Dobbiamo preliminarmente avvertire quanto possa essere pericoloso, quando si opera con l’estero, basarsi esclusivamente sulla propria capacità e fantasia imprenditoriale e non tenere in debito conto, quando poi dobbiamo procedere alla stipula del contratto, le regole di natura giuridica che dovranno disciplinare il contratto stesso. Il presente intervento, e quelli che poi seguiranno, si propongono proprio di affrontare tale problematica, ovviamente in una ottica generale e con taglio di natura estremamente pratica, al fine di avviare i lettori ad una prima conoscenza di base sui meccanismi che regolano i contratti internazionali. Un imprenditore sa bene che quando opera con l’estero i rischi possono essere maggiori rispetto a quando si intraprendono affari all’interno e deve quindi evitare il più possibile di incorrere in “infortuni commerciali” che, talvolta, possono mettere in seria difficoltà, la propria azienda. Detto questo, diamo senz’altro per scontato che un contratto internazionale, sia pure tecnicamente perfetto, non costituisce di per se stesso una garanzia invulnerabile per il buon fine della transazione commerciale. Potrà comunque esserci riconosciuto che un contratto internazionale correttamente impostato può prevenire o quanto meno ridurre l’insorgere di eventuali controversie, mentre una equivoca o non chiara formulazione delle clausole contrattuali può invece favorire, anche pretestuosamente, contestazioni o inadempienze che fanno perdere alle aziende molto tempo e spesso anche molto denaro. Possiamo a tal proposito fare l’esempio del licenziatario che, avendo ricevuto dal licenziante la documentazione ed il know- how pattuiti in contratto, tenta poi di sottrarsi al pagamento delle royalties. Altro può essere il caso in cui in un contratto di agenzia, pur essendosi pattuito che in caso di cessazione dello stesso non sarebbe spettata alcuna indennità di fine rapporto, l’azienda preponente si senta poi richiedere dall’agente, senza averlo previsto, il pagamento, a volte di una forte somma, proprio a tale titolo. Un’altra eventualità abbastanza comune è quella in cui il compratore estero, pur avendo ordinato un certo prodotto, non ha più interesse a ritirarlo e accampa una serie di eccezioni o contestazioni. In questo caso se le clausole contrattuali sono state stilate in modo tale da rendere assai ristretto lo spazio per imbastire manovre pretestuose e se è stato pattuito in modo chiaro secondo quali modalità devono essere risolte le eventuali vertenze (ad esempio con il ricorso all’arbitrato ) è assai probabile che la semplice minaccia di una azione legale possa indurre la controparte estera a non persistere nel suo tentativo di sottrarsi ai propri obblighi e possa comunque essere trovata una soluzione. È al riguardo preliminarmente da avvertire che una qualsiasi transazione con controparte estera dovrebbe sempre trovare una regolamentazione scritta mediante la predisposizione di apposito contratto. È pur vero che, sotto il profilo strettamente giuridico, in talune situazioni un contratto può validamente formarsi anche mediante un semplice accordo verbale. Tuttavia bisogna tener presente che l’esistenza di un accordo scritto assume fondamentale importanza nell’eventualità che fra le parti insorga una controversia, in quanto tale documento costituisce il principale elemento in base al quale verrà emessa la decisione finale. Difatti potrà presentare una certa difficoltà per la parte interessata provare per testi o comunque documentare eventuali accordi avvenuti per telefono o in occasione di incontri, oppure intese modificative o integrative del contratto stesso che non trovino riscontro in un patto scritto. Peraltro la prova per testi di un contratto soffre, in linea generale ,nell’ordinamento italiano, di alcune limitazioni ed è in pratica rimessa alla discrezionale valutazione del giudice. In ogni caso, a prescindere dal contenuto negoziale del contratto, che ovviamente dovrà essere attentamente vagliato per conseguire le condizioni più favorevoli per la nostra azienda, le scelte di base che l’operatore deve effettuare sono le seguenti: – quale legge applicare al contratto; – a quale giudice affidare la decisione di eventuali controversie che dovessero insorgere tra le parti, anche in relazione all’eventuale necessità del riconoscimento della sentenza nel Paese della controparte. – l’eventuale ricorso all’arbitrato internazionale nella ipotesi in cui particolari situazioni rendano opportuno o necessario l’utilizzo di tale particolare strumento per la risoluzione delle controversie.
Giorno: 9 febbraio 2015
Giuseppe Catapano comunica: Il Consulente Finanziario Indipendente
Nel panorama finanziario italiano il consulente finanziario indipendente è ancora una figura poco conosciuta dai non addetti ai lavoratori.
Da un punto di vista giuridico la figura professionale fa riferimento al contratto d’opera e s’inquadra nella categoria dei prestatori d’opera intellettuale. Il Consulente Finanziario Indipendente è quindi un libero professionista, esattamente come l’avvocato ed il commercialista e, come loro, viene pagato direttamente ed esclusivamente dai loro clienti attraverso una parcella (fee only). Non lavora per nessuna banca, società finanziaria o assicurativa, e non intrattiene con queste alcun rapporto di “collaborazione”, non vende nessun prodotto e di conseguenza non riceve nè percentuali, nè provvigioni sul collocamento di prodotti. Si distingue quindi nettamente da altre figure conosciute come il promotore finanziario, il private banker, il broker o l’assicuratore che sono pagati da altri per collocare prodotti finanziari. Di conseguenza il consulente finanziario indipendente è l’unico professionista in ambito finanziario che si colloca totalmente dalla parte del cliente, con il quale collabora in virtù di un contratto annuale di consulenza. Anche l’ambito di operatività è molto più ampio rispetto alle figure citate in precedenza, in quanto non si limita esclusivamente alla gestione del patrimonio dei propri clienti, ma riguarda anche la consulenza all’imprenditore ed alla sua azienda relativamente alle forme migliori di finanziamento, alle garanzie bancarie, configurandosi spesso come un direttore finanziario in outsourcing. Analizza derivati sottoscritti da aziende, enti pubblici, si occupa di anatocismo ed usura. Per quanto riguarda gli investimenti, il consulente finanziario indipendente effettua una vera e propria pianificazione. In riferimento agli obiettivi ed alle esigenze dei propri clienti, fornisce indicazioni circa la riorganizzazione del patrimonio, ottimizzando le varie aree di intervento: finanziaria, assicurativa, immobiliare, fiscale e successoria. All’atto pratico, relativamente alla parte finanziaria ed assicurativa, analizza in una prima fase i prodotti già detenuti in portafoglio dal suo cliente e la loro qualità, spesso di difficile comprensione. Elimina i costi inutili ed esagerati, indirizzando il cliente verso strumenti e scelte efficienti, ottenendo il duplice effetto di far risparmiare costi e commissioni e nel contempo di ottenere performance migliori. I consigli profusi contribuiranno alla costruzione di un portafoglio ottimale a solo ed esclusivo beneficio del cliente. Il consulente finanziario indipendente non detiene mai password o mezzi di pagamento dei propri clienti che, quindi, sia da un punto di vista psicologico che pratico sono completamente tranquilli e tutelati, mantenendo i rapporti nelle banche da loro prescelte, senza spostare il denaro. È bene precisare che la consulenza gratuita svolta dalle banche o dai promotori finanziari, non è vera e propria consulenza ma promozione, finalizzata alla vendita di un “prodotto” e non è gratuita come erroneamente si pensa, in quanto i prodotti proposti hanno una struttura di costi espliciti ed impliciti che non sempre viene chiaramente esplicitata al cliente e spesso è decisamente elevata. Ciò che è bene evidenziare è che, in ogni caso, la parcella è sempre di gran lunga inferiore rispetto alle commissioni ed ai costi occulti praticati dalla banca, assicurazione o fondo d’investimento direttamente a fronte degli investimenti effettuati. Purtroppo il risparmiatore non è a conoscenza e non ha la percezione delle tipologie di “prelievi” a cui è soggetto. A conti fatti la parcella si “paga da sé” grazie all’efficienza delle scelte consigliate, ai risultati ottenuti e al risparmio di costi inutili.
Catapano Giuseppe informa: Pensione d’inabilità ordinaria 2015, requisiti e modalità d’accesso
La pensione di inabilità ordinaria è un trattamento che spetta ai lavoratori dipendenti o autonomi, affetti da un’infermità fisica o mentale, non dovuta a cause di servizio o lavoro. L’istituto è stato previsto da una legge del 1984 e “riordinato” dalla Riforma Dini , ed è applicabile sia ai dipendenti privati che ai pubblici (per questi ultimi, con alcune peculiarità).
CONDIZIONI
Le condizioni per ottenerla sono:
– un’assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa, accertata dalla commissione medica competente;
– almeno cinque anni di anzianità contributiva, di cui tre versati nel quinquennio precedente alla data della domanda di pensione.
Ovviamente, per aver diritto al trattamento, non deve essere svolto nessun tipo di attività lavorativa, né dipendente né autonoma.
DIFFERENZE CON LE ALTRE PENSIONE DI INVALIDITÀ
La pensione d’inabilità non deve essere confusa con quella d’invalidità ordinaria: in quest’ipotesi, si tratta di un assegno spettante ai lavoratori aventi una riduzione della capacità lavorativa di oltre un terzo ( considerando occupazioni confacenti ad attitudini ed esperienza del soggetto).
Non dev’essere confusa nemmeno con la pensione d’inabilità per invalidi civili al 100%: quest’ultimo è un assegno dovuto a soggetti di età tra i 18 e i 65 anni, impossibilitati a svolgere qualsiasi attività lavorativa, con reddito inferiore a 15.154,24 euro. Trattandosi di un emolumento assistenziale, la provvidenza è dovuta indipendentemente dal versamento di contributi.
AMMONTARE
Tornando al trattamento di inabilità ordinario, l’ammontare è calcolato aggiungendo, alle settimane di contribuzione versate, una maggiorazione convenzionale, che copre il periodo mancante, dalla decorrenza della pensione fino al raggiungimento del sessantesimo anno d’età.
Tra settimane di contribuzione maturate e maggiorazione, ad ogni modo, non possono essere complessivamente superati i 40 anni di anzianità contributiva.
Per coloro che, al 31 dicembre 1995, possedevano meno di 18 anni di contributi, il calcolo della maggiorazione è eseguito con il sistema contributivo, come se il lavoratore inabile avesse l’età pensionabile di 60 anni, indipendentemente dal sesso e dalla gestione di appartenenza(dipendenti, autonomi, fondi particolari). A seguito della “Riforma Monti Fornero” , il calcolo contributivo è altresì applicato per i periodi successivi al 31.12.2011.
MODALITÀ PER L’EROGAZIONE DELLA PENSIONE
Gli step per ottenere la pensione sono i seguenti:
– domandare il rilascio della certificazione sanitaria al proprio medico, mediante la compilazione del modello SS3, reperibile presso il sito dell’Inps;
– inoltrare, assieme alla documentazione necessaria (autocertificazione dello stato di famiglia; situazione reddituale per valutare integrazione al minimo, assegni familiari e maggiorazioni; richiesta detrazioni, data di cessazione dell’attività lavorativa;), domanda di trattamento all’Istituto (tramite sito internet, se in possesso del PIN, oppure telefonicamente, al numero 803.164, o, ancora, tramite patronato);
– sottoporsi all’accertamento medico prescritto dall’Ente.
MATURAZIONE DEL TRATTAMENTO
Il trattamento, se l’istanza è accolta, matura dal mese successivo alla presentazione della domanda.
In caso contrario, è possibile presentare , entro 90 giorni dall’esito, ricorso al Comitato Provinciale dell’Inps.
Ad ogni modo, pur osservando che l’assegno non sia definitivo, poiché le condizioni sanitarie del pensionato possono essere soggette a revisione, ricordiamo che la pensione d’inabilità ordinaria, in quanto assimilata al normale trattamento di quiescenza, è reversibile ai superstiti.
In pratica
Per ottenere la pensione d’inabilità ordinaria nel 2015, i requisiti soggettivi sono:
– Età compresa tra 18 e 65 anni;
– assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa.
I requisiti contributivi sono:
– Almeno 260 settimane d’anzianità contributiva, di cui 156 maturate nel quinquennio precedente alla domanda d’inabilità.
I documenti necessari sono:
– Certificazione del proprio medico (modello SS3);
– autocertificazione dello stato di famiglia;
– modello Red (situazione reddituale);
– eventuale richiesta di integrazione al minimo, assegni familiari e maggiorazioni;
– eventuale richiesta detrazioni reddituali;
– data di cessazione dell’attività lavorativa o di cancellazione da albi ed elenchi;
– modello di domanda d’inabilità ordinaria(AP60_ INAB1).
La domanda può essere effettuata:
– tramite sito web Inps, se in possesso di PIN;
– telefonicamente, al numero 803.164;
– tramite patronato.
Catapano Giuseppe scrive: Equitalia: le lacune che rendono nulla la cartella di pagamento
È nulla la cartella esattoriale notificata da Equitalia al contribuente se in essa non sono facilmente comprensibili le ragioni della pretesa avanzata dal fisco. In buona sostanza, la cartella deve chiarire al destinatario le ragioni per le quali se ne chiede il pagamento. Lo prescrive lo Statuto del contribuente ed, oggi, anche una sentenza della Cassazione pubblicata questa mattina . Non solo va indicato, quindi, il tributo per il quale si chiede il pagamento (elemento che il contribuente potrà trovare specificato nel dettaglio della cartella esattoriale), ma è necessaria anche la massima chiarezza sui criteri usati per l’applicazione dell’aliquota. La legge sul procedimento amministrativo specifica che ogni atto della P.A. deve essere motivato. In particolare, la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se le ragioni dell’atto amministrativo fanno riferimento a un altro atto della P.A. quest’ultimo deve essere indicato e reso disponibile al cittadino. Ebbene, tale principio viene richiamato dallo Statuto dei contribuenti e, quindi, vale anche per le cartelle di Equitalia. Tale principio, comunque, è stato mitigato dalla stessa Cassazione, la quale ha distinto due ipotesi: – se la cartella esattoriale non segue un precedente e specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisce il primo ed unico atto con il quale l’ente impositore esercita la pretesa tributaria, allora essa deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo, e contenere, quindi, gli elementi indispensabili per consentire al contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell’imposizione (per esempio, se la cartella di pagamento non contiene le informazioni necessarie e sufficienti per consentire al contribuente la verifica dell’applicazione dei criteri di liquidazione dell’imposta indicati da una norma o da una sentenza passata in giudicato, a seguito della quale la cartella stessa sia stata emessa); – viceversa, se la cartella esattoriale non costituisce il primo e l’unico atto con cui si esercita la pretesa tributaria, ma è stata preceduta dalla notifica di altro atto propriamente impositivo, non può essere annullata per vizio di motivazione, anche qualora non contenga l’indicazione del contenuto essenziale dell’atto presupposto, in quanto già conosciuto ed autonomamente impugnabile dal contribuente. A riguardo, la Suprema Corte ha anche precisato che la cartella con cui l’Amministrazione chieda il pagamento delle imposte, dichiarate dal contribuente e non versate, non necessita di specifica motivazione : e ciò perché la pretesa tributaria scaturisce dalla pura e semplice obbligazione di pagamento delle imposte, determinate nella dichiarazione del contribuente.
Catapano Giuseppe informa: Avvocato solo se in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente
Il Ministero della Giustizia ha pubblicato lo schema di regolamento per disciplinare le modalità di accertamento dell’attività degli avvocati in attuazione della legge forense [1]. Le implicazioni sono notevoli (e anche penalizzanti) soprattutto alla luce della recente novella che impone agli avvocati l’iscrizione obbligatoria alla Cassa forense.
L’avvocato, se vorrà conservare le condizioni per l’iscrizione all’albo, dovrà necessariamente rispettare tutti i seguenti requisiti (che l’Ordine è tenuto a verificare ogni tre anni):
– dovrà essere titolare di una partita Iva attiva;
– dovrà avere l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in associazione professionale, società professionale o in associazione di studio con altri colleghi;
– dovrà avere trattato almeno cinque affari l’anno anche se l’incarico professionale è stato conferito da altro professionista;
– dovrà avere una Pec comunicata al consiglio dell’ordine;
– dovrà aver assolto l’obbligo di aggiornamento;
– dovrà essere titolare di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione;
– dovrà aver corrisposto i contributi annuali dovuti al consiglio dell’ordine;
– dovrà aver corrisposto i contribuiti dovuti alla Cassa di Previdenza Forense.
Sono questi i requisiti che faranno ritenere che l’avvocato eserciti la professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. L’omissione comporterà la cancellazione dall’Albo se l’avvocato non dimostrerà la sussistenza di giustificati motivi oggettivi o soggettivi.
Quanto all’ultimo requisito – quello relativo al versamento dei contributi alla Cassa Forense – la relazione illustrativa giustifica siffatta previsione perché il versamento di tali contributi, per un verso, è essenziale per il funzionamento dei predetti enti e, per l’altro, è indice della presenza di un suo pur minimo volume di affari. Si tratta di una previsione “unica” nell’ambito del lavoro autonomo. Si pensi che un recente messaggio dell’INPS [2] stabilisce che, in caso di mancato pagamento della rata contributiva con scadenza novembre 2014, non si procede alla cancellazione dalla gestione artigiani e commercianti ma semplicemente l’importo dovuto verrà richiesto tramite avviso di addebito con valore di titolo esecutivo. Invece, nel caso degli avvocati la mancata ottemperanza a una disposizione di carattere previdenziale ha ripercussioni proprio sullo stesso esercizio della professione.
Cancellazione dall’albo
La cancellazione dall’albo è disposta quando il consiglio dell’ordine circondariale accerta la mancanza dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione e l’avvocato non dimostra la sussistenza di giustificati motivi oggettivi o soggettivi.
Il consiglio dell’ordine circondariale, prima di deliberare la cancellazione dall’albo invita l’avvocato, a mezzo posta elettronica certificata ovvero, quando non è possibile, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, a presentare eventuali osservazioni entro un termine non inferiore a trenta giorni. L’avvocato che ne fa richiesta è ascoltato personalmente.
La delibera di cancellazione è notificata entro quindici giorni all’interessato.
Catapano Giuseppe osserva: Praticanti avvocati: ecco il nuovo regolamento sul tirocinio
È pronta la bozza del decreto del Ministero della Giustizia che disciplina il tirocinio per i praticanti che vogliono intraprendere la professione di avvocato. Il nuovo testo, inviato negli scorsi giorni al CNF per il parere, prevede che il praticante debba:
– passare in studio almeno 20 ore settimanali,
– assistere ad almeno 20 udienze per semestre
– infine deve dimostrare di aver collaborato effettivamente allo studio delle controversie e alla redazione di atti e pareri.
Il D.M. prevede che il tirocinio vada svolto con assiduità, diligenza, riservatezza e nel rispetto delle norme di deontologia professionale. Il praticante deve quindi frequentare in modo continuo lo studio del professionista, sotto la supervisione diretta di quest’ultimo per almeno 20 ore settimanali.
È stato regolamentata anche la possibilità di svolgere un semestre di tirocinio in un altro paese dell’Unione Europea, che sarà poi riconosciuto ai fini della pratica anche nel nostro Paese.
Il Consiglio dell’ordine sarà tenuto ad accertare l’assenza di specifiche ragioni di conflitto di interesse e a verificare che l’attività lavorativa si svolga secondo modalità e orari idonei a consentire l’effettivo e puntuale svolgimento del tirocinio.
Sempre nei giorni scorsi il Ministero della Giustizia ha inviato al Cnf anche la bozza dello schema di decreto sul regolamento recante disposizioni per l’accertamento dell’esercizio della professione, dove si prevedono, tra l’altro, i requisiti per lo svolgimento in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione forense (leggi l’articolo di oggi: “Avvocato solo se in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente“).
Giuseppe Catapano: Chiamate e messaggi a raffica sul cellulare: è stalking
Un anno e tre mesi di detenzione: a tanto ammonta la punizione per lo stalking compiuto ai danni dell’ex moglie da parte di un uomo per averla ossessionata con continue telefonate e sms.
Quando il comportamento persecutorio nei confronti della vittima determina, ai danni di quest’ultima, un fortissimo turbamento a livello emotivo, per via del pressing telefonico, inteso anche come intimidatorio e pericoloso non solo per sé ma anche per le persone a lei vicine (per esempio, i figli e il nuovo partner), scatta la condanna penale. A ricordarlo, ancora una volta, è la Cassazione con una sentenza di questa mattina. Non interessa il contenuto delle telefonate, se pacifico o intimidatorio, se rivolto a ottenere un riavvicinamento o meno. È il fatto stesso della ripetuta molestia, ossia il comportamento ossessivo, a integrare il reato. Anche il semplice chiedere “scusa” o una seconda opportunità può far scattare la condanna per stalking. In verità, secondo la giurisprudenza, non rileva tanto la ripetizione dei comportamenti incriminati: anche pochi episodi, purché “martellanti”, possono essere sufficienti a integrare il reato. Tanto più quando si tratta di telefonate e messaggi, i cui tabulati sono facilmente recuperabili o anche attraverso servizi di registrazione come Whooming. Ciò che rileva è soprattutto l’effetto destabilizzante della pressione psicologica compiuta dal molestatore sull’equilibrio psichico della vittima, testimoniato dal timore, da parte di quest’ultima, per l’incolumità propria e per le persone a lei legate, come, ad esempio, l’attuale compagno. In questi casi, oltre alla querela presso la Procura della Repubblica o i Carabinieri, potrebbe costituire una valida e più immediata alternativa la richiesta di ammonimento del Questore (leggi l’approfondimento: “Stalking: l’ammonimento del Questore come via alternativa alla querela”). Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 settembre 2014 – 4 febbraio 2015, n. 5316 Presidente Marasca – Relatore Bevere Fatto e diritto Con sentenza 15.11.2013, la corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza emessa ex art. 438 c.p.p. il 27.3.2013 dal tribunale di Foggia, sezione di Trinitapoli , ha assolto V.R. dal reato di incendio doloso dell’auto di proprietà della moglie separata P.O. per non aver commesso il fatto e ha rideterminato nella misura di un anno e tre mesi di reclusione la pena inflitta per il reato di atti persecutori in danno della predetta. Nell’interesse del V. è stato presentato ricorso per i seguenti motivi 1. violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’art. 612 bis c.p. : l’esame delle telefonate e dei messaggi inviati attraverso il telefono cellulare non hanno contenuto minaccioso e quindi non hanno la potenzialità di porre la persona offesa in stato d’ansia o di paura . La reiterazione di queste comunicazioni costituisce di per sé elemento costitutivo non esclusivamente del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. , ma anche della contravvenzione ex art. 660 c.p.. Sotto questo profilo, la corte ha errato laddove ha affermato che le ripetute telefonate e i ripetuti messaggi costituiscono elemento fondante del delitto contestato, senza aver esaminato la loro potenzialità offensiva nel senso voluto dalla norma ex art. 612 bis c.p.; 2. vizio di motivazione in riferimento al travisamento del contenuto delle dichiarazioni della P. e del sua compagno Rinaldi , avendo attribuito a costoro atteggiamenti dettati dal timore, mentre tali dichiarazioni dimostrano che erano essi ad aver agito nei confronti dell’imputato . L’illogicità della motivazione emerge anche dalla interpretazione del fatto che alcune telefonate minacciose risultano essere state effettuate con un telefono che era nella disponibilità della figlia della persona offesa . Questo dato logicamente interpretato fa venir meno l’attendibilità delle dichiarazioni della P. e della figlia. Il ricorso è inammissibile. I motivi sono manifestamente infondati, in quanto propongono,in chiave critica, valutazioni fattuali, sprovviste di specifici e persuasivi addentellati storici, nonché prive di qualsiasi coerenza logica, idonea a soverchiante e a infrangere la lineare razionalità , che ha guidato le conclusioni della corte di merito. Con esse,in realtà , il ricorrente pretende la rilettura del quadro probatorio e, contestualmente , il sostanziale riesame nel merito. Questa pretesa è tanto più inammissibile nel caso in esame la struttura razionale della motivazione sulla responsabilità in ordine al delitto di atti persecutori – facendo proprie e integrando le analisi fattuali e le valutazioni logico-giuridiche della sentenza di primo grado – ha determinato un organico e inscindibile accertamento giudiziale , avente una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa, che è saldamente ancorata ai risultati dell’istruttoria dibattimentale alla luce dei quali è emerso che 1. nell’arco di tempo, compreso tra il 19 gennaio e il 19 ottobre 2012 , la donna è stata investita da una serie di telefonate, e di messaggi telefonici provenienti dal marito separato V.R., accompagnati da appostamenti presso l’abitazione e il luogo di lavoro; 2. il contenuto di tali messaggi è stato razionalmente e insindacabilmente ritenuto dai giudici di merito ingiurioso e intimidatorio , a danno della persona offesa e dell’attuale compagno Rinaldi Antonio; 3. questi dati provenienti prevalentemente dalle dichiarazioni della P., sono stati sottoposti ad attenta analisi da parte dei giudici di merito che ne hanno posto in rilievo la coerenza logica, la precisione, unitamente alla assenza di convincenti smentite; 4. quanto alla provenienza di alcune telefonate da un’utenza intestata all’imputato , ma nella disponibilità della figlia della donna, a nome S., la corte di merito ha razionalmente rilevato che, a prescindere della titolarità dell’utenza , riferibile all’imputato, e dalla naturale possibilità che sia stata utilizzata anche da costui, i tabulati hanno dimostrato che dalle utenze sicuramente in uso esclusivo del V. sono partite -in un ristretto arco di tempo – 75 chiamate sulle due utenze della persona offesa e 14 su un’altra utenza della donna; 5. l’effetto destabilizzante di queste condotte sull’equilibrio psichico della donna, il timore per l’incolumità propria e per le persone a lei legate , la loro incidenza negativa sulle sue scelte di vita sono stati rilevati dai giudici di merito , con argomentazioni perfettamente fedeli alle risultanze processuali e alla loro razionale interpretazione ( il V. , aveva ostacolato,dopo la separazione nuove relazioni sentimentali della donna; D.F.G., aveva interrotto il rapporto con la P. a causa delle intimidazioni del V.; lo stesso imputato ha ammesso di aver fermato il Rinaldi e di avergli preannunciato “una brutta fine”; a causa dell’ossessiva presenza del V. nei pressi dell’abitazione , la P. aveva proibito alle figlie di affacciarsi alla finestra); Deve quindi ritenersi pienamente fondata probatoriamente e razionalmente la conclusione dei giudici di merito: il V.- già condannato per condotte analoghe- ha commesso in un arco di tempo caratterizzato da particolare pressione psicologica, una serie di comportamenti proiettati a polemizzare sul rapporto cessato e a convincere la donna a una riapertura del dialogo, in vista della ripresa della relazione. In questo quadro di aggressività dal molteplice profilo in danno della donna, si è inserito un correlato comportamento percepito correttamente come intimidatorio nei confronti delle figlie e del compagno della persona offesa . Le conclusioni dei giudici di merito sulla sussistenza di un atteggiamento persecutorio in danno della P. sono quindi pienamente conformi alle risultanze delle indagini e alla loro razionale interpretazione. L’evento scaturito da questo piano di violenza materiale e psicologica è costituito naturalmente da un stato turbamento psicologico della donna,derivante non da un singolo fattore di stimolo ansiogeno, ma da una serie di comportamenti persecutori , che hanno evidentemente determinato una rottura nell’equilibrio emotivo della donna che si è espressa in un crescendo, di tensione,preoccupazione, nervosismo, paura, di grave spessore e perdurante nel tempo , data la stabilità dell’atteggiamento intimidatorio rancoroso e vendicativo dell’uomo . Questo perdurante stato di turbamento emotivo è stato ragionevolmente ritenuto idoneo a essere inquadrato nell’evento di cui all’art. 612 bis c.p Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Catapano Giuseppe informa: Assenza ingiustificata dopo la malattia: lavoratore licenziato
Conclusa la malattia, il dipendente deve tornare a lavoro. Inutile l’invio, a posteriori, di un ulteriore certificato di malattia. Si tratta di un comportamento grave che può subìre una sanzione disciplinare, ma se ripetuto più volte nel tempo può portare anche al licenziamento. Lo ha chiarito la Cassazione con una sentenza di questa mattina [1]. Il problema parte dalla “assenza ingiustificata” in azienda, una volta concluso il legittimo periodo di malattia. Ne segue, di norma, la sanzione disciplinare da parte dell’azienda (per esempio, la “sospensione dal lavoro e dalla retribuzione”). Difatti, alla scadenza del periodo di malattia, il dipendente ha l’obbligo di comunicare che non può far ritorno al lavoro. La recidiva poi, in tale prassi comportamentale, giustifica il licenziamento. L’invio successivo del certificato medico non sana l’omissione della tempestiva comunicazione dello stato di malattia che va fatta, ovviamente, in anticipo, in modo da non pregiudicare l’organizzazione dell’azienda. La Suprema Corte ricorda che le assenze debbono essere sempre segnalate, prima dell’inizio del turno di lavoro, alle persone o all’ufficio a tanto preposto dalla struttura sanitaria, giustificate immediatamente e, comunque, non oltre le ventiquattro ore, salvo legittimo e giustificato impedimento. In ogni caso, comunque, eguale comunicazione deve essere effettuata, prima dell’inizio del turno di servizio, anche nel caso di eventuale prosecuzione della malattia stessa. Difatti, la tempestività della comunicazione è strettamente correlata alla necessità di trovare valide alternative di servizio, nel caso di improvvisa assenza degli addetti ai turni, specie in caso di attività lavorative che non possono trovare interruzione per via del particolare servizio svolto. Nel caso, poi, in cui il CCNL preveda che il lavoratore, che si assenta dal servizio per malattia, abbia l’obbligo di comunicare al datore di lavoro l’inizio della malattia, la omessa comunicazione costituisce una infrazione suscettibile di sanzione disciplinare: è irrilevante, conclude la sentenza, il fatto che il lavoratore abbia comunque inviato il certificato medico giustificativo dell’assenza. Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 25 novembre 2014 – 4 febbraio 2015, n. 2023 Presidente Stile – Relatore Mammone Svolgimento del processo 1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Catania, l’Associazione assistenziale “Villa Sandra” conveniva in giudizio il suo dipendente I.N. perché fosse accertata la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per quattro giorni, allo stesso comminata il 19.03.02 perché, alla scadenza di un periodo di malattia, non aveva comunicato che non sarebbe tornato al lavoro. Costituitosi in giudizio, il dipendente contestava la domanda e, dedotto di essere stato licenziato nelle more per recidiva nella sanzione disciplinare (irrogata tre volte), in via riconvenzionale chiedeva che il licenziamento fosse dichiarato illegittimo e fosse ordinata la sua reintegrazione e che il datore fosse condannato al risarcimento del danno. 2.- Avendo il Tribunale ritenuto legittima la sanzione disciplinare e rigettato la domanda riconvenzionale, il dipendente proponeva appello contestando entrambe le pronunzie, assumendo di aver dato giustificazione dell’assenza e contestando, altresì, l’esistenza della recidiva, dato che le sanzioni irrogate erano state impugnate dinanzi al collegio di conciliazione ed arbitrato ex art. 7 stat. lav. ed erano divenute inefficaci per la mancata nomina dell’arbitro da parte del datore. La Corte d’appello di Catania con sentenza del 6.08.13 rigettava l’impugnazione, rilevando che non era stato provato che il lavoratore: a) quanto alla sanzione conservativa irrogata in data 19.03.02 per l’assenza ingiustificata, avesse comunicato in via informale di essere ammalato; b) quanto al licenziamento, avesse depositato la richiesta di costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato per accertare la legittimità delle due sanzioni ulteriori (comminate nei giorni 22.07.02 e 11.06.02) ed avesse invitato il datore a nominare il proprio rappresentante. Constatata l’efficacia delle sanzioni, la Corte riteneva infondate anche le contestazioni di merito formulate al riguardo. 3.- Avverso questa sentenza Italiano propone ricorso per cassazione, cui risponde il datore con controricorso e memoria. Motivi della decisione. 4.- Il ricorrente deduce violazione del contratto collettivo di categoria, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. sotto due diversi profili: 4.1. a proposito della ritenuta legittimità della sanzione irrogata in data 19.03.02 per aver il lavoratore comunicato con ritardo lo stato di malattia, sostiene che il giudice avrebbe ritenuto ingiustificata la sua assenza sulla base di dichiarazioni scritte di altri dipendenti, illegittimamente confermate in appello con prova testimoniale, mentre non aveva tenuto conto che egli aveva trasmesso tempestivamente un nuovo certificato medico; 4.2.- a proposito della legittimità delle tre sanzioni disciplinari irrogate in date 19.03.02, 11.06.02 e 22.07.02, in quanto il giudice non avrebbe tenuto conto che le sanzioni erano state irrogate in forza di insussistenti circostanze e che, in ogni caso le stesse erano divenute inefficaci in forza dell’impugnazione dinanzi al collegio di conciliazione ed arbitrato. 5.- L’art. 33 del CCNL 1998-2001 del personale dipendente delle strutture sanitarie associate AIOP, ARTS e Fondazione don Carlo Gnocchi, pacificamente applicabile al caso di specie, prevede che “sempreché si configuri un notevole inadempimento e con il rispetto delle normative vigenti, è consentito il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo [nei casi di]: a) … b) … c) recidiva in qualunque mancanza quando siano stati comminati due provvedimenti di sospensione disciplinare nell’arco di un anno dall’applicazione della prima sanzione; … “. La “sospensione” ivi menzionata è da ritenere riferita alla sanzione conservativa della “sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un periodo non superiore a dieci giorni”, prevista in altra sede dallo stesso art. 33. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 41 del successivo contratto 2002-2005. 6.- Nel caso di specie il lavoratore fu sottoposto a tre sanzioni disciplinari irrogate rispettivamente in date: a) 19.03.02 (per mancata comunicazione del prosieguo dello stato di malattia); b) 11.06.02 (per smarrimento delle chiavi di un armadio affidate alla sua custodia); c) 22.07.02 (per non veritiera denunzia di un infortunio). Il licenziamento fu irrogato in data 6.08.02, dopo che era stato contestato un ulteriore illecito disciplinare. 7.- Il giudice di merito ha ritenuto legittima l’irrogazione di tutte le tre sanzioni sopra menzionate: la prima per una considerazione di merito (ritenendo che il lavoratore avesse violato l’obbligo di dare comunicazione dell’inizio della malattia), la seconda e la terza perché divenute definitive, non avendo il lavoratore dato prova della sua tesi difensiva, secondo cui le due sanzioni sarebbero rimaste sospese (e quindi non operative) ai sensi dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori, non avendo il datore proceduto alla nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione ed arbitrato. 8.- Quanto al primo motivo, con cui si sostiene che l’invio del certificato medico avrebbe sanato ogni omissione circa la tempestiva comunicazione dello stato di malattia, deve rilevarsi che l’art. 31 del CCNL 1998-2001 statuisce che “le assenze debbono essere segnalate prima dell’inizio del turno di lavoro alle persone o all’Ufficio a tanto preposto dalla Struttura sanitaria, giustificate immediatamente e comunque non oltre le ventiquattro ore, salvo legittimo e giustificato impedimento In caso di malattia, eguale comunicazione deve essere effettuata, prima dell’inizio del turno di servizio, anche nel caso di eventuale prosecuzione della malattia stessa”. La norma ha una sua logica interna, in quanto, in considerazione della particolarità della funzione professionale degli assistenti educatori, la tempestività della comunicazione è strettamente correlata alla necessità di trovare valide alternative di servizio nel caso di improvvisa assenza degli addetti ai turni di assistenza. Essa, nel momento in cui impone la segnalazione dell’assenza “prima dell’inizio del turno” intende, dunque, tutelare la corretta esecuzione del servizio, che è interesse del datore (ed in pari misura degli utenti), ulteriore e diverso da quello della verifica della effettività dello stato di malattia. Questo è il senso dell’affermazione contenuta nella sentenza 10.02.00 n. 1481 di questa Corte, secondo cui ove il contratto collettivo preveda che il lavoratore che si assenta dal servizio per malattia abbia l’obbligo di comunicare al datore di lavoro l’inizio della malattia, la omessa comunicazione vale ad integrare un’infrazione suscettibile di sanzione disciplinare, restando irrilevante che il lavoratore abbia comunque inviato il certificato medico giustificativo dell’assenza. Tale sentenza, citata dal giudice di merito, pur attinente a diversa fattispecie, con la puntualizzazione di scopo appena effettuata è sicuramente pertinente al caso di specie. Il primo motivo è, dunque, infondato. 9.- Il secondo motivo è, invece, inidoneo a colpire il decisum della sentenza impugnata. La Corte d’appello, all’esito di una compiuta indagine istruttoria, basata sull’esame di documentazione prodotta in atti e di informazioni richieste all’UPLMO competente, ha infatti accertato che il ricorrente non ha provato di aver presentato la domanda di costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato e, meno che, mai di aver invitato il datore a nominare il suo rappresentante nell’ambito del collegio. Con il motivo in esame il ricorrente contesta tale affermazione ribadendo di aver fornito la prova richiesta mediante la detta produzione documentale, omettendo di dare seguito alcuno a tale affermazione; in particolare egli non illustra quale fosse il contenuto della documentazione prodotta e se essa contenesse effettivamente la richiesta di costituzione del collegio, in modo da smentire il contrario avviso del giudice di appello, ma si dilunga in una improduttiva ed inconferente censura delle circostanze di fatto oggetto delle contestazioni sfociate nelle sanzioni disciplinari. In mancanza di tale puntuale contestazione, il motivo è affetto da insanabile genericità e deve essere rigettato. 10.- Infondati i motivi di impugnazione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo. 11.- Pur essendo il ricorso notificato dopo l’entrata in vigore dell’art. 13, c. 1 quater, del d.P.R. 30.05.02 n. 115, che apporta innovazioni al regime delle spese di giustizia per il caso di rigetto dell’impugnazione, il ricorrente, risultando ammesso al gratuito patrocinio, non deve essere onerato delle conseguenze amministrative ivi previste (Cass. 2.09.14 n. 18253). P.Q.M. La Corte così decide; a) rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 100 (cento) per esborsi ed in € 3.000 (tremila) per compensi oltre Iva, Cpa e spese forfettarie nella misura del 15%; b) ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater, del d.P.R. 30.05.02 n. 115, dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso,.a norma del c. 1 bis dello stesso art. 13.
Catapano Giuseppe informa: Certificato medico: meglio scrivere “da me visitato in data odierna”
Attenzione a non farvi trovare a casa al momento della visita fiscale (gli orari, per il 2015, sono cambiati e li trovate qua “Visite fiscali INPS: orari e giorni di reperibilità dal 2015”). Anche motivando l’assenza sulla base di una asserita visita dal medico, questa va provata documentalmente. E il suggerimento, a tal proposito, proviene da una non recentissima sentenza del TAR di Reggio Calabria .
Innanzitutto i giudici amministrativi ricordano che va sanzionata, perché è da ritenersi ingiustificata, l’assenza dal domicilio del dipendente al momento della visita fiscale. Se quest’ultimo ha affermato di aver lasciato la propria abitazione per recarsi dal medico di fiducia per il rilascio di un certificato, è bene che ciò risulti dalle certificazioni presentate. Se in esse, infatti, non viene affermato che l’interessato è stato visitato dal medico presso l’ambulatorio allora la giustificazione risulterà poco credibile. Ecco perché – suggerisce tacitamente la sentenza – è bene che la certificazione del medico riporti sempre la tradizionale dicitura “da me visitato in data odierna“. Anche le certificazioni successive, in cui viene richiamata la prima certificazione, dovrebbero sempre affermare che il dipendente, nello specifico giorno, si è personalmente recato presso l’ambulatorio ed è stato sottoposto a visita. “Da me visitato in data odierna” Il Tribunale Amministrativo ha rigettato il ricorso del lavoratore perché, nel certificato da questi prodotto, il medico non aveva attestato di aver visitato “in data odierna” il dipendente. Il che ha fatto sì che mancasse la prova del fatto che il lavoratore si fosse allontanato dal domicilio – così come dallo stesso affermato – proprio per farsi sottoporre a controllo in ambulatorio. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione Staccata di Reggio Calabria ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1025 del 2002, proposto da: A., rappresentato e difeso dall’avv. PB, con domicilio eletto presso … contro Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale, presso i cui uffici in Reggio Calabria, via del Plebiscito, 15 è per legge domiciliato per l’annullamento del provvedimento n. …./. del …. con il quale al ricorrente è stata inflitta la sanzione disciplinare della pena pecuniaria nella misura di 2/30 di una mensilità dello stipendio con la seguente motivazione: “annunciatosi ammalato risultava assente alla visita fiscale presso il domicilio nel quale aveva dichiarato di trascorrere il periodo di malattia”. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO Il ricorrente, all’epoca dei fatti agente in servizio presso il XII Reparto Mobile della Polizia di Stato, impugnava la sanzione pecuniaria infertagli a seguito di procedimento disciplinare, per il fatto che egli risultava assente alla visita fiscale, nonostante avesse comunicato di non potersi presentare quel giorno alla visita presso la C.M.O. di Messina perché non era in condizioni di viaggiare a causa di una forte emicrania. Asserisce il ricorrente di aver lasciato la propria abitazione per recarsi dal medico di fiducia per il rilascio di un certificato ed il fatto che egli non fosse in grado di viaggiare risulterebbe appunto da una successiva certificazione medica, del 16 gennaio 2002, e non contrasterebbe col fatto che egli non è stato rintracciato al domicilio, in quanto dal medico egli sarebbe stato accompagnato in auto da un congiunto. Chiede, dunque, l’annullamento della sanzione inflitta, ritenendola illegittima per violazione e falsa applicazione dell’art. 5 , n. 2, DPR 737/81. Si costituisce l’amministrazione insistendo per il rigetto del ricorso e rappresentando il fatto che nel corso del procedimento disciplinare non era stata fornita alcuna documentazione attestante che il B. al momento della visita fiscale (ore 11,25) si trovasse dal medico. In vista dell’udienza di merito l’Avvocatura dello Stato produceva una nota del Questore del 28 febbraio 2010, nella quale è riferito che il B. è cessato dall’impiego per dimissioni volontarie con decorrenza 19 agosto 2004. Ritiene il collegio, che nonostante le intervenute dimissioni, non si possa addivenire ad una declaratoria di improcedibilità del ricorso, residuando un profilo di interesse alla decisione di merito, di tipo patrimoniale, anche in considerazione della natura della sanzione inflitta. Ciò premesso osserva il Tribunale che il ricorso è infondato. Come rilevato in sede di procedimento disciplinare (vd. verbale di seduta del 26 marzo 2002) non è stato dimostrato che il B. fosse effettivamente dal medico proprio all’orario della visita. Solo successivamente, in data 29 marzo 2002, è stato rilasciato dal medico un ulteriore certificato nel quale si afferma che la certificazione del 26 novembre “è stata rilasciata dalla ore 11 alle ore 11.30 circa nel mio ambulatorio”. Rileva comunque il Tribunale che in nessuna delle certificazioni rilasciate dal Dott. F. al B. è affermato che questi è stato visitato dal medico presso l’ambulatorio. In particolare nella certificazione del 26 novembre 2002 non è riportata la tradizionale dicitura “da me visitato in data odierna”, ma è solo certificato che il B. è affetto da cervicalgia. Anche nelle certificazioni successive (quella del 16 gennaio e del 29 marzo 2002) si richiama la certificazione datata 26 novembre, senza mai affermare che il B., in quel giorno, si fosse personalmente recato presso l’ambulatorio e fosse stato sottoposto a visita. Ne consegue che legittimamente l’assenza dal domicilio al momento della visita fiscale è stata ritenuta ingiustificata e, dunque, sanzionata. Il ricorso va, dunque, respinto, ma si ravvisano giusti motivi per compensare le spese della lite. P.Q.M. Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – sezione staccata di Reggio Calabria – definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Reggio Calabria nella camera di consiglio del giorno 07/04/2010 con l’intervento dei Magistrati: Italo Vitellio, Presidente Caterina Criscenti, Consigliere, Estensore Salvatore Gatto Costantino, Primo Referendario DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 05 MAG. 2010.