Catapano Giuseppe: IL MOD. IVA 2015 E IL VISTO DI CONFORMITÀ

In sintesi

Per poter compensare il credito IVA per importi superiori a €
15.000 è necessaria l’apposizione del visto di conformità sulla
dichiarazione IVA annuale.
Il visto di conformità è altresì necessario per la richiesta di
rimborso del credito IVA superiore a € 15.000, al fine di evitare la
prestazione della prescritta garanzia.
Il visto può essere rilasciato esclusivamente da un soggetto iscritto
nell’apposito elenco tenuto presso la DRE.
Il “certificatore” deve eseguire una serie di verifiche tra cui il controllo
della correttezza del codice attività, della documentazione contabile
e l’individuazione delle fattispecie idonee a generare il credito IVA.
Si rammenta che per mantenere l’iscrizione, senza soluzione di
continuità, il “certificatore” deve consegnare alla competente DRE
il rinnovo della polizza assicurativa. Sul punto va evidenziata la
questione apertasi in merito all’impossibilità di assicurare il rischio
diretto per le sanzioni irrogate direttamente al “certificatore”.

 

Come noto, la compensazione nel mod. F24 del credito IVA annuale per importi superiori a €
15.000 annui:
• può essere effettuata a decorrere dal giorno 16 del mese successivo a quello di
presentazione della dichiarazione annuale;
• necessita il rilascio del visto di conformità da parte di un soggetto abilitato.
Inoltre come previsto dal Decreto “Semplificazioni”, in presenza di un rimborso del credito IVA di
importo superiore a € 15.000, richiesto da un soggetto “non a rischio”, è possibile non prestare
la prescritta garanzia presentando la dichiarazione annuale munita del visto di conformità e la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante la sussistenza di determinati requisiti patrimoniali
e la regolarità contributiva (Informativa SEAC 21.01.2015, n. 21).
Nella Circolare 30.12.2014, n. 32/E dopo aver precisato che “il legislatore ha reso coerente la
disciplina dei rimborsi IVA con quanto già previsto in materia di crediti compensabili”, l’Agenzia ha
evidenziato che:
• l’apposizione del visto di conformità è unica e ha effetto sia per la compensazione che per il
rimborso, fermo restando che per quest’ultimo è richiesta anche la dichiarazione sostitutiva di
atto notorio attestante le condizioni di solidità patrimoniale e di regolare versamento dei
contributi previdenziali e assicurativi;
• il limite di € 15.000 va calcolato separatamente per la compensazione e per il rimborso.
Così ad esempio, in presenza di un credito IVA chiesto in compensazione per € 10.000 ed a
rimborso per ulteriori € 10.000, non è necessario apporre il visto di conformità ancorché la
somma superi complessivamente la citata soglia.
In particolare si rammenta che:
• per le società di capitali assoggettate al controllo contabile ex art. 2409-bis, C.c., il visto di
conformità può essere sostituito dalla sottoscrizione della dichiarazione annuale, oltre che dal
rappresentante legale della società, anche dal soggetto a cui è stato affidato il controllo
contabile attestante l’esecuzione dei controlli previsti per il rilascio del visto ex art. 2,
comma 2, DM n. 164/99;
• per gli Enti locali, l’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione 17.9.2010, n. 90/E ha evidenziato
che “la sottoscrizione della dichiarazione da parte del Collegio dei revisori di cui all’articolo
234 del TUEL sottenda la stessa tipologia di controlli e, conseguentemente, abbia la stessa
valenza giuridica del visto di conformità previsto dall’articolo 35, comma 1, lettera a), del
D.Lgs. n. 241 del 1997”. Come precisato dalla stessa Agenzia nella citata Circolare n. 32/E, la
medesima considerazione è valida con riguardo all’organo di vigilanza della Regione,
rappresentata dal Collegio dei revisori dei conti ex art. 14, comma 1, lett e), DL n. 138/2011.
SOGGETTI ABILITATI AL RILASCIO DEL VISTO DI CONFORMITÀ
Come disposto dall’art. 35, D.Lgs. n. 241/97, il visto di conformità può essere rilasciato da un
dottore commercialista / esperto contabile, un consulente del lavoro, un perito / esperto
tributario iscritto alla data del 30.9.93 nei relativi ruoli tenuti presso la CCIAA in possesso della
laurea in giurisprudenza o economia, o equipollenti, ovvero del diploma di ragioneria, abilitato alla
trasmissione telematica, nonché da un responsabile dell’assistenza fiscale di un CAF
imprese.
• dottore commercialista / esperto contabile
• consulente del lavoro
• perito / esperto tributario iscritto alla data del 30.9.93 nei
relativi ruoli tenuti presso la CCIAA in possesso della laurea in
giurisprudenza o economia, o equipollenti, ovvero del diploma
di ragioneria
abilitato alla
trasmissione
telematica
• responsabile dell’assistenza fiscale di un CAF imprese

L’Agenzia delle Entrate nella citata Circolare n. 32/E ribadisce quanto affermato nella Circolare
25.9.2014, n. 28/E evidenziando che un professionista in possesso dei requisiti sopra esaminati
può “autonomamente” apporre il visto di conformità sulla propria dichiarazione senza doversi
rivolgere a terzi.
CONDIZIONI NECESSARIE PER IL RILASCIO DEL VISTO DI CONFORMITÀ
1. POSSESSO POLIZZA ASSICURATIVA
Il professionista per poter rilasciare il visto di conformità deve sottoscrivere una polizza
assicurativa al fine di garantire il completo risarcimento dell’eventuale danno arrecato al
contribuente, anche di minima entità. A tal fine la polizza assicurativa deve presentare le
seguenti caratteristiche:
• la copertura assicurativa deve riferirsi alla prestazione dell’assistenza fiscale senza alcuna
limitazione della garanzia ad un solo specifico modello di dichiarazione;
• il massimale della polizza, come previsto dagli artt. 6 (per le società) e 22 (per i professionisti
ed i “certificatori”), DM n. 164/99, deve essere adeguato al numero dei contribuenti assistiti,
nonché al numero dei visti di conformità, delle asseverazioni e delle certificazioni
tributarie rilasciati.
A decorrere dal 13.12.2014, l’art. 6, comma 2, lett. a) e b), D.Lgs. n. 175/2014, Decreto
“Semplificazioni”, modificando i citati artt. 6 e 22 ha previsto l’aumento del massimale a
3 milioni di euro (in luogo del previgente limite di € 1.032.913,80);
• la copertura assicurativa non deve contenere franchigie o scoperti, salvo il caso in cui la
società assicuratrice si impegni espressamente a risarcire il terzo danneggiato,
riservandosi la facoltà di rivalersi successivamente sull’assicurato per l’importo rientrante nella
franchigia;
• la polizza assicurativa deve prevedere, per gli errori commessi nel periodo di validità della
stessa, il totale risarcimento del danno denunciato nei 5 anni successivi alla scadenza del
contratto, indipendentemente dalla causa che ha determinato la cessazione del rapporto
assicurativo.
Un professionista che svolge l’attività in uno studio associato può utilizzare la polizza
assicurativa stipulata dallo studio per i rischi professionali a condizione che la stessa
preveda un’autonoma copertura per l’attività di assistenza fiscale con l’indicazione
dei professionisti abilitati e rispetti le sopra esaminate condizioni.
2. ISCRIZIONE NELL’ELENCO DEI “CERTIFICATORI”
Il professionista deve presentare alla competente Direzione Regionale delle Entrate una
specifica comunicazione al fine di essere iscritto nell’apposito elenco dei soggetti abilitati al
rilascio del visto di conformità.
In particolare, l’Agenzia delle Entrate nel Comunicato stampa 24.2.2010, ha precisato che:
“tutti i soggetti richiedenti, purché in possesso dei requisiti previsti, saranno inseriti
nell’elenco centralizzato dei soggetti abilitati all’apposizione del visto di conformità a decorrere
dalla data della comunicazione”.
L’iscrizione nell’elenco, come peraltro già chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella citata Circolare n.
57/E, è effettuata con effetto retroattivo, ossia con valenza dalla data di presentazione della
comunicazione alla DRE.
I professionisti che risultano già iscritti nell’elenco dei soggetti abilitati, al fine di mantenere, senza
soluzione di continuità, l’iscrizione nello stesso devono far pervenire alla competente DRE il
rinnovo della polizza assicurativa o l’attestato di quietanza di pagamento se il premio è stato
suddiviso in rate.

È opportuno verificare presso la competente DRE le modalità di inoltro della
documentazione in esame (in molti casi si riscontra la possibilità di effettuare l’invio non
solo tramite raccomandata A/R o fax ma anche via e-mail / pec).
A seguito delle novità introdotte dal citato Decreto “Semplificazioni” la polizza deve prevedere
anche il completo risarcimento degli (eventuali) danni arrecati all’Erario commessi nello
svolgimento dell’attività di assistenza fiscale.
Si rammenta infatti che in caso di un visto “infedele” apposto su un mod. 730, al CAF /
professionista abilitato è richiesto il pagamento di una somma pari all’imposta, sanzione e interessi
che sarebbero stati richiesti al contribuente ex art. 36-ter, DPR n. 600/73, ove l’errore non sia
imputabile a quest’ultimo.
Per i professionisti ciò si traduce in una sorta di “personalizzazione” della responsabilità tributaria.
In merito a tale aspetto si è aperta una questione giuridico-operativa non di poco conto. Si
riscontra che le compagnie di assicurazione evidenziano l’impossibilità di assicurare il rischio
diretto per le sanzioni tributarie irrogate direttamente ai professionisti collegato allo
svolgimento della loro attività.
Si riscontra che alcune DRE hanno rilevato tale “difformità” e procedono al “blocco”
dell’iscrizione al suddetto elenco. Si ritiene possibile, al fine di superare l’ostacolo, dichiarare
alla DRE che l’assistenza fiscale è limitata al rilascio del visto di conformità per i crediti IVA
e non coinvolge i modd. 730.
3. TENUTA CONTABILITÀ E PREDISPOSIZIONE DICHIARAZIONE
Il professionista che appone il visto deve tenere le scritture contabili e predisporre la
dichiarazione.
Come previsto dell’art. 23, DM n. 164/99, e confermato dall’Agenzia delle Entrate nella citata
Circolare n. 57/E, le scritture contabili si intendono tenute e la dichiarazione si intende predisposta
dal professionista abilitato anche quando sono tenute / predisposte direttamente dal
contribuente o da una società di servizi di cui uno o più professionisti posseggono la
maggioranza assoluta del capitale sociale; a condizione che tali attività siano eseguite sotto il
diretto controllo e la responsabilità del professionista abilitato.
Come precisato nella citata Circolare n. 57/E, l’Agenzia delle Entrate ha altresì specificato che il
contribuente può “rivolgersi a un CAF-imprese o a un professionista abilitato all’apposizione
del visto”, qualora le scritture contabili siano tenute da un soggetto che non può apporre il
visto di conformità.
In tal caso il contribuente dovrà fornire al CAF imprese o al professionista abilitato la
documentazione necessaria per consentire agli stessi di effettuare la verifica della conformità dei
dati esposti o da esporre nella dichiarazione.
Nella citata Circolare n. 32/E, l’Agenzia evidenzia che il predetto principio è applicabile anche, nel
caso in cui il soggetto che tiene le scritture, “astrattamente abilitato ad apporre il visto di
conformità”, sia oggettivamente impossibilitato. Se, in attuazione di specifiche disposizioni di
legge o, per atto d’autorità, sia revocato l’incarico al soggetto tenuto al controllo contabile, il visto
può essere apposto da un CAF imprese o da un professionista abilitato (ad esempio, sostituzione
del soggetto incaricato del controllo contabile da parte di un commissario straordinario, nell’ambito
di una procedura di amministrazione straordinaria).
Società di servizi
In merito alle società di servizi l’Agenzia delle Entrate nella Circolare 12.3.2010, n. 12/E ha
chiarito che:
• in presenza di più di 2 soci “tenuto conto che nessuno dei soci potrebbe possedere la
maggioranza assoluta, la norma prevede la possibilità che la stessa sia posseduta da più
professionisti che siano abilitati all’apposizione del visto di conformità”;

il requisito del possesso della maggioranza assoluta del capitale sociale da parte dei
professionisti abilitati “deve sussistere per l’intero periodo d’imposta e fino al rilascio del
visto”.
La mancanza di tale requisito temporale configura un’ipotesi di tenuta delle scritture contabili
da parte di un soggetto non abilitato al rilascio del visto. Conseguentemente, il contribuente
potrà rivolgersi ad un CAF imprese ovvero ad un professionista abilitato.
CHECK – LIST DEI CONTROLLI PER IL RILASCIO DEL VISTO DI CONFORMITÀ
Il “certificatore” per poter rilasciare il visto di conformità deve:
• eseguire una serie di controlli;
• conservare una traccia del lavoro svolto.
Come previsto dal citato art. 2, comma 2, DM n. 164/99, è necessario attestare la correttezza
formale della dichiarazione nonché la regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili.
L’Agenzia delle Entrate nella citata Circolare n. 57/E, ha chiarito che:
1
il controllo della dichiarazione annuale è finalizzato ad evitare errori materiali e di calcolo
nella determinazione dell’imponibile e dell’imposta, nonché nel riporto del credito dell’anno
precedente;
2
il controllo implica la verifica:
• della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili;
• della corrispondenza di quanto esposto in dichiarazione alle risultanze delle scritture
contabili e della corrispondenza di queste ultime con la documentazione. In via
generale, ciò si traduce nella verifica della corrispondenza tra i dati della dichiarazione
annuale con quanto annotato nei registri IVA (fatture emesse / corrispettivi / acquisti)
nonché tra questi ultimi e le fatture emesse / ricevute;
3
la predetta attività di verifica non comporta alcuna valutazione di merito, ma solo un
riscontro documentale in ordine all’ammontare delle componenti positive e negative rilevanti
ai fini IVA.
In particolare l’Agenzia richiede l’esecuzione dei seguenti controlli.
CONTROLLO CODICE ATTIVITÀ
Va verificato che il codice attività indicato nel quadro VA della dichiarazione IVA annuale
corrisponda con quello risultante dalla documentazione contabile, desunto dalla Tabella
ATECO 2007.
CONTROLLO DOCUMENTALE
L’Agenzia nella citata Circolare n. 57/E ha individuato una serie di verifiche che possono ritenersi
sufficienti per l’attestazione della corretta esecuzione dei controlli richiesti dalla normativa.
Al riguardo, innanzitutto va verificata la sussistenza delle fattispecie che, in linea generale, sono
idonee a generare il credito IVA, ossia la presenza:
• prevalente di operazioni attive soggette ad aliquota più bassa rispetto a quella sugli acquisti e
importazioni;
• di operazioni non imponibili;
• di operazioni di acquisto o importazione di beni ammortizzabili;
• di operazioni non soggette all’imposta;
• di operazioni non imponibili effettuate da produttori agricoli.

Nella citata Circolare n. 12/E l’Agenzia delle Entrate ha evidenziato che:
• il “certificatore” deve specificare “quali fattispecie hanno generato l’eccedenza di imposta
anche integrando la check-list con altre fattispecie idonee a generare l’eccedenza di imposta”;
• “in tale ottica, la prevalenza delle operazioni va considerata in funzione della capacità di
generare il credito nel caso concreto … ”.
La check-list delle fattispecie che possono aver generato il credito IVA contenuta nella citata
Circolare n. 57/E va considerata esemplificativa e non esaustiva e quindi, se necessario, va
integrata dal “certificatore” con lo specifico caso analizzato. In ogni caso la verifica “non
comporta valutazioni di merito, ma il solo riscontro formale della … corrispondenza in ordine
all’ammontare delle componenti positive e negative”.
È opportuno procedere altresì:
1 al riscontro dei saldi delle liquidazioni periodiche (mensili / trimestrali) e dei relativi
versamenti con quanto riportato nella dichiarazione IVA annuale (quadri VH e VL);
2
alla verifica dell’esposizione del credito dell’anno precedente nella dichiarazione
presentata. Con riferimento al credito IVA 2013, riportato nel 2014, si dovrà verificare che
l’ammontare dello stesso corrisponda a quello risultante dal mod. IVA 2014;
3
al riscontro che il mod. IVA 2014, in presenza di un credito IVA 2013 destinato alla
compensazione orizzontale nel mod. F24 per importi superiori a € 15.000, sia stato
“certificato”;
4
in presenza di un credito IVA destinato all’utilizzo in compensazione, pari o superiore al
volume d’affari (caso non frequente) alla verifica dell’integrale corrispondenza tra la
documentazione e i dati esposti nelle scritture contabili;
5
in presenza di un credito IVA inferiore al volume d’affari (caso più frequente) alla verifica
della documentazione rilevante ai fini IVA con imposta superiore al 10% dell’ammontare
complessivo dell’IVA detratta nell’anno.
Si ritiene che il controllo debba riguardare anche le fatture emesse. Così, ad esempio, se
l’IVA detratta nel 2014 è pari ad € 190.000 devono essere controllate tutte le fatture (acquisti /
emesse) con imposta superiore a € 19.000.
Il “certificatore” può decidere di eseguire i controlli sopra accennati utilizzando altri criteri in
base alla specifica situazione del contribuente (ad esempio, controllare le fatture con IVA
superiore al 5% dell’IVA detratta ovvero con IVA superiore a un determinato importo), in modo
da poter dimostrare che il controllo ha riguardato un campione significativo di fatture.
Documentazione
Come sopra accennato per non dover prestare la prescritta garanzia in presenza di una richiesta di
rimborso di importo superiore a € 15.000 è necessario presentare il mod. IVA munito del visto di
conformità e l’apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Come desumibile dalle istruzioni al mod. IVA 2015 la dichiarazione sostitutiva di atto notorio è
resa, barrando la relativa casella e apponendo la sottoscrizione, nell’apposito riquadro presente
nel quadro VX del mod. IVA 2015.
La dichiarazione sostitutiva di atto notorio del contribuente e la copia del documento d’identità del
sottoscrittore, vanno consegnate al soggetto che provvede all’invio della dichiarazione. Si
ritiene che di tale “acquisizione” deve essere fatta menzione nella check-list.
Inoltre, per non subire le conseguenze previste in capo alle società “di comodo” è richiesta la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante la non sussistenza dei requisiti che qualifica
le società “non operativa”.

Anche nel caso in esame le istruzioni specificano che:
• la dichiarazione sostitutiva di atto notorio è resa apponendo la sottoscrizione nell’apposito
riquadro presente nel quadro VX del mod. IVA 2015;
• la dichiarazione sostitutiva di atto notorio del contribuente e la copia del documento d’identità
del sottoscrittore, vanno consegnate al soggetto che provvede all’invio della dichiarazione.
Anche tale “acquisizione” va rilevata nella check-list.
Come sopra accennato il “certificatore” deve conservare copia di tutta la documentazione al
fine di attestare la correttezza dell’esecuzione dei controlli previsti dal citato art. 2, comma 2,
unitamente alla check-list del controllo svolto.
Nella prossima Informativa SEAC 9.2.2015, n. 40, è proposto il fac-simile (in formato word) della
check-list da utilizzare per il rilascio del visto di conformità del mod. IVA 2015, che ha effetto sia
per la compensazione che per il rimborso del credito IVA. „

Giuseppe Catapano informa: Perché la negoziazione assistita rischia di essere un fallimento?

Lunedì 9 febbraio 2015 dovrebbe essere, secondo le speranze del Governo, un giorno storico per la giustizia italiana: si passa, infatti, da una modalità “giudiziaria” per la soluzione delle controversie a una “contrattuale”. In pratica, con l’entrata in vigore della negoziazione assistita, gli avvocati avranno un ruolo chiave nella definizione anticipata e transattiva della lite. Ovviamente, si tratta di aspettative. Ma le perplessità non mancano. Perché la negoziazione assistita rischia di essere un fallimento? Perché innanzitutto essa è sempre esistita. Se si pensa alla negoziazione assistita come a un tentativo di transazione – sincero o formale che sia – avviato attraverso una preliminare lettera dell’avvocato alla controparte ed, eventualmente, concluso con un atto negoziale, allora raramente capita che il legale non tenti prima la carta della soluzione bonaria: sia per portare a casa subito il risultato (con maggiore soddisfazione del cliente), sia per risparmiare lavoro e tempi (checché se ne dica, neanche ai professionisti piace imbarcarsi in una demotivante causa lunga anni e anni). Che poi si voglia trovare la particolarità della negoziazione assistita nella presenza di un titolo esecutivo, allora esistono diversi modi per conseguirlo ugualmente: ad esempio, con l’arbitrato; o con la conciliazione presso la Direzione territoriale nelle cause di lavoro; oggi anche con la mediazione; oppure semplicemente con una transazione messa a verbale alla prima udienza. Se poi, dall’altro lato, c’è l’ostinazione di una parte che non intende “conoscere ragioni”, allora, se non è stata la diffida dell’avvocato a farle cambiare idea, non sarà certo la mano offerta da quest’ultimo per trovare una via pacifica alla vertenza. Ci sono poi due ulteriori aspetti che remano a favore del fallimento della negoziazione assistita: il primo legato ai soggetti, il secondo alle materie. 1 | I SOGGETTI Quanto ai soggetti che dirigono la negoziazione, ossia gli avvocati, la loro “provenienza di parte”, li porta comunque – un po’ per indole, un po’ per il mandato collegato alla parcella – a garantire prioritariamente l’interesse del proprio cliente, a prescindere dalla soluzione più “giusta” o, comunque conciliativa. E qui non può mancare il confronto con la mediazione: tentativo che, invece, avviene in presenza di organismi terzi e imparziali rispetto alle parti. Il mediatore, inoltre, non è propriamente un “tecnico” del diritto, ma un soggetto qualificato e formato ad assistere le parti per giungere alla possibile composizione della lite secondo la “via intermedia” tra le rispettive posizioni. Peraltro, non bisogna sottovalutare l’elemento psicologico della controparte che riceve la proposta di transazione, certamente meglio accolta se proveniente da un mediatore, terzo rispetto alle parti, che non dall’avvocato del nemico: è questo il limite intrinseco della negoziazione, che comporta aprioristicamente la svalutazione reattiva di ogni offerta posta sul tavolo, che così viene automaticamente bocciata. Dunque, se è vero che i dati statistici pubblicati cinque giorni fa dal ministero, danno l’istituto della mediazione in forte affanno (esso fallirebbe, nella maggioranza dei casi, già al primo incontro) non si vede come potrebbe fare meglio invece la negoziazione assistita. 2 | L’OGGETTO DELLA NEGOZIAZIONE Il secondo punto di criticità della negoziazione è l’ambito di applicazione della stessa, limitata solo alle controversie relative a: 1 – contratti di autotrasporto o sub-trasporto: si tratta di un ambito assai raro e, quindi, tale da non costituire, certo, la panacea per i tribunali italiani; 2 – domande di pagamento a qualsiasi titolo, per somme fino a 50mila euro: in questo caso, la previsione ha una valenza assolutamente residuale, posto che: – non vale nelle materie per cui è prevista la mediazione (si pensi, per esempio, al recupero di un credito per affitto di azienda, per un contratto assicurativo, una locazione, una successione, ereditaria, ecc.. Leggi a riguardo “In quali cause la negoziazione assistita e in quali la mediazione”); – non si applica se il creditore intende agire con decreto ingiuntivo (oltre ad una serie di altri casi): circostanza che, invece, ricorre nella stragrande maggioranza dei casi del recupero crediti. 3 – Risarcimento danno per sinistri stradali e da circolazione di natanti: qui già la mediazione (inizialmente prevista per tali controversie e poi eliminata dal “Decreto del Fare”) aveva dimostrato la totale indifferenza delle compagnie assicurative, rivolte piuttosto a utilizzare gli Adr più come sistemi per posticipare il pagamento che non per prevenire il contenzioso. Inoltre si tenga conto che, proprio nella materia dell’infortunistica stradale, la richiesta di pagamento da parte dell’avvocato è resa obbligatoria dalla stessa legge (con conseguente offerta reale che deve intervenire entro 60 giorni in caso di danni a cose o entro 90 per danni a persone). E dunque, la richiesta di negoziazione assistita rischia di diventare una inutile duplicazione della diffida già inviata dall’avvocato, con conseguente dispendio di tempi.

Giuseppe Catapano informa: Regole anti-stalking dalla Cassazione

Il giudice può vietare allo stalker di avvicinarsi a luoghi determinati che, di solito, sono frequentati dalla vittima o gli può imporre di mantenere una certa distanza dalla persona offesa. Nel fare ciò, però, non può essere generico, ma deve indicare in modo specifico e dettagliato tutti i posti per i quali sussiste tale divieto di avvicinamento. Infatti non è concepibile un vago riferimento “a tutti i luoghi frequentati” dalla vittima. Questo perché, diversamente, si arriverebbe alla paradossale conclusione che a determinare il contenuto del provvedimento giudiziale sarebbe la stessa vittima nel momento in cui, quotidianamente, decide dove andare. Insomma, sarebbe assurdo obbligare lo stalker a prevedere i luoghi dove potrebbe incontrare la vittima e, quindi, a evitarli in anticipo. A dirlo è una sentenza della Cassazione dell’altro ieri che ha stabilito, di fatto, il decalogo al quale il giudice deve attenersi nel contemperare l’esigenza di tutela della vittima di stalking da un lato e la libertà di movimento del persecutore dall’altro. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto illegittimo il provvedimento del giudice che aveva vietato a uno stalker di recarsi in due Comuni solo perché potenzialmente frequentati dalla parte offesa. Insomma, il provvedimento del tribunale “anti-stalker” non può limitarsi a vietare all’imputato o all’indagato di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima come il posto di lavoro, la casa della famiglia della vittima o dei prossimi congiunti. Ciò finirebbe per essere troppo generico. L’aggressore, infatti, può non sapere quali sono e se questi sono destinati a variare, senza contare che il divieto assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell’offeso. Si potrebbe arrivare al paradosso di imporre allo stalker di allontanarsi da un luogo anche quando è la vittima ad avvicinarsi a questo. E allora – sottolinea la sentenza in commento – è molto meglio imporre allo stalker il divieto di “avvicinarsi alla persona offesa” tenendo una giusta distanza da lei. Cosa non può fare, concretamente, lo stalker? Certamente non può pedinare la vittima, anche in luoghi occasionali. Non la può avvicinare, né cercare di contattarla in alcun modo: né a parole, né con gli scritti, né col cellulare, gli sms, le email o usando le nuove tecnologie come Facebook per esempio. Addirittura non la può guardare, quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d’animo.

Giuseppe Catapano scrive: Gratuito patrocinio a spese dello Stato: le ultime sentenze

Il patrocinio a spese dello Stato, per quanto riguarda l’assistenza dell’avvocato, è dovuto anche per la fase di mediazione, anche se questa viene chiusa positivamente e non sfocia in un procedimento giudiziario. Quindi, chi rientra nei requisiti per il gratuito patrocinio, può chiedere che la parcella del proprio difensore di fiducia per l’attività svolta dinanzi agli organismi, e prevista dalla legge come obbligatoria prima di poter procedere in tribunale, sia pagata dallo Stato. In materia di gratuito patrocinio, ai fini della determinazione del limite di reddito per l’ammissione al beneficio, vanno calcolati tutti i redditi, compresi quelli soggetti a tassazione separata. Quindi, per fare un esempio, vanno considerati anche gli emolumenti percepiti a titolo di arretrati di lavoro dipendente. Il ricorrente in Cassazione ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, in caso di rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Il chiarimento proviene dalla stessa Suprema Corte. In tema di patrocinio a spese dello Stato, la revoca del provvedimento di ammissione può essere disposta solo qualora non sussistessero in origine o siano venute meno le condizioni di reddito oppure se l’interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Invece, la condotta dell’avvocato che taccia, nel corso del processo, circa l’ammissione al beneficio del proprio cliente non ne giustifica la revoca, salvi gli eventuali effetti sul piano disciplinare o della permanenza nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato. Nel patrocinio a spese dello Stato, il decreto di liquidazione del compenso al difensore non è revocabile, né modificabile, d’ufficio, poiché l’autorità giudiziaria che lo emette, salvi i casi espressamente previsti di decadenza dal beneficio (per mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti), consuma il suo potere decisionale e non ha il potere di autotutela tipico dell’azione amministrativa. Al fine di ottenere il gratuito patrocinio non devono essere cumulati i redditi dei separati in casa poiché la semplice situazione fisica di convivenza o coabitazione non basta per includere i redditi del convivente nel reddito complessivo del soggetto istante. Ulteriore chiarimento della Cassazione: in tema di ammissione al gratuito patrocinio, la titolarità di partita IVA non costituisce, di per sé, elemento presuntivo sufficiente ai fini del giudizio di superamento dei limiti di reddito. In tema di gratuito patrocinio, la legge dispone che il reddito computabile ai fini della ammissione al beneficio in parola è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante, sul presupposto che l’interessato conviva con il coniuge o con altri familiari; la natura di familiare fiscalmente a carico non convivente è status non coincidente con quello (familiare convivente) che assume rilievo per l’ammissione e il mantenimento del beneficio in questione.

Catapano Giuseppe: Avvocati: vietato scrivere articoli e indicare i recapiti dello studio

L’avvocato che scrive un articolo su un giornale non può indicare, accanto alla sua firma, i recapiti del proprio studio. È questa la sintesi di una sentenza del Cnf  pubblicata, nei giorni scorsi, sul suo sito internet.

Si tratta dell’ennesima decisione contraria ai tempi e, soprattutto, allo spirito di una professione moderna, che vorrebbe rispolverare la propria immagine, costruendo un nuovo rapporto con la cittadinanza, in una dialettica di comunicazione diretta e senza intermediazioni. La sentenza del Cnf tenta di spezzare quel filo diretto tra professionisti e collettività, mai avuto in precedenza, dove i primi svolgono anche un servizio in funzione del popolo, sfruttando il libero accesso ai media, anche nell’ottica di combattere la crisi di una professione ormai messa ai margini non solo dal legislatore, ma anche dalle stesse istituzioni che dovrebbero rappresentarla. Il Cnf ha confermato la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi nei confronti di un avvocato che teneva una rubrica in un quotidiano nazionale dove, a margine di ogni articolo (che conteneva consigli e pareri), indicava oltre al proprio nome e cognome, anche il numero di telefono, il fax e l’indirizzo dello studio. Secondo, però, il Consiglio Nazionale Forense, si tratterebbe di un comportamento vietato dalla deontologia forense, in quanto diretto ad accaparrare e sviare la clientela: insomma, una condotta di tale tipo sarebbe anticoncorrenziale, secondo l’interpretazione tutta particolare di “concorrenza” che intende il Cnf. L’aver inserito i recapiti del proprio studio sul giornale – chiarisce la sentenza – integra una forma di pubblicità non ammessa dai canoni del codice deontologico, in quanto ha la conseguenza di accaparrarsi le richieste di pareri e consigli legali da parte dei lettori e, quindi, di sviare la clientela. Gli effetti su internet La sentenza finisce per avere effetti perversi anche sul web. Il principio, infatti, si riferisce all’uso della stampa in sé, al di là se cartacea o telematica. Con la conseguenza che l’avvocato che scriva un articolo su un internet, e in esso riporti gli estremi del proprio studio legale, l’email o il link al proprio sito, finirebbe – secondo il Cnf – per commettere un illecito deontologico. E poiché una regola, se valida, va applicata a prescindere dalle “dimensioni” del caso concreto, si arriva all’assurda conseguenza secondo cui tutti gli avvocati non potranno più scrivere su blog o siti online, anche di piccole dimensioni, indicando i propri “indirizzi telematici” (email o link al sito internet). Insomma, il Cnf ce la sta mettendo tutta per allontanare i legali dalle nuove forme di comunicazione, dal web e da ogni altro modo per uscire da una dimensione “territoriale” dell’avvocatura. Lo stesso Cnf che da un lato consente la possibilità di pubblicare inserzioni pubblicitarie (o meglio “comunicazioni alla clientela”) su un giornale tradizionale e, nello stesso tempo, vieta lo stesso tipo di avviso con un banner di Google Adwords. Quel Cnf che, mentre consente ad alcuni studi di collocare dei cartelli pubblicitari sugli autobus delle città, nello stesso tempo vieta ad altri avvocati di essere ospitati su un dominio internet non proprio, come una fanpage di Facebook.

Giuseppe Catapano informa: Equitalia: se anche inizi a pagare puoi sempre impugnare la cartella non notificata

Hai iniziato a pagare (o hai pagato integralmente) una cartella esattoriale e solo dopo ti sei accorto che la notifica non era avvenuta correttamente? Sei sempre in tempo per impugnarla (e, quindi, chiedere il rimborso di quanto anticipato): questo perché il pagamento anticipato non sana i vizi di notifica. Lo ha chiarito la Cassazione con una tanto recente quanto importante sentenza . Il principio di raggiungimento dello scopo Il codice di procedura civile  stabilisce che non può considerarsi nullo un atto che, pur carente dei requisiti essenziali, abbia comunque raggiunto il suo scopo, cioè sia arrivato a conoscenza del destinatario e questi abbia avuto la possibilità di difendersi. Questo principio vale soprattutto in tema di notifiche: per cui, se il contribuente viene, in qualsiasi modo, a conoscenza del plico, allora non può, nello stesso tempo, impugnarlo davanti al giudice, sostenendo di non averne mai ricevuto una corretta notifica. Il pagamento non è raggiungimento dello scopo Questo principio, però, non si applica nel caso in cui il contribuente abbia pagato la cartella di pagamento. In soldoni, il fatto di aver già sborsato i soldi in favore dell’Agente della riscossione non impedisce di contestare la cartella in un secondo momento. Secondo, infatti, la sentenza in commento, il pagamento della pretesa fiscale non sana la nullità della relativa notifica. Il pagamento, insomma, non può considerarsi come elemento per ritenere che l’atto abbia raggiunto il suo scopo. Il cittadino, infatti, potrebbe aver aperto il portafogli per altri scopi come, per esempio, evitare un’ipoteca, il fermo dell’auto o il blocco del conto corrente. Ciò vale ancor di più tutte le volte in cui il vizio della cartella o della notifica non è quello della nullità, ma della inesistenza. La differenza è macroscopica: a dispetto della nullità (che, evidentemente, in alcuni casi può essere sanata), l’inesistenza è insanabile perché ricorre tutte le volte in cui vengono violate norme di legge particolarmente importanti, poste a garanzia del contribuente. Tale sarebbe, per esempio, il caso di mancanza di firma del direttore dell’Agenzia delle Entrate sull’avviso di accertamento. O ancora, la mancanza di date sulla relata di notifica. O, ancora, la consegna della cartella esattoriale effettuata da una posta privata e non da Poste Italiane. Risultato: il fatto di aver iniziato a pagare Equitalia (o aver pagato integralmente tutto il debito) non impedisce al contribuente di impugnare la cartella viziata, poiché il far fronte alla pretesa tributaria non equivale a sanare il vizio della notifica. E, in più, nel caso in cui il vizio della cartella o della sua notifica non sia quello della nullità, ma della inesistenza, non esistono termini di scadenza per l’impugnazione. Dunque, è nulla l’ipoteca dell’esattore, in caso di recapito dell’accertamento a un indirizzo sbagliato, anche quando il cittadino abbia saldato tutto o parte del debito. Il pagamento non sana il vizio nella procedura attuata dalla società di riscossione.

Catapano Giuseppe osserva: L’affido condiviso va garantito: il padre è capace di accudire il figlio anche se piccolissimo

Dopo la separazione, il diritto del genitore a vedere i propri figli che vivono con l’ex non può subire alcun tipo di limitazione, neanche se il figlio è ancora in tenera età e si presume che il padre possa essere inadeguato a tale compito. Qualsiasi tipo di intesa o difficoltà nella gestione degli incontri con i minori deve essere rimossa dagli ex per consentire alla prole il costante contatto con i genitori. E’ quanto emerge da una recente pronuncia del Tribunale di Milano. L’affidamento In caso di separazione, la regola vuole che i figli vengano affidati ad entrambi i genitori (il cosiddetto “affido condiviso”) e collocati in modo prevalente presso uno dei due (di solito, la madre) con pieno diritto dell’altro a frequentarli secondo un calendario concordato dalle parti ovvero, in caso di disaccordo, stabilito dal giudice. La soluzione opposta, quella cioè dell’affido esclusivo, rimane circoscritta a casi estremi di comprovata incapacità di un genitore a prendersi cura della prole e indipendentemente dalla fisiologica conflittualità esistente tra gli ex (per un approfondimento sul tema leggi: “Richiesta di affido esclusivo: quali presupposti e alternative?”). Non di rado accade, tuttavia, che uno dei genitori (spesso la madre), ritenendosi l’unico in grado di comprendere appieno le esigenze dei minori (specie se molto piccoli), ostacoli la conclusione degli accordi di separazione riguardanti la prole o li subordini a condizioni che finiscono col rendere l’affido condiviso più che altro una formalità. Molti padri separati si trovano così a veder calpestato il loro pieno diritto a stare con i figli dietro soluzioni consensuali solo apparenti. Gli accordi non possono essere in danno del minore A riguardo, però, è importante ricordare che il tribunale non può dare valore (attraverso la cosiddetta omologazione) a qualsiasi genere di accordo concluso tra i genitori: ad esempio non potrebbe mai essere omologata una convenzione in cui uno dei genitori si dichiari disponibile a rinunciare all’affidamento dei figli in quanto è un diritto del minore avere “due genitori”. Il giudice, quindi, è libero di discostarsi da eventuali clausole che ritenga in qualche modo pregiudizievoli per i figli minori in quanto non riconoscano loro il diritto di mantenere legami con ciascun genitore e parente di questo (come i nonni) e di potersi sviluppare in un ambiente sano. Il problema è stato affrontato dal Tribunale di Milano in una pronuncia di pochi giorni fa , riferita ad un procedimento nel quale una madre intendeva limitare il diritto del padre a stare con la figlia in ragione della tenera età di quest’ultima. In particolare, il giudice meneghino ha affermato che il diritto di visita del genitore che non vivrà stabilmente con la prole (cosiddetto “non collocatario”) non può subire limitazioni nei termini in cui spesso vorrebbe l’altro. Al genitore non collocatario deve essere, infatti, assicurato di poter trascorrere con i figli tempi di permanenza idonei ad garantire una certa continuità nei rapporti (come degli interi week end e tempi infrasettimanali), sempre che ciò non interferisca con la normale organizzazione di vita domestica e consenta la conservazione dell’habitat principale dei minori presso il genitore con cui i figli risiedono in modo abituale. Quando il magistrato, però, regola i suddetti tempi di permanenza, egli si limita a fissare solo una “cornice minima” degli stessi che poi deve essere pienamente adeguata alle esigenze delle famiglia e all’interesse dei minori. Spetta, cioè, ai genitori mostrarsi in grado di riempire tale cornice, sapendo comprendere le circostanze del momento (ad esempio i bisogni dettati dall’età e dall’indole del bambino). Tuttavia, si legge in sentenza, regolare i tempi di permanenza dei figli è cosa ben diversa dal limitarli in modo significativo (ad esempio stabilendo che il genitore non possa vedere i figli da solo o non sia libero di scegliere dove trascorrere con loro il tempo). Le limitazioni infatti al diritto/dovere dei genitori di intrattenere con i figli un rapporto continuativo, possono basarsi solo sulla prova che tale rapporto possa in qualche modo essere dannoso per i minori. E certamente ritenere che un padre non possa essere in grado di occuparsi di un bambino solo per via delle sua tenera età (nel caso di specie di 2 anni), è una conclusione che si fonda su un pregiudizio che conduce a ritenere diseguali le figure dei genitori e i loro rapporti con i figli. Nessuna scuola insegna come diventare madri e padri, ma – si legge in sentenza – “la genitorialità si apprende facendo i genitori e, dunque, solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze genitoriali”.

Giuseppe Catapano: Reato introdursi in casa propria ma assegnata all’ex dopo la separazione

Entrare in casa propria, dopo che questa è stata assegnata all’altro coniuge a seguito di un procedimento di separazione giudiziale, fa scattare una condanna penale. Accade spesso che il provvedimento di assegnazione della casa coniugale da parte del giudice della separazione  non venga preso di buon grado dal coniuge estromesso. Ciò non solo a causa della conseguente necessità per quest’ultimo di procurarsi una nuova collocazione abitativa (sobbarcandosi così nuove spese), ma soprattutto per l’impossibilità di ricavare un reddito dal bene (grazie alla sua vendita o locazione) quando egli ne si sia anche proprietario (o comproprietario). La pronuncia del tribunale, infatti, fa perdere al coniuge cui non sia stato assegnato l’immobile ogni diritto di uso e godimento su di esso. Ne consegue che, nel caso in cui questi si introduca in modo arbitrario nell’immobile assegnato all’ex, rischia la condanna per il reato di violazione di domicilio, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la pena più severa (da tre a cinque anni) se commesso con violenza sulle cose o sulle persone. È quanto ricorda la Cassazione in una recente sentenza. Il caso è quello di una ex moglie che, forzando la porta d’ingresso, si era introdotta all’interno dell’ex casa coniugale assegnata al marito e lo aveva aggredito dopo aver danneggiato le suppellettili dell’appartamento. In particolare, la Suprema Corte sottolinea che, affinché possa individuarsi la responsabilità penale in capo al coniuge, sono da considerarsi irrilevanti circostanze quali: – il titolo di proprietà (o comproprietà) sul bene: esso è infatti indipendente dal diritto al pieno godimento da parte dell’assegnatario; – o l’aver ricevuto le chiavi di casa dall’ex: il possesso delle chiavi non autorizza, infatti, il soggetto estromesso ad introdursi nell’immobile contro la volontà dell’assegnatario e, tra l’altro, contrasta con l’ingresso forzato in casa. Stesso reato, vale la pena ricordarlo, lo commette anche il coniuge che, a seguito del provvedimento del giudice, si rifiuti di lasciare la casa coniugale (leggi: Assegnazione della casa familiare: cosa fare se l’ex non se ne va), in quanto l’assegnatario dell’immobile ha diritto, dopo la separazione, a veder rispettata la propria vita privata e assicurata la cessazione di una convivenza divenuta ormai intollerabile. A tale riguardo, giova però precisare che, anche qualora i coniugi vivano sotto il tetto coniugale da “separati in casa”, è sempre necessario attendere che il giudice si pronunci sull’assegnazione del bene prima di prendere qualsiasi iniziativa. In mancanza, infatti, il coniuge che decida di cambiare le serrature della casa familiare in comproprietà – anche se l’ex si allontani volontariamente preannunciando la volontà di separarsi -incorrerebbe nell’ulteriore reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale rappresenta, quindi, uno spartiacque essenziale al fine della individuazione della eventuale responsabilità penale in capo a uno o all’altro dei coniugi.

Catapano Giuseppe comunica: COMPETENZE CHIARE

Il piano anti-dissesto idrogeologico dovrebbe essere – non da oggi, ma da anni – l’espressione dell’azione lunga e costante di manutenzione con cui lo Stato si prende cura del territorio e invece è stato e resta l’espressione massima del caos istituzionale in cui versa lo Stato italiano dalla riforma del titolo V. avremmo bisogno di un fondo unico a risorse costanti negli anni, competenze straordinarie alle Regioni e poteri sostitutivi (anche di revoca delle risorse) allo Stato, progetti esecutivi, esclusione dal patto di stabilità. Abbiamo, invece, un minestrone di inefficienze che segna il massimo di distanza fra politica e cittadini.

Il passato recente è segnato da sovrapposizioni e polverizzazione di competenze, conflitti insensati fra governo e regioni, soggetti con grandi responsabilità ma poteri scarsi: significativa su tutti e tre questi fronti, la storia dei commissari straordinari nominati dal Governo negli anni scorsi per superare le inerzie locali ma bloccati nella loro attività dal mancato passaggio di poteri e carte da parte delle Regioni. Ma non è tutto qui. C’è frammentazione e disordine programmatorio senza una volontà o un disegno strategico o una regìa unitari, progetti inesistenti e sempre rinviati. C’è un caos alimentato dalla volontà di non decidere: anche quando non si è intervenuti a far rispettare i vincoli idrogeologici previsti dalla pianificazione territoriale. C’è l’onnipresente patto di stabilità interno, longa manus di una politica rigorista voluta da Bruxelles ma in cui hanno sguazzato i ministri dell’Economia contenti di programmare opere destinate solo a creare residui passivi. Un cambiamento si è visto negli ultimi mesi. Anzitutto perché il livello e il ritmo delle tragedie si è fatto insostenibile. In secondo luogo perché il governo Renzi ha posto subito il dissesto idrogeologico tra le priorità su cui intervenire – l’altra è l’edilizia scolastica – e, consapevole del disordine istituzionale, ha creato a Palazzo Chigi una unità di missione che suona come commissariamento più che come coordinamento. È stato avviato un percorso di cambiamento ma il cammino è lungo e le resistenze molte. Vediamo cosa si dovrebbe fare e cosa si è cominciato a fare.

Le competenze regionali.

Con la nomina dei presidenti delle Regioni a commissari di governo si è accorciata la catena di comando e dovrebbe essere superata l’impasse che nasceva dal conflitto fra governo e regioni. Resta l’accentramento di poteri in un commissario straordinario ma questi poteri non creano più dualismo con le competenze regionali. Ora i commissari dovranno superare la prova dei rapporti con gli enti locali: bisognerà capire se i commissari-governatori agiranno in caso di inerzia di sindaci e amministratori locali. Vanno rafforzati i poteri sostitutivi centrali e regionali: revoca delle risorse per chi non spende e commissariamenti per chi non fa progettazioni e appalti.

Il coordinamento di Palazzo Chigi.

L’unità di missione guidata da Erasmo D’Angelis a Palazzo Chigi ha superato l’atteggiamento che faceva della presidenza del Consiglio un profeta disarmato. Alcuni risultati: ha fatto da detonatore svegliando un ministero dell’Ambiente che in passato era stato elemento di confusione e rallentamento, anziché di accelerazione (e va a merito del ministro Galletti che l’azione sia stata coordinata e non “concorrenziale”); ha svolto un’azione di monitoraggio a tutto campo dando pubblicità a numeri che erano fermi nei cassetti dei poteri locali e ministeriali; ha sventolato la minaccia di revoca di fondi che da sola è bastata a svegliare i sindaci dormienti .

Programmazione e fondo unico.

C’è ancora molto caos sul fronte delle risorse disponibili: qui le minacce di revoca dei fondi a vecchi progetti incagliati non bastano a dare continuità all’intervento. Un salto di qualità si farà se il governo riuscirà a dare sostanza al piano 2014-2020. È importante che Delrio e Galletti lo abbiano annunciato, dando un orizzonte temporale chiaro e lungo agli interventi. Ma siamo agli annunci, appunto, e ora bisogna riempirlo di risorse e progetti. Fondi Ue, richieste al <piano Juncker>, connessione fra vecchie e nuove risorse: va tutto bene ma non se ne uscirà finché per questo settore non si passerà a un fondo unico a risorse costanti negli anni. Questo è il vero salto che Renzi dovrebbe fare al governo sul fronte Economia-Ragioneria: pochi fondi unici a risorse costanti per le priorità di investimento. Un fondo per le infrastrutture, uno per l’edilizia scolastica, uno per la difesa del suolo, con importi predeterminati che tolgano alla legge di stabilità annuale il potere di fare e disfare. Costanza e chiarezza nel tempo, questo serve. Va da sé che a queste priorità andrebbero assegnate anche chiare quote di deroga al patto di stabilità interno.

Progettazione in ritardo.

Resta l’altro fronte critico: la progettazione. Basta guardare gli interventi definiti di massima priorità, come quelli nelle aree metropolitane, per vedere che si sta ancora lavorando a progetti definitivi (non esecutivi), se non ancora, in certi casi, a studi di fattibilità. Anche qui l’unità di missione prova a spingere e qualche risultato l’ha ottenuto (per esempio sul Tagliamento). Ma l’inadeguatezza della progettazione resta il male assoluto italiano e nessuno ancora lo ha messo al centro delle politiche sul territorio. Non si potrà passare da una spesa di 200 milioni a una spesa di un miliardo l’anno senza task force di progettisti (interni ed esterni alla Pa) che si dedichino alla prima fase dell’Investimento, quella da cui dipendono costi e tempi.

Giuseppe Catapano scrive: Punto di partenza senza spazio

Se il “metodo Barbuto” sia ripetibile  su larga scala si vedrà.

Ambizioso ?  tagliare di circa 800 mila liti il contenzioso civile arretrato. Appare però già più realistico di quello che si è dato il capo del Governo, che punta a dimezzare i 5 milioni e rotti di cause in giacenza entro la fine della legislatura. Intanto si può però osservare che sono rispettate corrette basi metodologiche. Prima di intervenire sarebbe sempre meglio conoscere. E certo il lavoro messo a punto dallo staff del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è imponente, in parte accorpando i risultati di precedenti ricerche statistiche (per esempio quelle sugli uffici “virtuosi”) in parte proponendo rivelazioni inedite. Con il pregio di essere stato svolto in poco tempo e di legare già adesso studi e definizione della priorità.

Va in questa direzione l’individuazione del paletto dei tre anni di vetustà del contenzioso da aggredire . Tenendo conto di un dato di fatto, certificato dalle varie e successive rilevazioni in sede europea: la produttività della Magistratura Italiana non ha nulla da invidiare a quella delle migliori europee. A fare la differenza, emerge, neanche troppo tra le righe, nella relazione di Barbuto di accompagnamento allo studio, sono le capacità organizzative e la difficoltà a fare scelte da parte dei vertici degli uffici.

Avere ben chiara la scala degli obiettivi è allora determinante. E in questo senso la moral suasion del nuovo capo di Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria è già partita.

 Il lavoro reso pubblico  dal Ministero della Giustizia ha anche un pregio ulteriore, perché squaderna un’Italia giudiziaria veramente “a macchia di leopardo”. Dove, ufficio per ufficio, sono oggi disponibili i dati sulle piante organiche dei magistrati e del personale amministrativo, del loro rapporto rispetto al bacino di utenza e dei rispettivi tassi di scopertura, del numero di affari introdotti e di quelli definiti (anche in rapporto alla produttività del singolo magistrato). Certo, dati che avranno bisogno di spiegazioni e magari, di ulteriori affinamenti, ma che, intanto, rappresentano, anche per il loro grado di aggiornamento (2013), un punto di partenza fondamentale per chi intende riflettere sull’organizzazione della giustizia.

Nello stesso tempo sono messi a disposizione elementi di giudizio sulle future scelte del ministero. Per esempio sulla collocazione delle nuove assunzioni promesse per il personale amministrativo oppure su utilizzo e destinazione dei budget per il processo telematico.

A cura del Prof. Giuseppe Catapano