promossa entro 90 giorni dal deposito. Tuttavia, le predette azioni non possono essere proposte nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo. Si tratta di un termine più breve rispetto a quello ordinario per far valere la nullità, che si impone per garantire la stabilità non solo degli atti, ma anche della società stessa e dei mercati. Solo le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale, prevedendo attività illecite o impossibili, possono essere impugnate senza limiti di tempo. Ciascuno dei soci assenti, dissenzienti o astenuti, gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il collegio sindacale possono impugnare il bilancio perché affetto da nullità. Ma l’azione può essere anche proposta da chiunque abbia interesse e anche rilevata d’ufficio dal giudice, ma non più senza limiti di tempo. Qualora il revisore non abbia formulato rilievi (il termine revisore va interpretato in senso ampio comprendendo anche il collegio sindacale, qualora allo stesso sia affidata la revisione legale dei conti), l’impugnativa deve essere proposta da tanti soci che rappresentino almeno il 5% del capitale. I vizi del bilancio possono riguardare: – il procedimento di formazione del bilancio (per esempio i casi di mancata convocazione dell’assemblea, di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell’oggetto; – il suo contenuto (per esempio quando il bilancio sia redatto in violazione dei principi di chiarezza e di rappresentazione veritiera e corretta tali da mettere in pericolo la sua funzione informativa, quando risultino pregiudicati gli interessi generali e manchi una veritiera e corretta informazione sulla situazione economica patrimoniale e finanziaria della società tale da “ingenerare incertezze o erronee convinzioni nei soci e nei terzi; sono quindi esclusi i casi in cui le violazioni siano insignificanti o trascurabili”). Invece, le irregolarità nel procedimento di formazione del bilancio quali, per esempio, il tardivo deposito del progetto di bilancio nella sede sociale, il mancato rispetto dei termini per la convocazione dell’assemblea, l’impossibilità della consultazione del progetto di bilancio da parte dei soci, il mancato deposito della relazione degli amministratori o dei sindaci, la mancanza dei requisiti in capo ai sindaci che avevano redatto la relazione sono, solo causa di annullabilità (che quindi andrà fatta valere entro 90 giorni). Sono annullabili, inoltre, tutte le delibere, e quindi anche quelle di approvazione del bilancio, per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea; per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, salvo che impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione, nonché le delibere che non sono prese in conformità alla legge o all’atto costitutivo: questi ultimi casi rientrano nella categoria dei “vizi comuni”.
Giuseppe Catapano scrive: Trasferire i contratti in corso dalla vecchia alla nuova azienda in presenza di debiti
Rischia grosso l’imprenditore la cui impresa, sommersa dai debiti, viene “parcheggiata” e, nel frattempo, cede i contratti in corso ad un’altra azienda, sempre dello stesso soggetto o di un prestanome. Infatti, se lo scopo è solo quello di evitare i creditori, e tra questi c’è il fisco, il pericolo è quello di una incriminazione per il reato di sottrazione illecita al pagamento delle imposte. Lo ha chiarito la Cassazione con una sentenza di questa mattina. Facile per il fisco dimostrare che l’imprenditore, in relazione ai beni trasferiti ed alla modalità di rientro in possesso dei medesimi beni, ha posto solo in essere una condotta finalizzata alla sottrazione al pagamento in favore dell’erario. Peraltro, è del tutto irrilevante il mancato completamento dell’operazione rispetto alla punibilità delle condotte finalizzate alla distrazione. Infatti, sostiene la Corte, il reato sussiste a prescindere dalla realizzazione del trasferimento effettivo e del vantaggio economico. Il reato in commento non richiede che l’amministrazione tributaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo, né richiede l’evento, vale a dire la sussistenza di una procedura di riscossione in atto e la effettiva vanificazione della riscossione tributaria coattiva. Si tratta infatti di un reato “di pericolo” e non “di danno” e l’esecuzione esattoriale, quindi, non configura un presupposto della condotta illecita, ma è prevista solo come evenienza futura che la condotta tende (e deve essere idonea) a neutralizzare. Ai fini della perfezione del delitto, pertanto, è sufficiente la semplice idoneità della condotta a rendere potenzialmente inefficace (a prescindere, poi, dai risultati effettivi e concreti) la procedura di riscossione .
Catapano Giuseppe informa: Genitore assente nella vita del figlio: danno risarcito anche dagli eredi
Se un genitore abbandona il figlio, privandolo sin da bambino del sostegno morale e delle cure materiali necessarie a una sua serena crescita, quest’ultimo ha diritto al risarcimento per il danno morale conseguente alla privazione affettiva subita. Le responsabilità scaturenti dal ruolo di padre e madre non vengono meno neppure alla morte del genitore. Lo chiarisce la Cassazione che, con una pronuncia di pochi giorni fa , ha riconosciuto a un figlio naturale il diritto di agire nei confronti degli eredi del padre che lo aveva trascurato dalla nascita, al fine di essere da loro risarcito del danno non patrimoniale subito. La Corte si sofferma a lungo sui presupposti e i risvolti (anche processuali) del danno provocato al figlio in caso di abbandono. Essa precisa, innanzitutto, che ciascun genitore è tenuto al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli per il solo fatto che siano venuti al mondo; tale dovere prescinde da qualsiasi domanda giudiziale (come, ad esempio, quella di accertamento di paternità) . Pertanto, anche se uno solo dei genitori abbia riconosciuto il figlio alla nascita, provvedendo in via esclusiva alle sue cure, resta fermo il dovere dell’altro – anche per il periodo che precede la sentenza dichiarativa della paternità o maternità naturale – di ottemperare ai propri doveri di genitore (per un approfondimento sul tema leggi: Figli non riconosciuti: spetta il danno morale e Assistenza familiare: se manca l’affetto il padre risarcisce il minore). Ricordano, in particolare, i giudici supremi che il disinteresse mostrato dal genitore nei confronti del figlio, se da un lato integra una grave violazione dei doveri di cura e assistenza morale da parte del genitore, dall’altro non può che provocare una inevitabile e profonda lesione di tutti i diritti del figlio nascenti dal rapporto di filiazione: ferita, destinata ad incidere in modo permanente nella vita del soggetto che ha subito l’abbandono. Si pensi, solo per fare degli esempi, all’insicurezza vissuta nelle relazioni sociali o alla sensazione che la famiglia non possa rappresentare un punto di riferimento nei momenti difficili della vita: ripercussioni psicologiche così profonde che, tra l’altro – lo ricordiamo – la stessa Cassazione, in una recente pronuncia, aveva parificato la sofferenza legata all’assenza del genitore nella vita del figlio a quella della perdita dovuta alla sua morte, ritenendo applicabili, ai fini della liquidazione del danno morale, le tabelle relative alla perdita di un familiare (per un approfondimento leggi l’articolo: “Condanna per il genitore che abbandona il figlio”). La Corte precisa, inoltre, che il risarcimento del danno morale spettante al figlio e dovuto, in caso di morte del genitore, dagli eredi di questo, raccoglie in sé il complesso insieme dei diritti che sorgono già dalla sua nascita (che vanno ben al di là del solo mantenimento economico) e ben si inquadra nella nozione di danno endofamiliare; quando, infatti, vengono lesi diritti della persona rientranti nell’ambito dei rapporti familiari (quale, ad esempio, quello all’onore e alla dignità del coniuge in caso di infedeltà), chi ha subito il danno può ricorrere a strumenti non strettamente legati al diritto di famiglia (come può esserlo, ad esempio, la richiesta di addebito nel giudizio di separazione). Nello specifico, la violazione dei diritti del figlio (riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi internazionali recepite dal nostro ordinamento), fa ricadere il comportamento del genitore assente nella sua vita nell’ambito dell’illecito civile; il danneggiato matura, così, il diritto di promuovere un’autonoma domanda giudiziaria (perché estranea al procedimento familiare in senso stretto) per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. La vicenda Nel caso in esame, la Cassazione ha confermato la condanna inferta agli eredi (moglie e figlia legittima) di un uomo a risarcire 50000 euro alla figlia naturale di questo, la quale per tutta la sua vita non aveva ricevuto dal genitore il necessario sostegno morale e materiale.
Giuseppe Catapano informa: Buca sulla strada, auto danneggiata, risarcimento escluso
Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella propria “vita automobilistica”, di finire con una ruota in una buca nascosta sul manto stradale e, per causa di ciò, doverla sostituire. In molti casi, il danno economico non è particolarmente elevato e, specie di questi tempi, non giustifica un’azione giudiziaria per il risarcimento del danno. Ma il tempo perso per l’imprevisto, la fatica nella sostituzione dello pneumatico bucato (che spesso richiede l’intervento di terzi), il fermo tecnico del mezzo dal gommista spingono poi, non poche persone, a muovere le contestazioni all’ente pubblico proprietario della strada. E se, oltre al danno, si aggiunge la beffa di una mancata risposta, allora scattano le richieste di indennizzo attraverso la domanda al giudice di pace o al Tribunale (a seconda del valore della causa). Attenzione, però. Non sempre la legge consente di ottenere il risarcimento del danno. E questo dipende, soprattutto, dalla dimensione della buca, dalla sua collocazione, dalla condotta di guida del conducente. In questa breve guida, cercheremo di fare il punto della situazione per consigliare al meglio chi, specie nella stagione invernale, subisce un danno del genere. 1 | LA BUCA STRADALE È bene sapere che la giurisprudenza ritiene risarcibile solo i danni provocati da “insidie stradali occulte”: per tali si intendono quegli ostacoli (nel nostro caso, le buche sull’asfalto) che non siano facilmente visibili o prevedibili usando l’ordinaria diligenza. E questo perché all’utente della strada è sempre richiesto di attivare un comportamento prudente. Insomma, è necessaria la “non visibilità” del pericolo e la “non prevedibilità” della situazione. Per esempio: una fossa di dimensioni tali da invadere un’intera carreggiata non può certo qualificarsi come un’insidia occulta o un trabocchetto. Chi ci cade dentro non potrà, quindi, che prendersela con sé stesso. Paradossalmente, se il Comune non ripara una strada e la lascia in condizioni di evidente dissesto avrà meno possibilità di essere condannato al risarcimento rispetto a una situazione in cui, invece, la strada sia sostanzialmente agibile, ma sia presente qualche saltuario pericolo (leggi: “Danni alle ruote da fosse: se il Comune non ripara la strada dissestata non è responsabile”). 2 | LA CONDOTTA DI GUIDA Nello stesso tempo, il conducente deve tenere una condotta di guida prudente. Egli non deve aver concorso a determinare il danno. Così, anche in presenza di una fossa insidiosa, ma il cui danno l’automobilista poteva evitare tenendo un comportamento rispettoso del codice della strada, non scatta il risarcimento del danno. Insomma, la condizione di pericolosità deve derivare dalla cosa in sé (la buca) e non anche dal concorso del conducente. Secondo la Cassazione, una strada, anche astrattamente pericolosa, non è in grado di nuocere chi tiene una condotta di guida prudente . Chi chiede, quindi, il risarcimento dovrà anche dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno. Per esempio: la presenza di un cantiere sulla strada deve sollecitare la massima prudenza nell’automobilista che, pertanto, è tenuto ad adeguare la propria guida alle mutate condizioni di pericolo. In casi come questo sarà molto più difficile ottenere il risarcimento. Per esempio: anche la presenza di un cartello stradale che avvisi l’utente della presenza di una strada dissestata dovrebbe imporre una cautela maggiore al conducente, il quale ben potrebbe scegliere un percorso alternativo. 3 | L’ESTENSIONE DELLA STRADA Per le fosse apertesi da poco tempo, l’estensione della strada (ossia la sua lunghezza) potrebbe essere motivo per ostacolare la richiesta di risarcimento. Difatti, l’ente proprietario deve avere il tempo necessario, dal verificarsi del pericolo e dalla relativa segnalazione, per attivarsi e, previa collocazione dell’opportuna segnaletica, provvedere alla riparazione. Così, come non potrebbero esserci scuse per non pagare per il danno provocato da una buca su strada del centro abitato (posta la vicinanza e la sorveglianza diretta delle stesse), le cose potrebbero cambiare su una strada statale o, comunque, su una particolarmente estesa e, magari, “sperduta” . 4 | ONERE DELLA PROVA In ogni caso, all’atto della richiesta del risarcimento, all’automobilista spetta solo documentare: – il fatto storico (l’essere caduto nella buca stradale) – e la conseguente spesa (il danno economico). Al contrario, tutte le contrarie eccezioni volte a paralizzare la richiesta di indennizzo (buca facilmente visibile, condotta imprudente del danneggiato, presenza di un cantiere, cartellonista stradale con gli avvisi, ecc.) spettano all’ente pubblico proprietario della strada. Quest’ultimo deve dimostrare quello che la giurisprudenza chiama “caso fortuito” ossia il fatto che l’incidente si è verificato non per colpa del proprietario del suolo, ma per: – un’alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza (si pensi ad una buca appena apertasi a causa della caduta di un masso); – oppure la condotta negligente e imprudente della stessa vittima. 5 | LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO Quando vi sarete accertati che tutte le condizioni vi consentono di chiedere il risarcimento, a questo punto sarà necessario “preparare” le prove per la vostra pretesa. Nell’immediatezza del danno, sarà necessario scattare le fotografie: tanto alla strada, quanto al mezzo danneggiato. Provate a “contestualizzare” le immagini: non limitatevi a immortalare i singoli particolari. Sarà meglio fotografare la fossa con una persona vicino o, meglio, con l’auto, per evidenziare il rapporto delle rispettive grandezze. Inoltre la via andrà ripresa anche in una visione prospettica, per dimostrarne lo stato dei luoghi e individuarne l’esatta collocazione geografica. Telefonate alle autorità per chiedere che accorrano e stilino il relativo verbale. Non sempre però la polizia è disponibile a intervenire se non vi sono danni a persone. Per cui sarà opportuno chiedere ai testimoni presenti nelle vicinanze i relativi nominativi per poterli poi fornire al giudice in caso di contenzioso. Se vi siete fatti male, non dimenticate di andare subito al pronto soccorso e farvi rilasciare il relativo certificato medico con l’attestazione del vostro stato di salute. Il carrozziere al quale affiderete l’auto per la riparazione dovrà rilasciarvi la fattura o un preventivo per la spesa necessaria al ripristino del mezzo. Questa servirà per documentare il danno economico che avete subito o che dovrete sostenere. Infine, dovrete inviare una richiesta di risarcimento danni (diffida) con raccomandata a.r. all’ente pubblico proprietario della strada (spesso si tratta del Comune). Dovrete allegare anche la documentazione fotografica, i certificati medici, i preventivi di spesa e i nomi dei testimoni che sono disposti a confermare quanto da voi sostenuto. Se tutto ciò non dovesse essere sufficiente a ottenere il risarcimento, sarà opportuno consultarsi con un avvocato che vi spieghi, innanzitutto, la convenienza di una eventuale causa e, quindi, possa procedere all’atto di citazione, previa eventuale negoziazione assistita.
Catapano Giuseppe comunica: Avvocati: preventivo scritto anche se il cliente non lo chiede
Il disegno di legge Concorrenza, licenziato venerdì scorso dal Consiglio dei Ministri e ora prossimo all’esame delle Camere, prevede importanti novità in numerosi settori economici e commerciali sino ad oggi rimasti “rigidi” ad ogni riforma. Si ricorderà la triste fine che aveva fatto il decreto “Destinazione Italia” del quale furono bocciate le norme con maggiore impatto sul mercato, tra cui quelle sugli sconti delle Rc-auto. Oggi il ddl Concorrenza ne riprende le stesse disposizioni (con alcune modifiche) e, allo stesso tempo, ne prevede di nuove sulla scorta delle recenti raccomandazioni fornite dall’Antitrust. Le principali novità – dalle quali sono state però stralciate le disposizioni che avrebbero consentito alle parafarmacie e ai supermercati di vendere i farmaci di fascia C – riguardano il mondo delle professioni, in particolare avvocati e notai. Si pensi, ad esempio, alla possibilità per avvocati e commercialisti di stipulare, al posto dei notai, i “piccoli” atti di compravendita (leggi “Avvocati al posto dei notai”). Fine dell’esclusiva Per quanto riguarda la professione forense, viene esclusa l’esclusività della consulenza stragiudiziale ai soli avvocati, ai quali resta comunque resta riservata totalmente la difesa in tribunale ed in qualsiasi grado di giudizio. Si rende così possibile ad esperti e consulenti (v. commercialisti, consulenti del lavoro, ecc.), anche se non iscritti all’albo degli avvocati, di fornire consulenza legale, ampliando il bacino di offerta di tale servizio e la libertà del cliente nella scelta del soggetto al quale richiedere tale prestazione. Preventivo scritto sempre obbligatorio Il Ddl concorrenza stabilisce poi che l’obbligo per l’avvocato – attualmente previsto dalla legge – di fornire il preventivo della parcella per la prestazione professionale solo in caso di domanda espressa da parte del cliente scatterà sempre e comunque. In pratica, il legale dovrà fornire il preventivo scritto anche senza una esplicita richiesta in tal senso da parte dell’assistito. La nuova norma modificherà quindi la legge di riforma dell’ordinamento forense che ora risulterà formulata in questo modo: Il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale. Associazioni e società di professionisti Potranno partecipare alle associazioni tra gli avvocati anche legali che non abbiano necessariamente il domicilio professionale presso la sede dell’associazione. L’avvocato potrà aderire a più di un’associazione. Circa la facoltà di esercizio della professione in forma societaria, per evitare contrasti con la disciplina generale in materia di società tra professionisti (STP), viene estesa agli avvocati la possibilità di costituire società per l’esercizio di attività professionali, anche multidisciplinari, con la presenza di soci di capitale non professionisti, nella misura di un terzo dei conferimenti.
Catapano Giuseppe: Debitori: subito sotto torchio
Non c’è solo il Tribunale di Mantova a dare man forte ai creditori rimasti “a secco” dai propri debitori, dopo lunghi, estenuanti e costosi pignoramenti infruttuosi. Anche il Tribunale di Novara sposa lo stesso orientamento e si aggiunge alla lista dei fori che ritengono subito applicabile la riforma dell’esecuzione forzata e, in particolare, sulla ricerca, con modalità telematiche, dei beni da pignorare. La nuova normativa consente al creditore di evitare la consueta “caccia al tesoro” di conti correnti, stipendi, pensioni, e ogni altro bene intestato al debitore solo dando una sbirciatina alle banche dati che usa il fisco per scovare l’evasione fiscale. Stiamo, cioè, parlando della famigerata Anagrafe tributaria e dell’Anagrafe dei rapporti finanziari (o più comunemente detta “dei conti correnti”), tristemente note ai contribuenti per essere gli strumenti attraverso cui l’Agenzia delle Entrate ha individuato i soggetti a maggior rischio “evasione”. Strumenti, però, che ora verranno utilizzati anche ai fini “civilistici”, ossia nelle cause tra dipendente e datore di lavoro, professionista ed ex cliente, padrone di casa e inquilino, correntista e banca e, insomma, tutte le volte in cui è in gioco un rapporto tra un creditore e un debitore. Per le modalità operative leggi: “Esecuzione forzata: la nuova ricerca telematica dei beni da pignorare” “Pignoramento: come si fa la nuova ricerca telematica dei beni del debitore” Da sempre, le principali riforme del nostro Paese – nonostante la formale e definitiva approvazione da parte del Parlamento – sono rimaste impantanate anni e anni, per via dei biblici ritardi nell’approvazione dei relativi regolamenti attuativi. E questa fine rischiava di fare anche il nuovo strumento concesso ai creditori di poter agire in esecuzione forzata: la possibilità, cioè, di chiedere all’ufficiale giudiziario, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale, di ricercare, in via telematica, i beni del debitore, accedendo alle banche dati dell’amministrazione finanziaria, viene infatti subordinata all’emanazione dei decreti ministeriali. I tribunali, però, si stanno orientando in modo diverso da una rigida interpretazione della norma. La sostanza è questa: è vero che gli uffici giudiziari non sono ancora attrezzati e necessitano delle precisazioni ministeriali che ancora non sono arrivate. Ma nulla toglie al creditore di bypassare l’ufficiale giudiziario e accedere direttamente all’anagrafe tributaria e dei conti. Lo potrà fare sempre previa autorizzazione del Presidente del Tribunale e, comunque, mai in prima persona (per evitare violazioni della privacy), ma richiedendolo ai relativi uffici dell’amministrazione finanziaria (presumibilmente l’Agenzia delle Entrate). Quando poi gli ufficiali giudiziari si saranno dotati delle strutture tecniche e delle regolamentazioni interne per operare in tal modo, la riforma andrà a regime e per l’accesso basterà rivolgersi al proprio tribunale. Qualche giorno fa avevamo commentato un provvedimento del tribunale di Mantova che spiega quanto appena detto (leggi l’articolo: “Creditori: le ricerche nell’anagrafe tributaria dei beni del debitore sono già operative”). Oggi aggiungiamo anche un precedente, dello stesso tenore, del Tribunale di Novara. Nel provvedimento in commento si precisa che l’istanza volta ad ottenere l’autorizzazione all’accesso diretto da parte degli ufficiali giudiziari alle banche dati telematiche del fisco può avvenire solo in procedimenti esecutivi iniziati dopo l’11 dicembre 2014 e solo da quando saranno emanati i decreti attuativi ministeriali. Ma nulla toglie che, nel frattempo, il creditore possa ottenere un accesso diretto alle suddette banche dati e solo se, per motivi di carattere tecnologico, non sia possibile accedere alle banche dati tramite ufficiale giudiziario (in verità, nel caso di specie, l’ordinanza termina con un diniego alla consultazione, ma solo perché il richiedente aveva fatto istanza di accesso per il tramite degli ufficiali giudiziari). Insomma, non ci sono scuse per non autorizzare il creditore ad accedere all’Anagrafe tributaria. Questa volta i debitori hanno le ore contate…
Catapano Giuseppe informa: Pensione anticipata forzata: dipendenti pubblici e cessazione d’ufficio
Dopo tanti anni di blocco delle assunzioni, all’interno degli enti pubblici, finalmente le linee programmatiche paiono mutate e volte ad un ricambio generazionale, auspicato da tempo. Giovedì scorso, difatti, è stata pubblicata un’importante circolare della Funzione Pubblica, che chiarisce il contenuto degli ultimi interventi legislativi, in materia di cessazione del rapporto lavorativo su iniziativa dell’Amministrazione. Innanzitutto, dobbiamo ricordare che, dallo scorso giugno [2], nel settore pubblico, l’istituto del trattenimento in servizio è stato abolito, così come è stata riformulata la risoluzione unilaterale del rapporto per il raggiungimento dei limiti di età e di contribuzione. A tal proposito, la circolare illustra le recenti modifiche, fornendo un’esaustiva interpretazione della normativa. Tre sono le ipotesi di pensionamento “forzato” da parte dell’Ente Pubblico: due obbligatorie, applicabili verso chi abbia maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia, ovvero il diritto alla pensione anticipata, avendo raggiunto il limite d’età ordinamentale (previsto dai singoli settori d’appartenenza); una rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione, volta a chi abbia raggiunto i parametri previsti dalla “Riforma Monti Fornero”[3] per la pensione anticipata. Quest’ultima casistica, tuttavia, presenta delle particolarità: difatti, la circolare chiarisce che, anche qualora il dipendente abbia raggiunto i requisiti per la pensione anticipata (nel 2015, 42 anni + 6 mesi di contributi per gli uomini, e 41 anni + 6 mesi per le donne), potrà essere collocato a riposo d’ufficio solo al raggiungimento dei 62 anni d’età (parametro previsto dalla Riforma Pensionistica per percepire il trattamento anticipato senza penalizzazioni). La Legge di Stabilità 2015 [4], nonostante abbia abolito le decurtazioni percentuali dell’assegno di pensione anticipata (sino al 31.12.2017), non ha comportato modifiche alla disciplina della cessazione unilaterale dal servizio, che resta, pertanto, applicabile solo al compimento del sessantaduesimo anno d’età. Per quanto concerne le ipotesi al di fuori del pensionamento anticipato, proseguire il rapporto di lavoro oltre il limite d’età ordinamentale (oppure oltre l’età prevista per il trattamento di vecchiaia) sarà permesso solo per garantire la maturazione dei requisiti minimi (20 anni di contributi) per l’accesso alla pensione; in ogni caso, non si potrà superare il settantesimo anno di età (parametro che dovrà essere periodicamente adeguato alla speranza di vita). I requisiti post Riforma Monti Fornero non devono essere rispettati in tutte le cessazioni d’ufficio: infatti, per i soggetti in possesso della quota 96 al 31.12.2011 (con almeno 60 anni d’età e 35 di contribuzione), sono sufficienti 40 anni di contributi (parametro previsto per la vecchia pensione d’anzianità). Per quanto riguarda il computo i periodi utili al raggiungimento della pensione, dovrà essere considerata tutta l’anzianità contributiva accreditata , non solo quella accantonata presso l’ex Inpdap; nel caso di contributi versati in diverse gestioni, il dipendente, per valorizzarli tutti, senza oneri, ai fini del diritto e della misura del trattamento, potrà utilizzare gli istituti della totalizzazione o del cumulo contributivo. In conclusione, dalle disposizioni emerge certamente una ratio volta al rinnovamento dei dipendenti pubblici, avvalorata dai chiarimenti forniti. Tuttavia, i provvedimenti indicati appaiono incisivi in maniera limitata: ad esempio, per garantire un turnover maggiormente efficace, sarebbe stato opportuno il pensionamento “forzato” di tutti coloro che abbiano maturato i requisiti della pensione anticipata, a prescindere dall’età, almeno sino al 31.12.2017 (data ultima per fruire del trattamento senza penalizzazioni per chi non avesse compiuto 62 anni). Ad ogni modo, per quanto non rivoluzionario, si tratta comunque di un buon inizio per il processo di ringiovanimento della Pubblica Amministrazione. – See more at: http://www.laleggepertutti.it/79341_pensione-anticipata-forzata-dipendenti-pubblici-e-cessazione-dufficio#sthash.EaROedT6.dpuf