Società in attesa di poter riscuotere il “credito” vantato nei confronti di un Comune. Ma tale introito virtuale – peraltro, da definire con certezza – non rende meno grave la condotta del rappresentante della compagine, accusato di “omesso versamento dell’Iva dovuta, in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”.
Conseguenziale la condanna alla “pena, condizionalmente sospesa, di un anno di reclusione”, condanna resa definitiva dalla decisione della Cassazione.
Per i giudici di terzo grado, difatti, l’“omesso versamento dell’Iva” – pari a quasi 112mila euro – non è giustificabile colla “situazione di insolvenza” lamentata dalla società, e attribuibile, secondo il rappresentante dell’azienda, alla “mancata riscossione di un credito verso il Comune”.
Tale valutazione è poggiata su diversi elementi. Prima di tutto, la “mancata allegazione di elementi volti a determinare con esattezza la quota di credito” della società “rispetto all’intero ammontare (240.000 euro) dovuto al consorzio di imprese” di cui essa è parte. Altrettanto rilevante, poi, la mancanza di documenti relative alle “iniziative, giudiziarie e non, volte al recupero della somma dovuta”.
Assolutamente fragile, quindi, la tesi proposta dalla società – e finalizzata a ‘giustificare’ l’“omesso versamento dell’Iva” –, anche perché, concludono i giudici, “si ha solo una diffida ad adempiere fatta dall’associazione di imprese, avente ad oggetto un credito pari, nel complesso, a 240.000 euro” senza specificare “quale quota dell’intera somma spetterebbe alla società”.